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Una goccia che ritorna all'oceano - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 14:14

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Una goccia che ritorna all’oceano

Antonio Pezzuto, Pavia

“Mille Budda la stavano aspettando per accompagnarla sul Picco dell’Aquila”, dove altrettanti Budda stavano preparando una festa in suo onore e lì, avrebbe trovato pace e felicità infinita

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“Mille Budda la stavano aspettando per accompagnarla sul Picco dell’Aquila”, dove altrettanti Budda stavano preparando una festa in suo onore e lì, avrebbe trovato pace e felicità infinita

Ho conosciuto questo Buddismo grazie a mia moglie Luisa.
Ci conoscemmo nel 1990 ed entrambi uscivamo da una storia di tossicodipendenza. I primi anni la nostra convivenza non fu facile ma, grazie al cammino fatto insieme in una comunità terapeutica, riuscimmo a capire i meccanismi che ci portavano a quel malessere.
Verso la fine del 1994 Luisa conobbe il Buddismo di Nichiren Daishonin. Da allora il nostro rapporto cominciò a migliorare e una grande serenità si manifestò tra di noi. Nei primi anni della sua pratica spesso la provocavo con il mio materialismo sull’aspetto mistico di questa religione, e tante volte le facevo pesare il tempo che dedicava alla pratica. Ma lei trovava sempre il modo di dimostrarmi amore e le sue continue attenzioni facevano crollare tutte le mie proteste. Percepivo la sua serenità, ma soprattutto, sentivo la sua vita toccare la mia; adesso capisco che “vivevo di rendita”: il suo Daimoku nutriva anche me.
Nell’ottobre del 2003, dopo continui malesseri fisici, Luisa decise di fare una bio­psia al fegato; aveva l’epatite C già da parecchi anni, ma fino a quel momento non l’avevamo mai considerata un pericolo. Dall’esame videro che la sua epatite si era già trasformata in cirrosi. Le prescrissero una cura che purtroppo peggiorò ulteriormente la situazione. I medici mi dissero che dovevo prepararmi al peggio e da lì iniziò la mia disperazione. Luisa, pur stando male, non voleva rinunciare alle riunioni di discussione e così decisi di accompagnarla. Poi, nel febbraio 2004 chiese un consiglio sulla fede e volle che anch’io fossi presente: fu lì che capii che in quel momento Luisa era come un uccello con un’ala sola, ma io, con il mio Daimoku, potevo essere l’altra ala.
Il giorno dopo mi ritrovai davanti al Gohonzon a recitare una frase che non capivo, mi sentivo stupido, ma continuavo a ripetermi che lo facevo per lei. Pregavo tutti i giorni e Luisa mi insegnò a fare Gongyo: vederla felice nonostante la malattia mi riempiva il cuore di gioia. I mesi passavano e lei alternava riprese a ricadute e, ogni volta il mio stato vitale ripiombava nell’inferno. Paura, angoscia e impotenza mi assalivano e il peggio era che non riuscendo a mascherarle trasmettevo a lei i miei timori. Un giorno, dopo l’ennesima ricaduta, aprii il Gohonzon e piansi, mi uscì una rabbia furiosa e urlai: «A che serve pregare?». In quel momento accadde qualcosa. Da mesi recitavo Daimoku ostinatamente solo per la sua guarigione, ma in quel momento capii che dovevo essere io a guarire dalla paura di rimanere solo e di non farcela senza di lei. Dovevo rendere la mia vita più forte affinché potessi essere un sostegno per lei proprio nei momenti difficili.
I mesi che seguirono furono duri, ma anche pieni di gioia e di vittorie e nonostante i continui ricoveri in ospedale riuscimmo a trascorrere una meravigliosa vacanza e nell’ottobre 2004 ci sposammo. Durante uno dei suoi ricoveri sostenne con successo gli esami buddisti di secondo livello e, non potrò mai dimenticare le sue lacrime di gioia quando nel dicembre 2004 divenni un membro della Soka Gakkai. La sua lotta fu un costante incoraggiamento per tutti i compagni di fede e per me che le stavo vicino giorno e notte. Feci mie le parole di Nichiren: «Quando c’è da soffrire, soffri, quando c’è da gioire, gioisci» (Felicità in questo mondo, RSND, 1, 607). Imparai ad amare la vita, ad apprezzarne ogni momento, a godere di ogni respiro e sento di non aver buttato via nemmeno un istante di vita passato accanto a lei.
La mattina del 2 marzo 2005 Luisa entrò in coma, le tenni la mano tutto il giorno, le raccontavo tutte le cose belle che avevamo fatto insieme. Le dicevo che mille Budda la stavano aspettando per accompagnarla sul Picco dell’Aquila, dove altrettanti Budda stavano preparando una festa in suo onore e lì avrebbe trovato pace e felicità infinita. La sera Luisa morì regalandomi un sorriso. In quell’immenso dolore provai una strana sensazione di eternità, il suo corpo si rilassò, come una piccola goccia che si rituffa nell’oceano. In quel momento ebbi la certezza che niente era stato vano, sentii una voce dentro di me che diceva: «Abbiamo vinto».
Recitavo molto Daimoku per vincere la tristezza della sua assenza e giorno dopo giorno approfondivo la mia fede. Esaudii la sua ultima volontà, quella di essere cremata, e quando arrivò l’estate presi la moto e partii con le sue ceneri per la Cornovaglia, a ricordo di un viaggio fatto insieme. Arrivato a un’insenatura a picco sull’oceano, recitai Gongyo e poi sparsi le sue ceneri, liberandola nell’immensità.
Il mio dolore era ancora molto vivo quando mi offrirono la responsabilità di un gruppo. Come avrei potuto io, che stavo lottando per non farmi schiacciare dal dolore, essere d’aiuto a chi soffriva? Poi ricordai quando, recitando con Luisa, avevo provato il forte desiderio di offrire la mia vita a kosen-rufu e allora i suoi occhi si erano riempiti di lacrime di commozione. Promisi che non avrei mai fatto morire quel desiderio e così accettai.
All’inizio non fu facile, ma poi mi accorsi che, recitando Daimoku per la felicità degli altri, cominciavo a ritrovare la mia. Il gruppo era formato da cinque membri, ma poco dopo la mia corresponsabile si trasferì e così venne a mancare la casa per le riunioni. Dei quattro membri del gruppo, per varie ragioni, rimanemmo solo io e Lorenza, e anche lei aveva in programma di trasferirsi. Sul momento anch’io pensai di cercarmi un altro gruppo, ma quel pensiero durò poco. Determinai di non far morire il gruppo “Testarossa”, il cui nome era stato scelto da Luisa. Aprii la mia casa per le riunioni, cominciai a recitare per rafforzare il mio ichinen, e sostenuto dal Daimoku e dai miei responsabili, il gruppo ripartì. Nel giro di pochi mesi, arrivarono così tante persone che dovetti comprare altre sedie per accoglierle tutte!
A un anno esatto della scomparsa di Luisa andai a un corso a Trets, il Centro culturale europeo, e lì feci il punto della mia situazione: avevo passato gli ultimi due anni lottando contro la sofferenza, la malattia e poi la morte. Era il momento di cambiare e decisi profondamente che da lì in avanti la base della mia vita sarebbe stata la felicità. Recitai Nam-myoho-renge-kyo di fronte al sole che tramontava, e salutai Luisa, promettendole che non l’avrei più trattenuta con la mia sofferenza. Qualche tempo dopo arrivò nella mia vita una persona meravigliosa, Rosy (nella foto), che ringrazio enormemente per aver scelto di vivere una nuova, grande storia d’amore con me.
Quando, lo scorso anno, mi offrirono la responsabilità di capitolo, pensai che per me “era troppo!”. Ma ancora una volta sentii Luisa dentro di me, che, con un sorriso orgoglioso, mi diceva: «Sono fiera di te», ricordandomi la promessa di lottare sempre per kosen-rufu. Accettai, consapevole della strada tutta in salita che avevo davanti, dato che in questa zona ci sono ancora dei rancori dovuti ai momenti difficili passati qualche anno fa nella Soka Gakkai. Ma non mi scoraggio, questa pratica mi ha insegnato che più si cercano soluzioni con la testa, tanto più si alimentano i nostri dubbi. Seguendo i consigli di un responsabile, ho imparato ad affidarmi completamente al Gohonzon.
Quindi ringrazio il mio maestro, Daisaku Ikeda, per avermi dato l’opportunità di conoscere questa religione, e per avermi trasmesso con la sua stessa vita che non esiste sofferenza che non possa trasformarsi in gioia. Un grazie a Luisa che prima di andarsene mi ha detto: «Qualunque cosa succeda non smettere mai di recitare Nam-myoho-renge-kyo». Grazie, perché con quella frase mi ha regalato un prezioso gioiello con cui far brillare la vita.
È comunque mia intenzione non rilassarmi perché l’altra faccia della vittoria è il credersi arrivati, e quando questo accade, comincia inevitabilmente la regressione. I demoni del passato sono sempre alle nostre spalle, mentre la felicità ce l’abbiamo di fronte, quindi, non facciamoci raggiungere dalla sofferenza, ma troviamo il coraggio di avanzare!
Quanto più forte corriamo, tanto più saremo felici.

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