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Una commedia a lieto fine - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 12:58

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Una commedia a lieto fine

Vito Macaluso, Livorno

Fin da subito cominciammo a praticare costantemente anche se con immensa fatica, in quanto sia io che mia moglie non sapevamo né leggere e né scrivere bene, ma grazie al sostegno dei membri e alla nostra determinazione superammo anche questo ostacolo

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Fin da subito cominciammo a praticare costantemente anche se con immensa fatica, in quanto sia io che mia moglie non sapevamo né leggere e né scrivere bene, ma grazie al sostegno dei membri e alla nostra determinazione superammo anche questo ostacolo

«Nel mezzo del cammin di nostra vita,
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita
».

Così scrive il sommo e lungimirante poeta Dante Alighieri nel primo canto della Divina Commedia. Sono siciliano e ho settantadue anni e ventun’anni fa mi sentivo proprio così: di essere giunto, vagante e infelice, al giro di boa della mia vita.
La mia salute era cagionevole e da ben diciotto anni combattevo contro una malattia, a cui nessun medico sapeva dare un nome, tranne dirmi che ero malato: una volta era la pressione, un’altra un valore ematico sballato, un’altra volta il fegato e così via. Anni di cure, diete, senza mai una via di uscita, poi un giorno un primario, in modo molto sbrigativo, mi disse che non c’era una parte del mio corpo sana, ed essendo estremamente logorato nel fisico non c’erano prospettive diverse dalla morte. Evidentemente non valevo più niente. Ma la cosa che più mi affliggeva era mio figlio. Scoprii che conduceva una vita sbandata, e questo aspetto aprì definitivamente la porta all’inferno.
Andavo in chiesa per cercare conforto, per espiare le mie colpe. Mia moglie e l’altra nostra figlia soffrivano con me per la tragedia che incombeva sulla nostra famiglia.
Un giorno, un mio caro amico che aveva lo stesso problema con suo figlio, incontrandomi per strada mi disse che mi voleva parlare. Ero di fretta, volevo andare in chiesa ma mi colpì il suo sguardo: aveva una luce diversa. Il giorno seguente lo rincontrai e nuovamente mi disse che doveva assolutamente parlare con me e con mia moglie.
Mi infastidiva la sua insistenza, quasi come se non capisse il mio dolore, ma la sua serenità mi colpì a tal punto che decisi di ascoltarlo.
Mi parlò del Buddismo di Nichiren Daishonin al quale lui si stava avvicinando. Aveva partecipato ad alcune riunioni di discussione, dove una frase ripetuta aveva la forza di farci stare meglio, fino a trasformare la vita. Lo ascoltai. Mi disse che non avevo niente da perdere nel provare a praticarlo, e in effetti a pensarci bene… perché no?
Con mia moglie decidemmo di partecipare alla prima riunione e in silenzio ascoltammo quel suono. L’armonia che respirammo e gli incoraggiamenti che ricevemmo non ci fecero più abbandonare questo Buddismo. Fin da subito cominciammo a praticare costantemente anche se con immensa fatica, in quanto sia io che mia moglie non sapevamo né leggere e né scrivere bene, ma grazie al sostegno dei membri e alla nostra determinazione superammo anche questo ostacolo. Ogni giorno qualcuno del nostro gruppo veniva a recitare Gongyo a casa nostra sia al mattino che alla sera.
Studiavamo come potevamo, per la difficoltà che avevamo nel leggere ma da subito feci mio il Gosho I due tipi di malattia (RSND, 1, 817) imparandolo a memoria.
In quindici giorni, con mia grande sorpresa, la mia salute cominciò a migliorare e cominciai a sentirmi meglio, fino a guarire in capo a un anno, senza una spiegazione: come mi ero ammalato, così mi ritrovai guarito.
Il Buddismo è la religione della vita e grazie al Daimoku ritroviamo noi stessi, operando una rivoluzione interiore che ha la capacità di trasformare l’impossibile in possibile, grazie alla forza di cui siamo potenzialmente dotati, ma che oscurati non riusciamo a far emergere, perdendo di vista il nostro valore.
Questo aspetto mi stimolò e, insieme a mia moglie, determinammo che mio figlio entro novanta giorni cominciasse a praticare il Buddismo. Grazie a un suo amico iniziò a recitare Daimoku, proprio entro il termine stabilito. Fu una gioia immensa!
Purtroppo poco dopo, mio figlio, insieme alla sua compagna, ricadde nella solita vita. Fu un duro colpo per noi e per un lungo periodo non l’abbiamo più né visto né sentito ma, grazie alla pratica che portavamo avanti con grande gioia, avevamo uno stato vitale alto che ci permetteva di affrontare con forza quel difficile momento.
Anzi più che mai ci dedicammo al Buddismo, seguendo per filo e per segno le parole del nostro maestro, il presidente Ikeda il quale, come noi, aveva vissuto situazioni drammatiche e che, grazie alla pratica, aveva completamente ribaltato, combattendo contro gli ostacoli.
Contribuimmo alla ristrutturazione del Centro culturale italiano, trascorrendo tutti i fine settimana a Firenze, dove io “scavavo” e mia moglie cucinava per noi volontari. Entrammo inoltre a far parte del gruppo che si occupa della protezione e aprimmo la nostra casa alle riunioni.
Nonostante il frenetico ritmo giornaliero, la sera, rientrando a casa, mi sentivo leggero come una piuma e questo benessere mi portava naturalmente a parlare di Buddismo alle altre persone.
La situazione con mio figlio inizialmente non cambiava, ma grazie ai preziosi incoraggiamenti dei miei compagni di fede non ho mai vacillato.
Mia figlia si sposò con un uomo che io non vedevo adatto a lei, ma diceva di essere felice e mi rassegnai alla sua decisione. Tre anni dopo mio figlio si separò dalla moglie e tornò a stare a casa nostra con un figlio di pochi anni. Nello stesso periodo anche il matrimonio di mia figlia finì. Mio figlio faticò molto a riprendere una vita più equilibrata, ma in cuor nostro c’era Nam-myoho-renge-kyo. Ricominciò a praticare e poco dopo anche sua sorella.
Chiesi un consiglio sulla fede e, tra le tante cose che appresi, mi rimase impressa la frase che “lo studio del Buddismo è alla base della rivoluzione umana”.
Per me era difficile applicarmi, perché concretamente non riuscivo più di tanto a leggere.
Allora decisi di tornare a scuola, per imparare a leggere bene. Frequentai due anni di scuole serali che mi aiutarono a consolidare quell’aspetto della mia fede che era carente: lo studio.
Lessi molti volumi della Rivoluzione umana, i Gosho e le riviste dell’Istituto. Fu per me una grande vittoria.
Questo ulteriore passo in avanti della mia vita rafforzò i legami tra i membri della mia famiglia. Mio figlio, che nel frattempo era diventato membro, conobbe una donna, con la quale si sposò ed ebbe un secondo figlio.
Anche mia figlia si risposò, dando alla luce due figli. Anche lei ha continuato felicemente a praticare.
Nel Gosho Il tamburo alla Porta del Tuono il Daishonin scrive: «Il carattere myo del Sutra del Loto è come una fiammella. Quando si accosta una fiammella a una distesa d’erba, non solo tutta l’erba, ma anche grandi alberi e grandi pietre saranno consumati dalle fiamme. Con il fuoco della saggezza del singolo carattere myo, non solo tutte le colpe svaniranno, ma si trasformeranno in cause di benefici. Questo è il significato di cambiare il veleno in amrita» (RSND, 1, 843).
Oggi, io e mia moglie siamo felici, continuiamo con grande passione a fare attività per gli altri, ci alziamo presto al mattino e facciamo un’ora di Daimoku, poi studiamo il Gosho e gli scritti di sensei per rendere armoniose le riunioni di discussione, essendo entrambi responsabili.
I nostri scopi principali sono sviluppare sempre più compassione verso gli altri per fare shakubuku e recitare Daimoku fino all’ultimo istante della nostra vita.

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