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Una lunga lotta per la giustizia - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 09:31

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Una lunga lotta per la giustizia

3. Si conclude con questo numero il saggio che Daisaku Ikeda ha dedicato a Dante Alighieri. La vita del poeta è un esempio della fermezza necessaria a chiunque scelga di difendere i diritti dell’uomo e la sua stessa dignità

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3. Si conclude con questo numero il saggio che Daisaku Ikeda ha dedicato a Dante Alighieri. La vita del poeta è un esempio della fermezza necessaria a chiunque scelga di difendere i diritti dell’uomo e la sua stessa dignità

Dante continuò a lavorare alla Divina Commedia fino a poco prima della morte, portando a compimento quasi nello stesso tempo il suo capolavoro e la sua vita. Il poema trabocca di tutta la scienza del suo tempo, dai classici greci e latini alle nuove scienze naturali giunte in Italia dall’Arabia, il che lo rende una sorta di enciclopedia virtuale dell’epoca. Il suo protagonista, lo stesso Alighieri, scende da vivo nell’Inferno, che sprofonda a forma di imbuto dalla superficie della terra fino al suo centro. Sale poi la montagna del Purgatorio, al di sopra della terra, per giungere infine alle vette del Paradiso, che si estende per tutto l’universo. La Divina Commedia ci racconta questo viaggio straordinario.
Alla soglia dell’Inferno, guidato dal suo maestro, il poeta romano Virgilio, Dante vede l’iscrizione: «Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate!» (Inferno, III, 9) e ode pianti e lamenti. Oltre la porta ci sono coloro che hanno vissuto senza fare né il bene né il male. Nudi, vengono punti da grossi insetti, e sangue e lacrime si mescolano sui loro volti: questa è la retribuzione per non aver mai pianto o sanguinato per gli altri. Respinti dal Paradiso e senza poter entrare nell’Inferno vero e proprio, abbandonati da tutti, vagano disperati nell’anticamera dell’Inferno, poiché chi non ha veramente vissuto non ha speranza di morire davvero. Tra costoro ci sono ecclesiastici che furono codardi e al momento opportuno non protessero i fedeli, come avrebbero dovuto.
«[L’uom] – scrive Dante – ché quale aspetta prego e l’uopo vede, / malignamente già si mette al nego» (Purgatorio, XVII, 59-60) [che aspetta di essere pregato pur vedendo il bisogno del suo soccorso e malignamente si dispone a negare il suo aiuto, n.d.r.]. Considerava fondamentale agire sempre per il meglio, anziché restare spettatori passivi, e in un’altra opera scrisse che restare in silenzio è spregevole come allearsi con il nemico (Convivio, 4.29.4). Tacere o chiudere gli occhi di fronte al male equivale, infatti, a commetterlo.
L’Inferno è suddiviso in nove cerchi: più si scende, più gravi sono le colpe commesse e i relativi castighi. Dal primo al quinto cerchio si estende la parte superiore, dove chi ha commesso offese come lussuria, cupidigia e ira subisce pene adeguate ai propri peccati.
In un certo posto, gruppi di prodighi e di avari si contendono enormi pesi, facendoli rotolare avanti e indietro. Scrive Dante: «Percotëansi ’ncontro; e poscia pur lì / si rivolgea ciascun, voltando a retro, / gridando: “Perché tieni?” e “Perché burli?”» (Inferno, VII, 28-30) [facendo rotolare enormi pesi si scontrano gli uni contro gli altri e, non potendo avanzare, tornano indietro schernendosi a vicenda: «Perché accumuli il denaro?» «Perché lo sperperi?», n.d.r.].
Osservandoli, Virgilio commenta: «Questi fuor cherci, che non han coperchio / piloso al capo, e papi e cardinali, / in cui usa avarizia il suo soperchio» (Inferno, VII, 46-48) [questi con la tonsura al capo furono chierici di alta condizione, papi e cardinali, nei quali l’avarizia mostra il suo eccesso, n.d.r.].
I due poeti procedono poi verso le regioni più basse dell’Inferno. Nel sesto cerchio, dove vengono puniti gli eretici, crepitano fiamme eterne, e anche Nichiren Daishonin scrive dell’Inferno definendolo “terribile dimora di fuoco” (SND, 4, 244). Il settimo, quello dei violenti, è invece come «la riviera del sangue in la qual bolle / qual che per vïolenza in altrui noccia» (Inferno, XII, 47-48) [il fiume di sangue bollente nel quale è immerso chiunque usi violenza ad altri, n.d.r.].
Il Buddismo insegna che «Un giorno di vita è molto più prezioso di tutti i tesori dell’universo» (SND, 4, 90), la violenza è quindi assolutamente inaccettabile.
L’ottavo cerchio è luogo di pena per i falsi e i bugiardi. La menzogna è una terribile ingiustizia che nuoce alla verità favorendo il male. Gli ipocriti ricevono la punizione più severa cui Dante abbia assistito fino a quel momento: un peccatore, afferrato da un diavolo, viene scagliato a testa in giù nella pece bollente. Da vivo era un funzionario pubblico e aveva imbrogliato i suoi concittadini per riempirsi la borsa. In un’altra scena, i demoni tormentano il capo di una fazione politica che si fece corrompere dalle tentazioni di fama e benessere.
C’è anche una donna che, gemendo di dolore per la febbre alta, emana un acre fetore. Per rabbia aveva mosso false accuse contro una persona onesta.
Un altro peccatore, torcendosi di dolore tra le fiamme, è destinato a bruciare per l’eternità. È un cospiratore che con scaltre menzogne spinse altri a commettere azioni malvagie.
Dante afferma che uno dei tanti vizi del diavolo è «ch’elli è bugiardo e padre di menzogna» (Inferno, XXIII, 144) e riserva un posto all’Inferno anche per il proprio peggior nemico, papa Bonifacio VIII. Poiché questi era ancora vivo al tempo de La Divina Commedia, l’autore gli stava facendo sapere che il suo posto all’Inferno era già pronto.
Il Papa in definitiva era responsabile dell’esilio di Dante da Firenze, ma, anche se per un certo tempo godette di un potere senza precedenti, le sue alleanze ben presto cominciarono a cedere, i suoi sostenitori gli si rivoltarono contro e lui fu sommerso dalle critiche e dall’ira del popolo. Pare che sia morto fra atroci tormenti.
Il viaggio di maestro e discepolo giunge infine al nono cerchio infernale. A chi spetta il cerchio più basso? Ai traditori, quelli che hanno rinnegato parenti, compagni e ospiti. Essi sono sepolti nel ghiaccio fino al collo, come rane nell’acqua di uno stagno, condannati a rabbrividire di freddo per tutta l’eternità, e proprio in fondo a questo cerchio infernale, c’è ancora un altro genere di peccatori, quelli che hanno tradito i propri benefattori, la cui punizione è di essere congelati e rosicchiati da Lucifero.
«Dimenticare i propri debiti è il peggior crimine che una persona possa commettere», disse il grande liberatore dell’America Latina, Simón Bolivar (1783-1830).
A proposito delle ragioni per cui una persona cade nell’Inferno, Nichiren Daishonin scrive: «Destinati a cadere in questi inferni [gli otto inferni freddi] sono coloro che rubano gli indumenti degli altri, o guardano i loro genitori o maestri tremare di freddo mentre loro stanno comodi e caldi notte e giorno» (Gosho Zenshu, p. 1013).
Anche Toda aveva una pessima opinione dei traditori ed era particolarmente intransigente nel condannare i preti al servizio solo di se stessi e gli ex membri dell’organizzazione che durante la guerra tradirono Makiguchi, causandone la morte in carcere. Concluse un saggio dal titolo Presidente Makiguchi, pubblicato l’anno successivo alla sua scarcerazione, con queste parole: «Spaventati dalle persecuzioni subite da Makiguchi, quei preti che lo calunniarono [per paura di essere perseguitati a loro volta], quei codardi che abbandonarono la Legge e voltarono le spalle a Makiguchi, se vogliono espiare le loro offese, dovrebbero unirsi alla nostra organizzazione [la Soka Gakkai] per rendere omaggio all’eredità del nostro grande maestro e seguire solo gli insegnamenti del Budda».
Dante scrisse anche che chi perseguita i propri ospiti, che avrebbe dovuto invece proteggere, cade nell’Inferno nello stesso istante del suo tradimento: anche se il corpo resta in vita, il suo spirito è già all’Inferno a soffrire il peggior castigo.
Concluso il loro viaggio all’Inferno, Dante e Virgilio attraversano uno stretto varco sotterraneo che li riporta in superficie, in un luogo rischiarato dalle stelle.
Hanno raggiunto il Purgatorio: «e canterò di quel secondo regno / dove l’umano spirito si purga / e di salire al ciel diventa degno» (Purgatorio, I, 4-6).
Non è più l’oscuro regno dell’Inferno: il cielo si tinge dei colori dell’alba imminente, ci sono piante e fiori, e l’aria è tersa. In alto si vede la montagna del Purgatorio con le sue sette cornici.
È questo il luogo dove i peccatori fanno penitenza per le proprie colpe. Essi scalano il sentiero a spirale che conduce alla sommità, subendo punizioni non meno dolorose di quelle inflitte all’Inferno. La differenza sta nel fatto che, una volta purificatisi espiando i loro peccati, possono salire in Paradiso. A simboleggiare questo, i penitenti nel Purgatorio si dirigono verso l’alto, in contrasto con quelli dell’Inferno che vanno verso il basso. Salendo, le anime si purificano.
Dante, scalando a sua volta, accompagnato dal maestro, la montagna del Purgatorio, descrive le scene di sofferenza e tormento cui assiste lungo il cammino.
Nella prima cornice ci sono peccatori con enormi pietre sulla schiena: sono i superbi, costretti a camminare curvi sotto quel peso per migliaia di anni, finché non abbiano domato la propria boria.
La seconda è la cornice degli invidiosi, che fino a che non superano la loro invidia, hanno le palpebre cucite con filo di ferro, punizione per non aver cercato di vedere «una luce migliore».
La terza è quella degli iracondi, dove Dante incontra, avvolte da acri nuvole di fumo, anime che pregano perché venga loro perdonata la collera.
Nella quarta cornice gli indolenti corrono senza sosta, incitandosi l’un l’altro al grido di «Ratto ratto!», in affanno per espiare i loro ritardi e negligenze (Purgatorio, XVIII, 103-107).
Nella quinta, gli avari sono stesi a faccia in giù con le mani legate, senza poter vedere altro che la terra davanti a loro. È il castigo per aver badato solo ai beni terreni, invece di alzare lo sguardo alla gloria del Cielo.
La sesta cornice è dove i golosi soffrono la fame fino a diventare scheletrici, con occhi così scavati che «Parean l’occhiaie anella sanza gemme» (Purgatorio, XXIII, 31). Nella settima e ultima, infine, le anime dei lussuriosi si purificano camminando tra lingue di fuoco.
Mentre i concetti cristiani di paradiso e inferno sono ben noti in Oriente, non si può dire altrettanto della dottrina del purgatorio della Chiesa Cattolica Romana. L’idea di purgatorio nella sua attuale accezione compare «con il fiorire della civiltà medievale nella seconda metà del dodicesimo secolo» (Jacques Le Goff, The Birth of Purgatory, Chicago University Press, 1984), un migliaio di anni dopo la nascita del cristianesimo.
È stato anche detto che «la straordinaria opera di Dante [La Divina Commedia] compone una grande sinfonia utilizzando temi frammentari [esistenti a quell’epoca riguardo al purgatorio]» (Ibidem).
Nel Purgatorio, dopo aver descritto il mondo come «diserto / d’ogne virtute, come tu mi sone, / e di malizia gravido e coverto» [“come tu mi sone”: come affermi, n.d.r.], il poeta chiede «ma priego che m’addite la cagione» (Purgatorio, XVI, 59-61), e una delle anime risponde: «Voi che vivete ogne cagion recate / pur suso al cielo, pur come se tutto / movesse seco di necessitate. / Se così fosse, in voi fora distrutto / libero arbitrio…» (Purgatorio, XVI, 67-71) [voi viventi attribuite al cielo la causa di tutto quanto succede, come se tutto fosse determinato dai moti celesti. Se fosse così non avreste il libero arbitrio, n.d.r.].
In altri termini, Dante afferma che non è dal cielo che dipende il male che permea il mondo. Cosa lo provoca allora? «Però, se ’l mondo presente disvia, / in voi è la cagione, in voi si cheggia» (Purgatorio, XVI, 82-83) [se oggi il mondo smarrisce la strada, la causa è in voi, in voi deve essere cercata, n.d.r.].
La causa è in noi stessi e, di conseguenza, abbiamo il potere di porre fine al male e alla tentazione esercitando la nostra volontà, e trasformare l’ambiente con le nostre azioni. Le anime del Purgatorio sono un simbolo di questa verità. Dante credeva nel potere della volontà umana: «e libero voler; che, se fatica / ne le prime battaglie col ciel dura, / poi vince tutto, se ben si notrica» (Purgatorio, XVI, 76-78) [la libera volontà che, se anche prova fatica nelle prime battaglie contro quelle inclinazioni che ci sono date dal cielo, se ben allenata potrà poi vincere tutto, n.d.r.].
Fino a che punto possano gli esseri umani esercitare il libero arbitrio, dato che Dio è onnipotente, è una questione che il mondo cristiano dibatte da secoli.
Ebbi modo di discuterne con Aurelio Peccei, uno dei fondatori del Club di Roma e un difensore dei diritti umani, che lottò strenuamente contro il fascismo. E in quell’occasione questo intelletto così pieno d’umanità mi chiese del rapporto tra il libero arbitrio e il concetto buddista di karma, da cui dipenderebbe la nostra vita.
Gli risposi che il Buddismo di Nichiren insegna che non siamo semplicemente governati dal destino stabilito dalle vite precedenti, ma abbiamo il potere interiore di trasformare anche il karma immutabile. E osservai: «Dottor Peccei, lei ha trascorso la gioventù in mezzo alla bufera del fascismo, ma non l’ha appoggiato, scegliendo di combatterlo e di difendere la dignità umana. Uno stile di vita in cui plasmiamo il nostro stesso destino, come ha fatto lei, è ciò che la Soka Gakkai chiama “rivoluzione umana”». Peccei espresse annuendo la sua assoluta approvazione.
Lo scrittore francese Romain Rolland scrisse: «La vita di una persona non è mai più grande, più ricca o più felice di quando ha fatto esperienza del dolore». Gli esseri umani, lungi dall’essere schiavi del destino, hanno in se stessi il potere di decidere autonomamente della propria vita.
Siamo protagonisti delle nostre vite, questa è la conclusione cui giunse Dante durante l’amaro esilio dalla sua città, tanto che scrisse: «ché volontà, se non vuol, non s’ammorza, / ma fa come natura face in foco, / se mille volte vïolenza il torza» (Paradiso, IV, 76-78) [la volontà non si spegne se non lo vuole: se resiste è invincibile, come la fiamma che, piegata mille volte, si rivolge sempre verso l’alto, n.d.r.]. Era fermamente convinto della dignità della condizione umana, e questo spirito fiorì poi nel Rinascimento italiano. Si può affermare che Dante aprì la porta a questa “rinascita dell’umanità”.
La vita è una lotta, una serie di sfide e di risposte; noi soli e nessun altro determiniamo la vittoria o la sconfitta. Quindi, amici miei, vi prego di essere vincitori, di sforzarvi risolutamente e trionfare, perché la vostra vittoria assicurerà il trionfo della verità e della giustizia, mentre, se vi lasciate sconfiggere, causerete infelicità a voi stessi, alle vostre famiglie e ai vostri compagni di fede. Lo scopo della pratica buddista è essere vittoriosi, la nostra fede non può essere sconfitta, come dice il Daishonin: «Una sola verità dissolve molte forze malvagie» (SND, 4, 268). Trionfare su difficoltà e persecuzioni è fondamentale: se si incontra un ostacolo, si dovrebbe lottare dieci volte più forte, se se ne incontrano dieci, cento volte più forte. Un sentiero infinito si snoda davanti a chi trasforma un pesante destino nella propria missione, affrontando con coraggio le sfide che si presentano di volta in volta.
Scrisse Dante: «Questo tuo grido farà come vento, / che le più alte cime più percuote» (Paradiso, XVII, 133-34).
Giunto in cima alla montagna del Purgatorio, Dante vaga per la lussureggiante foresta che vi si stende, per riunirsi poi con l’amata Beatrice, morta quando lui era giovane. Da questo momento sarà lei a fargli da guida, al posto di Virgilio.
«La gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove» (Paradiso, I, 1-3).
Il Paradiso, composto delle nove sfere celesti che circondano la terra e dell’Empireo, si estende per tutto l’universo ed è occupato dalle anime dei virtuosi, dei leali, e dei giusti. È un regno pervaso di luce, canti e gioia, un’immagine che associo un po’ alle riunioni di discussione della SGI.
Mentre Dante si prepara a questo nuovo viaggio, vediamo che, dato che lì le anime si prodigano per aiutare e rendere felici gli altri, la loro gioia si irradia più luminosa che mai, mentre chi cerca di nuocere agli altri subisce il triste destino della sconfitta.
Per inciso, l’affluenza alle riunioni di discussione della SGI-Italia è stata straordinaria. I membri italiani hanno abbondantemente superato il loro obiettivo mensile di trentamila partecipanti, di cui diecimila giovani. I giovani sono la vera forza motrice dello sviluppo; ho saputo, infatti, che lo scorso 16 marzo 17.306 giovani uomini e donne di cinquantadue città d’Italia si sono riunititi in novantaquattro sedi diverse per celebrare il giorno di kosen-rufu. Mi rallegro di cuore per la crescita della Divisione giovani italiana.
Spero vivamente che i nostri giovani “leoni di pace” italiani, cantando con entusiasmo la nuova canzone della loro divisione Giovani eroi, si distinguano per la loro perfetta unità agli occhi del mondo.
Se durante il viaggio attraverso Inferno e Purgatorio Dante ha criticato aspramente la corruzione del clero, nel Paradiso è ancora più severo nella sua condanna dei misfatti dei capi religiosi.
Un’anima virtuosa incontrata in Paradiso descrive il clero corrotto come «la gente ch’al mondo più traligna» (Paradiso, XVI, 58) [traligna: si allontana dalla via corretta, n.d.r.], e le chiese come «là dove Cristo tutto dì si merca» (Paradiso, XVII, 51) [dove Cristo è ridotto a mercanzia, n.d.r.].
Dante grida: «sì ch’un’altra fïata omai s’adiri / del comperare e vender dentro al templo / che si murò di segni e di martìri» (Paradiso, XVIII, 121-23) [che si adiri ancora una volta per il mercato che viene fatto nel tempio, i cui muri sono cementati con i miracoli e il sangue di Cristo, n.d.r.].
Nelle sue parole risuona lo spirito di non abbandonare mai la lotta contro l’ingiustizia.
Più avanti, un’altra anima descrive un luogo santo che il clero «fatt’ha … cloaca / del sangue e de la puzza» (Paradiso, XXVII, 25-26) [ha trasformato in ricettacolo di violenza e corruzione il sepolcro di Pietro, n.d.r.].
La stessa Beatrice denuncia con slancio i predicatori che distorcono la verità: «e quel tanto sonò ne le sue guance, / sì ch’a pugnar per accender la fede / de l’Evangelio fero scudo e lance. / Ora si va con motti e con iscede / a predicare, e pur che ben si rida, / gonfia il cappuccio e più non si richiede» (Paradiso, XXIX, 113-17) [solo il vero insegnamento di Cristo risuonò nelle loro bocche e, nella lotta per diffondere la fede, il Vangelo fu la loro sola arma. Adesso si va a predicare con battute di spirito e stupidaggini, nelle parole e negli atti, e se il predicatore riesce a divertire, si inorgoglisce e non desidera altro, n.d.r.].
Anche lei deplora che i religiosi ignorino lo spirito fondamentale delle scritture, non abbiano alcun desiderio di cercare la verità, e dicano solo ciò che pare a loro, compiacendosi della propria abilità. Beatrice usa parole forti per condannare i loro abusi.
In un’altra scena, i cieli si tingono di rosso al racconto delle malefatte dell’alto clero.
Non bisogna esitare nel condannare il male. Perfino il Budda Shakyamuni, maestro di amore e compassione per tutta l’umanità, rimproverò aspramente l’ambizioso Devadatta, chiamandolo «imbecille che lecca lo sputo altrui!» (SND, 1, 123).
Uno dei suoi seguaci, il principe Abhaya, gli chiese perché, pur professando il desiderio di salvare tutta l’umanità, usasse un linguaggio così offensivo nei confronti di Devadatta. Shakyamuni rispose ponendo a sua volta una domanda al principe, che teneva in braccio un bimbo: «Cosa pensi che faresti, principe, se questo bambino, per distrazione tua o della sua balia, si cacciasse uno stecco o un sasso in bocca?». Abhaya rispose: «Glielo toglierei, venerabile signore. E se non ci riuscissi subito, allora, tenendogli la testa con la mano sinistra, lo estrarrei con un dito della destra, anche a costo di farlo sanguinare. Per quale ragione? Perché ho compassione del piccolo». Allora Shakyamuni replicò: «Qualunque cosa il Tathagata sappia essere veritiera, adatta allo scopo, e che tuttavia non piaccia agli altri, sia loro sgradita, il Tathagata è consapevole del momento giusto per dirla. […] Qual è la ragione di questo, principe? È che il Tathagata ha compassione per le creature».
Il Budda ci spiega che, proprio come un genitore cercherebbe di togliere una pietra o qualunque altro oggetto dalla bocca del proprio bambino, anche a rischio di farlo sanguinare, lui sceglie le parole più adatte ad ogni situazione, assicurandosi sempre che siano vere, producano valore, e rechino beneficio agli altri. Questo, dice, manifesta la sua compassione.
Nichiren Daishonin dice in proposito: «Se si usano parole dure ed esse aiutano una persona, devono essere considerate parole sincere e cortesi, mentre le parole gentili, se danneggiano una persona, sono da ritenersi ingannevoli e dure» (SND, 6, 54).
L’importante è se ciò che si dice aiuta gli altri e se scaturisce dalla compassione. Anche parole gradevoli, se conducono ad azioni malvagie, sono false e dure. E bisogna anche rimproverare severamente i nemici del Budda, poiché solo così si possono proteggere gli altri, mettendoli in grado di realizzare una vita veramente felice. È questo lo spirito fondamentale del nostro dialogo per la verità e la giustizia.
I giapponesi hanno difficoltà a distinguere fra bene e male. Kanzo Uchimura (1861-1930), eminente leader cristiano e scrittore, si oppose con forza al nazionalismo e per questo fu emarginato dalla cerchia degli intellettuali. Egli dichiarò che i giapponesi non potevano capire Dante, ritenendoli capaci di provare solo gioia e rabbia superficiali, e proseguì affermando che chi non prova sincera collera verso l’ingiustizia non può comprendere Dante, Milton, o Wordsworth. I giapponesi, secondo Uchimura, erano incapaci di essere “profondamente e tranquillamente in collera” riguardo a questo, e non potevano neppure concepire quanto sia nobile e giusto ardere di profonda e “duratura rabbia” contro il male. Di conseguenza, disse, da loro non può venire nulla di grande.
Ardete di grande e profonda rabbia contro il demone! Questo è il messaggio che ci trasmette anche Dante. I giapponesi tendono ad arrabbiarsi per un momento e poi dimenticarsene, ma non è così che si strappa il male alla radice.
Lo storico scozzese Thomas Carlyle (1795-1881) scrisse che Dante «va dritto al punto come se avesse una penna di fuoco». La penna di Dante espone il male dell’autoritarismo, attacca continuamente i potenti, la loro arroganza, avidità, invidia e disprezzo per gli altri, criticando nel contempo la debolezza di chi si piega docilmente al male e lo segue. Egli esorta la gente ad aprire gli occhi, senza lasciarsi ingannare.
Dante è considerato anche il padre della lingua italiana moderna, poiché scrisse La Divina Commedia in volgare anziché in latino, come si usava a quel tempo fra i letterati. Il grande storico Arnold Toynbee sosteneva che così influenzò tutta la letteratura occidentale, perché dopo La Divina Commedia anche gli scrittori degli altri paesi cominciarono a usare la parlata locale al posto del latino.
Secondo Dante, dato che pochissimi capivano il latino, scrivere in quella lingua era come seppellire un tesoro, e osservò anche che a molti eruditi, che avevano acquisito il loro sapere grazie al latino, in realtà interessavano solo benessere e posizione. Lui voleva che la sua opera fosse accessibile a tutti, soprattutto alle donne e ai bambini, e cercò di dare ai suoi versi un ritmo semplice e familiare. Anche il Daishonin comunicava in un linguaggio facilmente comprensibile. Mentre Assicurare la pace attraverso l’adozione del vero Buddismo, indirizzato ai governanti del paese, è scritto in un cinese formale e ricercato, quasi tutte le lettere inviate ai discepoli sono in giapponese colloquiale, più facile e intelligibile.
I cinque preti anziani, ex discepoli di Nichiren che voltarono le spalle ai suoi insegnamenti, tuttavia, non capivano il desiderio del maestro di condurre tutte le persone alla felicità e disprezzavano gli scritti in giapponese, tanto da bruciarne molti o riciclarne la carta, distruggendoli per sempre. Solo il suo vero successore, Nikko, aveva a cuore le lettere del Daishonin e fece di tutto per preservarle alle generazioni future.
La Raccolta degli scritti di Nichiren Daishonin (Nichiren Daishonin Gosho Zenshu), pubblicata il 28 aprile 1952, settecentesimo anniversario dell’insegnamento del Daishonin, per espresso desiderio del presidente Toda, contiene diverse lettere e trattati lasciati alla posterità da Nichiren Daishonin e Nikko Shonin, uniti da un legame indissolubile di maestro e discepolo. [Secondo l’uso giapponese, gli anniversari vengono celebrati un anno prima rispetto all’occidente. Infatti la proclamazione di Nam-myoho-renge-kyo è avvenuta il 28 aprile 1253, n.d.r.]. Nell’aprile 2002 si è celebrato il cinquantesimo anniversario della pubblicazione [seguendo, in questo caso, l’uso occidentale, n.d.r.].
Il nostro movimento basato sul dialogo per il progresso di kosen-rufu, è una rivoluzione fatta con le parole, una rivoluzione pacifica per toccare il cuore della gente e cambiare la società e i tempi con il potere delle parole.
Dante definì la lingua scelta per scrivere le sue opere una “nuova luce” e un “nuovo sole”. Spero che i giovani della Soka Gakkai, con nuove parole, idee e azioni, illuminino questo secolo facendo sorgere un nuovo sole di speranza.
Attraversate le nove sfere celesti, Dante e Beatrice giungono alla loro meta, l’Empireo, dove incontrano l’Essere Supremo, a conclusione de La Divina Commedia.
E come conclude Dante? «L’amor che move il sole e l’altre stelle» (Paradiso, XXXIII, 145). Arnold Toynbee, che aveva una predilezione per le opere di Dante, disse che questo amore si riferisce alla suprema realtà spirituale alla base dell’universo.
Il Buddismo insegna la reciproca identità, o unità, fra individuo e universo, nonché il principio “un singolo istante di vita comprende tremila regni”, che pervade l’universo e tutte le esistenze. Penso si possa dire che Dante cercò un profondo stato vitale molto simile a quello di questi insegnamenti buddisti e che lo perseguì per tutta la vita.
Usando come molla la sofferenza dell’esilio, si lanciò nella lotta creativa di scrivere poesia, elevando così il proprio stato vitale e creando, nel contempo, uno dei massimi capolavori dell’umanità.
L’argomento de La Divina Commedia – il viaggio dalla sofferenza (Inferno) attraverso lo sforzo (Purgatorio) fino alla beatitudine (Paradiso) – rispecchia la stessa vita di Dante. Anche il Buddismo insegna che questi regni non sono separati dalla nostra stessa vita. Nichiren Daishonin scrive: «Per prima cosa, alla domanda di dove si trovino l’Inferno e il Budda, alcuni sutra affermano che l’Inferno si trova sotto terra, altri che il Budda risiede a occidente. Ma a un attento esame, risulta che entrambi esistono nel nostro corpo alto cinque piedi» (SND, 4, 271).
La vita di ciascuno contiene in ogni istante sia Inferno che Buddità, e il Daishonin ci dice che con una forte fede possiamo manifestare subito nella nostra vita, proprio qui e adesso, il supremo palazzo di fortuna e beneficio che è la Buddità. Per questa ragione chi pratica la Legge mistica non si dispera mai, a dispetto di qualunque difficoltà: non c’è bisogno di cercare la felicità da qualche altra parte.
Quando Beatrice morì così giovane, Dante promise di scrivere un giorno un poema degno della sua amata, e con La Divina Commedia mantenne la promessa.
Beatrice rappresenta la sublime virtù femminile di condurre gli uomini verso la verità e la luce. Nel famoso poema di Goethe, Faust, è l’eterno femminino che porta infine il protagonista alla redenzione: le ultime parole del dramma sono: «L’eterno Elemento Femminile / ci trae verso l’alto» (J.W. Goethe, Faust, Meridiani Mondadori, 1990, traduzione di Franco Fortini).
Ricordo i miei dialoghi con Linus Pauling, scienziato americano due volte Premio Nobel, per la chimica e per la pace. Anche lui crebbe leggendo Dante e altri classici della letteratura, e mi disse che verso i dieci anni aveva letto un’edizione dell’Inferno illustrata da Gustav Doré.
Di fronte a incredibili condanne e persecuzioni, Pauling aveva continuato a dedicarsi al movimento per la pace e a opporsi alle armi nucleari, e ad un certo punto mi sottolineò che la ragione di questo era che voleva guadagnarsi e conservare il rispetto di sua moglie, la nota attivista per la pace Ava Helen Pauling. Fu lei a ispirarlo a perseguire il sentiero corretto come essere umano.
Questo è il secolo delle donne. Quelle di loro che percorrono risolutamente il cammino corretto riescono a guidarvi naturalmente gli altri, per cui sono convinto che se le donne che hanno a cuore la pace uniranno i loro sforzi, si potrà raggiungere la pace mondiale, perché sono dotate del magnifico potere di condurre tutta l’umanità nella giusta direzione.
Dante fu poeta, filosofo e politico, ma anche ambasciatore di pace. Alla sua epoca, una regione dell’Italia settentrionale era in guerra da circa un secolo; la potente famiglia dei Malaspina e il governo vescovile si contendevano il controllo della fertile Val di Magra. Dante pose fine al conflitto attraverso il dialogo.
A quel tempo viveva già in esilio da Firenze, ma era noto come poeta che scriveva nella lingua del popolo e come abile diplomatico. Nel 1306 i Malaspina gli chiesero di negoziare una soluzione della disputa e lui si recò al castello del vescovo. Per mezzo di un dialogo sincero, riuscì ad appianare le divergenze tra le due parti e giungere alla firma di un trattato, fra strette di mano e abbracci.
[Nel dicembre 2001, la città di Castelnuovo Magra, luogo della firma di quel trattato, ha conferito il primo premio “Dante Alighieri” al presidente della SGI Daisaku Ikeda. L’onorificenza è stata istituita per far conoscere il decisivo contributo di Dante e onorare chi abbia fatto sforzi significativi per la pace, n.d.r.].
Nel 1315, sei anni prima della sua morte e dopo molti altri di sofferenza in esilio, a Dante venne accordato di tornare nella sua città, ma a condizioni oltremodo umilianti: avrebbe dovuto recarsi al carcere, pagare una multa e fare penitenza per i propri peccati percorrendo le strade dalla prigione alla chiesa «vestito di tela di sacco, con un berretto da buffone in testa e un cero acceso in mano» (Thomas Caldecot Chubb, Dante and his world, Boston MA, Little Brown and Company, 1966).
Dante oppose quello che venne definito “il gran rifiuto”, dichiarando: «Non posso forse guardare il sole e le stelle ovunque io mi trovi? Non posso contemplare la dolce verità sotto ogni cielo…?» (Ibidem). L’esilio lo privò della sua città, e lui reagì facendo del mondo la sua casa, l’esilio lo calò in una tragedia, e lui trasformò quella tragedia nel poema del trionfo dello spirito umano: La Divina Commedia. Affermò di considerare la sua sfortuna un onore.
Le peregrinazioni di Dante ebbero fine a Ravenna, il cui signore, Guido Novello, lo prese sotto la sua protezione, facendolo raggiungere anche dai figli, e pare che i suoi ultimi anni fossero sostanzialmente felici.
Ultimata La Divina Commedia, si recò a Venezia come ambasciatore di Novello. Colto da febbre lungo il viaggio di ritorno, giunse a Ravenna in condizioni critiche e nel settembre 1321, all’età di cinquantasei anni, morì in pace, circondato da familiari e amici, dopo una vita passata a cercare la luce fra le tenebre.
Il suo spirito di verità e giustizia splende ancora oggi, dopo settecento anni, ne La Divina Commedia: lui ha trionfato, mentre i suoi persecutori sono stati travolti dal corso della storia.
I ravennati diedero sepoltura alle spoglie di Dante in una chiesa del posto e, determinati a non separarsi dal poeta che aveva vissuto gli ultimi giorni nella loro città, rifiutarono di consegnarle ai fiorentini, che ne chiesero più volte la restituzione. L’amore di Dante per l’umanità accende ancora la fiamma della speranza nel cuore della gente, e pare che quando fu sepolto, gli venisse cinta la testa con una corona di alloro, simbolo della vittoria di un poeta, onore che si era atteso invano dalla sua città natale.

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