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Usiamo il dialogo, non il silenzio - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 12:23

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Usiamo il dialogo, non il silenzio

Nella sua annuale Proposta di pace inviata alle Nazioni Unite Daisaku Ikeda riflette profondamente sul significato delle parole “dialogo” e “umanesimo”. Su cosa significhi, al di là di ogni retorica e facile ideologia, decidere in prima persona di utilizzare sempre e a qualunque costo lo strumento peculiarmente umano del linguaggio per impartire una nuova direzione al corso dell’umanità. Ne pubblichiamo in anteprima alcuni brani. Il testo completo e definitivo sarà pubblicato sul numero 110 di Buddismo e Società

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Nella sua annuale Proposta di pace inviata alle Nazioni Unite Daisaku Ikeda riflette profondamente sul significato delle parole “dialogo” e “umanesimo”. Su cosa significhi, al di là di ogni retorica e facile ideologia, decidere in prima persona di utilizzare sempre e a qualunque costo lo strumento peculiarmente umano del linguaggio per impartire una nuova direzione al corso dell’umanità. Ne pubblichiamo in anteprima alcuni brani. Il testo completo e definitivo sarà pubblicato sul numero 110 di Buddismo e Società

«Come può l’umanità del ventunesimo secolo superare la crisi che ha di fronte?
Ovviamente non c’è una soluzione facile, una “bacchetta magica” che possiamo agitare per far sì che tutto vada a posto. La strada che abbiamo di fronte è irta di pericoli in quanto richiede di trovare una risposta appropriata a un tipo di violenza che respinge ogni tentativo di instaurare una relazione o un dialogo.
E tuttavia non c’è alcun bisogno di cadere in un pessimismo improduttivo e senza senso. Tutti questi problemi sono causati dagli esseri umani e dunque devono avere una soluzione umana. Per quanto lunga possa essere la strada da percorrere, fintantoché non abbandoneremo il compito di districare quest’imbrogliata matassa di problemi interrelati, possiamo star certi che troveremo un modo di uscirne.
Il nucleo di tali sforzi dovrebbe consistere nel far emergere compiutamente le potenzialità del dialogo. Fintantoché ci sarà la storia dovremo affrontare la sfida perenne di realizzare, mantenere e rafforzare la pace attraverso il dialogo, di fare del dialogo il sentiero sicuro e certo verso la pace. Questa convinzione va sostenuta e dichiarata senza posa, indipendetemente dalle critiche ciniche o dai freddi sorrisi condiscendenti che otterremo in risposta.
Mi tornano alla mente le parole del poeta Rabindranath Tagore (1861-1941) i cui scritti ispirano in me un amore e un rispetto di lunga data: «Chiede il Possibile all’Impossibile “Dov’è la tua dimora?” Giunge la risposta: “Nei sogni di chi si sente impotente”».

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«Credo fermamente, e l’esperienza me l’ha confermato, che la base del dialogo necessario nel ventunesimo secolo debba essere l’umanesimo, un umanesimo che vede il bene in tutto ciò che ci avvicina e ci unisce e il male in ciò che ci divide e ci separa gli uni dagli altri.
Ripensando ai miei sforzi per alimentare questo tipo di dialogo sono diventato sempre più consapevole di quanto urgente sia il bisogno di reindirizzare le energie del dogmatismo e del fanatismo – causa di così tanti conflitti mortali – verso una prospettiva più umanistica. In un mondo dominato dal terrorismo e dalla rappresaglia, dai conflitti basati sulle differenze etniche e religiose, un simile tentativo può apparire senza speranze. E tuttavia io sono convinto che dobbiamo continuare a sforzarci in direzione di questo obiettivo.
Quando parlo di umanesimo non mi riferisco a qualcosa da contrapporre al dogmatismo o al fanatismo in un scontro sterile fra “ismi” in competizione.
La vera essenza e pratica dell’umanesimo risiede in un dialogo personale cuore a cuore. Che si tratti di incontri diplomatici al vertice o delle varie interazioni fra privati cittadini di diversi paesi, il dialogo autentico ha quel tipo d’intensità che il grande umanista e filosofo del ventesimo secolo Martin Buber (1878-1969) descriveva come incontro «su uno stretto crinale», nel quale la minima disattenzione può risultare in una precipitosa caduta. Il dialogo è esattamente un incontro di questo tipo, intenso e ad alto rischio.
Credo che l’analogia dei “correttori di assetto”, le alette regolabili sulle ali degli aeroplani o sulla chiglia delle barche, sia appropriata. R. Buchminster Fuller, progettista e filosfo, sottolineò che il correttore di assetto sul timone di una nave può essere manovrato senza ulteriori aiuti da un singolo individuo, facilitando il movimento del timone in modo da consentire il cambio di direzione di una nave enorme. L’umanesimo può giocare un ruolo simile nel ridirigere il corso della società globale.
Le onde del dialogo che si moltiplicano e si diffondono hanno il potere di generare quel tipo di cambiamento che reindirizzerà le forze del fanatismo e del dogmatismo. L’influsso cumulativo di questi sforzi apparentemente piccoli è a mio avviso sufficiente a impartire un nuovo indirizzo alla corrente dei tempi, così come un piccolo correttore di assetto può regolare il corso di una grande nave o di un aeroplano. Ciò che è essenziale è il duro e paziente lavoro di sfidare, attraverso una battaglia spirituale fatta di incontri e dialoghi intensi, le prese di posizione e gli attaccamenti che imprigionano e condizionano le persone».

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«Il fanatismo e il dogmatismo assumono varie forme. Alcuni li associano immediatamente alle religioni monoteiste ma in realtà possiamo ritrovarli in tutto lo spettro delle attività umane. Anche il Buddismo, spesso ritenuto relativamente immune da simili estremismi, è tutt’altro che libero dai loro tranelli […] E naturalmente il fanatismo non è limitato alla religione. […]
In una certa misura qualsiasi ideologia include in sé un’ortodossia e una maniera prestabilita di intendere il mondo. […]
Un’ortodossia può essere qualcosa di positivo, nella misura in cui serve da norma che guida le azioni delle persone verso fini costruttivi. Ma allo stesso tempo è possibile che questi “ismi” comincino a vincolare a un unico ed esclusivo punto di riferimento il pensiero e il libero giudizio delle persone. Quando si perde il controllo di questa tendenza, gli “ismi” astratti possono finire col tenere in schiavitù le persone reali e la loro vita. […]
Il fanatismo sorge quando questo aspetto distruttivo si espande in maniera spoporzionata, conducendo a una situazione in cui grottescamente la vita umana viene svalutata, mentre la morte, propria e degli altri, viene glorificata. Ciò spiega il fatto che il ventesimo secolo sia stato al tempo stesso un’era di ideologie e di massacri senza precedenti.
Indubbiamente l’umanesimo sostiene l’umanità, sia in senso concreto che come qualità astratta, come assunto morale fondamentale. Ma esso non cerca di stabilire su tale base un insieme prefissato di regole per guidare tutti i giudizi e tutte le azioni».
«È quando affrontiamo dolorosi dilemmi e decisioni difficili che la nostra capacità di rimanere fedeli a un processo di libera e autonoma scelta decisionale – di essere fedeli a ciò che personalmente consideriamo umano – viene messo massimamente alla prova».

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«La vita di Albert Einstein è un esempio assai calzante di questo punto. Einstein, uomo di eccezionale e profondo impegno per la pace, in quanto ebreo fu soggetto a ripetute vessazioni e minacce di violenza da parte dei Nazisti. Dopo un intenso conflitto interiore, Einstein giunse alla decisione che l’unico modo di impedire che la situazione volgesse al peggio era opporsi attivamente al Nazismo. Si trattava dello stesso Einstein che ammirava profondamente il Mahatma Gandhi e che in precedenza aveva dichiarato: «Preferirei essere fatto a pezzi che sparare a qualcuno perché me l’hanno ordinato». Se interpretassimo quest’affermazione in maniera dogmatica, il suo mutamento di posizione sembrerebbe un compromesso con i suoi principi. Ma, come egli spiegò, «i principi sono fatti per gli uomini, non gli uomini per i principi».
E qui è importante tenere a mente diverse cose.
La prima è che Einstein fu costretto a concludere che non opporre resistenza alla violenza infame e unitalerale dei Nazisti equivaleva ad appoggiarne la furia distruttrice.
La seconda è che il suo avallo alla decisione di produrre (anche se non di usare) armi atomiche fu frutto della paura delle atroci conseguenze che sarebbero derivate se i nazisti le avessero prodotte per primi. Quando, contrariamente a ciò che desiderava, furono lanciate le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, egli rimpianse il suo coinvolgimento, descrivendolo in seguito come «l’unico grande errore della mia vita».
La terza è che il senso di colpa e di responsabilità lo indussero, nel dopoguerra, a raddoppiare gli sforzi come pacifista e adoperarsi per l’abolizione delle armi nucleari e l’istituzione di un governo mondiale.
Credo che il filo conduttore del complesso dramma interiore della vita di Einstein sia che ciascuna di queste decisioni, difficili e rischiose, fosse la concretizzazione di un’incessante ricerca di ciò che sentiamo umano, del criterio universale di umanità a cui alludevamo in precedenza. L’essenza e la dimostrazione dell’umanesimo risiede, a mio avviso, nella battaglia nel conflitto interiore che si genera nel perseguire il bene. Nel bel mezzo del vortice nazista, Eistein dichiarò ripetutamente: «Dobbiamo cambiare il cuore delle persone», cosa che era impossibile realizzare senza questo tipo di battaglia interiore».
«Il penetrante assunto di base di Einstein, che i principi sono fatti per le persone e non le persone per i principi, è un modo semplice ma diretto di esprimere quello che potremmo considerare il punto nodale dell’umanesimo. Ma, come dimostrano le battaglie spirituali di questo grande personaggio del ventesimo secolo, niente è più difficile da mettere in pratica. Troppo spesso le religioni e le ideologie politiche hanno asservito e in ultima analisi sacrificato gli esseri umani sull’altare delle regole inderogabili e dei principi astratti. Quest’inversione della rispettiva importanza di persone e principi deriva da una tendenza profondamente radicata nella natura umana che sembra spingerci fra le bracca del dogmatismo e del fanatismo. L’evidenza storica a questo proposito è veramente agghiacciante».
«Nella mia proposta di tre anni fa delineavo alcune considerazioni buddiste, riguardo alla filosofia e alla prassi dell’umanesimo. Vorrei cogliere questa opportunità per approfondirle ulteriormente e in particolare per affermare i tre seguenti assunti come elementi essenziali di un umanesimo ispirato al Buddismo.
1) Tutte le cose sono relative e mutevoli.
2) È essenziale sviluppare la capacità di discernere tale natura relativa e mutevole della realtà e al tempo stesso sviluppare una salda autonomia che non si faccia sopraffare da essa.
3) Sulla base di tale discernimento e autononomia occorre accettare tutto ciò che è umano senza discriminazioni, rifiutando di circoscrivere le persone o streotiparle sulla base dell’ideologia, della nazionalità o dell’etnia. Bisogna decidere di ricercare attivamente ogni possibile occasione di dialogo e non permettere mai che le strade in questa direzione vengno interrotte». […]
«Secondo il modo di intendere il Buddismo attualmente prevalente in gran parte del mondo, il terzo assunto che ho enunciato, l’impegno attivo nei confronti dell’azione e del dialogo può apparire sorprendente. Può sembrare contrario all’immagine contemplativa genericamete associata al Buddismo…»

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«Non è affatto sorprendente che molte persone, di fronte ai vicoli ciechi apparenti della civiltà occidentale, il cui sviluppo sensazionale si è sempre basato sulla centralità accordata alla razionalità e al linguaggio (logos), stia cercando la guarigione e la salvezza in istanze che vengono considerate buddiste e che contrastano con questa visione del mondo incentrata sul linguaggio.
Ma, fino a quando la capacità di usare il linguaggio rimarrà l’attributo distintivo delle specie umana, non potremo rimanere in silenzio e sperare di realizzare così l’ideale dell’umanesimo. In tal senso non abbiamo altra scelta che immergerci nell’umanità e buttarci concretamente nell’oceano del dialogo».

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«In termini più pratici ciò significa affrontare il male e l’infelicità che sono aspetti inevitabili dell’esistenza umana. La frase di Vimalakirti «Quando gli esseri viventi sono ammalati, il bodhisattva è ammalato; quando gli esseri viventi guariscono anche il bodhisattva guarisce» esprime l’altruistica risoluzione del bodhisattva di intraprendere esattamente questa impresa. È una decisione che ha un ruolo centrale nel Buddismo Mahayana. La tradizione Mahayana – quella tradizione che va dal Sutra del Loto fino a Nichiren e che informa la pratica dei membri della SGI – incoraggia vigorosamenta la pratica dinamica del bodhisattva, fatta di dialogo e di coinvolgimento umano».
«Alla luce di quanto esposto vorrei proporre le seguenti indicazioni per un umanesimo attivo. Anzitutto, riconoscendo che tutto cambia all’interno di una cornice di interdipendenza, è ovvio considerare l’armonia e l’unità come espressioni della nostra interconnessione. Ma possiamo apprezzare allo stesso modo anche la contraddizione e il conflitto. La battaglia contro il male – una battaglia che scaturisce dallo sforzo interiore per padroneggiare le nostre stesse contraddizioni e conflitti – dovrebbe esser considerata una prova difficile ma inevitabile a cui dobbiamo sottoporci per riuscire a creare un senso di connessione più grande e profondo».

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«Se rifiutiamo di operare discriminazioni in base a stereotipi o a limitazioni imposte, possiamo riconoscere l’unità che soggiace sia alla relazione positiva che a quella negativa e impegnarci con tutta la nostra energia vitale in un dialogo in grado di trasformare anche il conflitto in un legame produttivo. In quest’impresa risiede l’autentico contributo che può dare un umanesimo basato sul Buddismo.
Questa è stata la convinzione che ha sostenuto tutti i miei sforzi di questi anni».

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