Deprecated: Function strftime() is deprecated in /var/www/vhosts/ilnuovorinascimento.org/wp-dev.ilnuovorinascimento.org/site/wp-content/themes/nuovo-rinascimento/functions.php on line 220
Un voto piccolo piccolo - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 17:38

    446

    Stampa

    Un voto piccolo piccolo

    Leggere che Nichiren ha iniziato il proprio percorso da un “grande voto” può essere d’incoraggiamento, ma può anche suscitare la paura di non farcela. In queste pagine si racconta come sia possibile, anche partendo da dubbi e scetticismo, mantenere un “piccolo voto” che cresce e manifesta la solidità di una quercia

    Dimensione del testo AA

    Leggere che Nichiren ha iniziato il proprio percorso da un “grande voto” può essere d’incoraggiamento, ma può anche suscitare la paura di non farcela. In queste pagine si racconta come sia possibile, anche partendo da dubbi e scetticismo, mantenere un “piccolo voto” che cresce e manifesta la solidità di una quercia

    Il primo voto di Nichiren Daishonin ha origine nella sua infanzia.
    Figlio di pescatori, diretto testimone della dura lotta per l’esistenza che caratterizzava la vita della gente comune, e in particolare di chi, vivendo di pesca, vedeva affidata la propria sopravvivenza al burrascoso mare giapponese. Nasce un’intensa consapevolezza delle effimere condizioni della vita umana e il desiderio di una religione o filosofia che offrisse la chiave per affrontare e risolvere la più basilare delle questioni umane: quella della propria mortalità.
    In più, nella sua epoca, travagliata da vicissitudini politiche e lotte di potere, da carestie, epidemie e disastri naturali, il senso di incertezza, di precarietà e instabilità era ancor più acuto e le scuole buddiste tradizionali, sempre in lotta per accaparrarsi i favori dei potenti, non sapevano offrire risposte o conforto alla gente.
    Il primo voto di Nichiren, a dodici anni nel tempio Seicho in cui studiava, fu dunque quello di “diventare la persona più saggia del Giappone” per salvare prima di tutto i suoi genitori, ricambiando così il debito di gratitudine nei loro confronti per la vita e le cure ricevute.
    Perché per la felicità dei suoi genitori e delle persone a lui più prossime, Nichiren doveva diventare la “persona più saggia del Giappone”? Perché, come spiega Ikeda: «Per far sì che i nostri genitori diventino veramente felici, dobbiamo liberarli dalle sofferenze di vita e morte e il solo modo per farlo è attraverso la saggezza del Buddismo che va oltre la vita e la morte» (MDG, 1, 22).
    E «più il Daishonin studiava, più aumentava la portata del suo voto, fino a diventare il desiderio di recare felicità a tutti gli esseri umani dell’Ultimo giorno, che si trasformò a sua volta nel grande desiderio di kosen-rufu e che lo indusse a dichiarare esplicitamente il suo insegnamento» (Ibidem, 25).
    «L’Illuminazione comincia sempre con un voto» spiega Ikeda (Ibidem, 26) e, a sua volta, porta a formulare un voto ancor più grande che produce un’Illuminazione ancor più grande e così via…

    Un desiderio semplice e profondo

    Quando ho cominciato a praticare nell’autunno del 1984, volevo dimostrare che questo Buddismo “non funzionava”. Da appassionata di filosofie orientali credevo di sapere tutto del Buddismo, e la pratica buddista della Soka Gakkai mi sembrava troppo concreta, quotidiana e poco spirituale. Per mia fortuna avevo, accanto all’arroganza intellettuale, anche un certo spirito scientifico e una buona dose di sofferenza; così misi alla prova l’insegnamento che volevo confutare, praticandolo con il massimo impegno di cui ero capace. Dopo tre mesi consideravo ancora assurdo che ripetere una frase e insegnarla agli altri potesse cambiare la mia vita, ma intanto ero più contenta e notavo di aver realizzato più cose in quei pochi mesi che nei ventotto anni precedenti. Quando poi, dopo un anno circa, scelsi di ricevere il Gohonzon, la mia decisione, il mio piccolo voto, se così si può chiamare, fu il seguente: «Dubito di questo Buddismo come di qualsiasi altra cosa, dubiterò sempre perché è la mia natura, ma, alla soglia dei trent’anni, una strada bisogna pur sceglierla. Io scelgo il Buddismo del Daishonin perché, di tutte quelle che ho conosciuto, mi sembra la migliore e per questa vita non ci torno più sopra. Continuerò a praticare fino all’ultimo istante e, se mi sarò sbagliata, vorrà dire che nella prossima ne sceglierò un’altra». Dunque, il mio piccolo unico voto, visto che, all’inizio della pratica, a kosen-rufu e alla felicità degli altri si pensa ben poco, fu solo quello di non smettere mai, qualsiasi cosa ne dicesse la mia testa che in effetti, in tutti questi anni, a fronte di esperienze incredibili, immense e meravigliose, ha continuato, nei momenti cruciali, ad avanzare timidamente i propri rampognosi dubbi.
    Dopo appena un anno di Gohonzon ebbi la prima occasione di verificare se avessi fatto o meno la scelta giusta. Di ritorno da una riunione di discussione ebbi un tremendo incidente stradale, in cui avrei forse dovuto perdere la vita, e invece mi limitai a un sacco di ossa rotte, con il rischio di perdere una gamba. Era l’occasione per sperimentare cosa significava “trasformare il veleno in medicina”. Fin dal primo istante in cui mi ritrovai sull’asfalto “spensi” il cervello e iniziai a recitare Nam-myoho-renge-kyo senza sosta; al di là del successo, cioè che ho ancora tutte e due le gambe e sicuramente molta più saggezza e voglia di vivere di prima, la cosa che mi colpì fu che tutto il Daimoku che recitavo, per salvarmi la vita e la gamba, acuiva immensamente la mia sensibilità nei confronti della felicità degli altri, dagli infermieri ai pazienti. Era come se, nonostante il dolore e le prove che dovevo affrontare, il loro benessere fosse altrettanto importante del mio. Costruii così, con assoluta naturalezza, io che ero famosa per essere scorbutica, tante relazioni positive, parlai del Buddismo a un sacco di gente e ogni volta che me ne andavo da un ospedale piangevano tutti… comprese le suore.
    Prima di ogni operazione chirurgica passavo la notte recitando Daimoku e studiando il Gosho e ricordo che nella prima di queste notti trovai la frase: «Inoltre chi persevera di fronte a grandi persecuzioni (“difficoltà” nella traduzione di allora, fedele all’originale giapponese) e abbraccia il sutra dall’inizio alla fine è l’inviato del Tathagata» (RSND, 1, 837). Non so perché mi colpì tanto, ma io ero davanti a una difficoltà spaventosamente più grossa di me e pensare di “essere l’inviato del Tathagata” mi dava inspiegabilmente un grande coraggio, tanto che nonostante la dose ridotta di anestesia locale, per via della debolezza delle mie condizioni fisiche e delle troppe cose da riparare, riuscii a fare shakubuku al chirurgo che cercava di rappezzarmi la mano.
    Insomma, fin da quella prima esperienza ebbi occasione di verificare la validità del concetto che Daisaku Ikeda esprime così efficacemente nel Mondo del Gosho: «Formulare un grande voto crea un io forte. La promessa di lavorare per un nobile scopo ci permette di superare le nostre debolezze, diventa una forte base di appoggio che ci permette di affrontare qualsiasi difficoltà» (MDG, 1, 14).
    E, di certo, se in quella prima esperienza di pratica riuscii ad andare fino in fondo, realizzando una guarigione se non impossibile assai improbabile per la medicina, e sostenendo la mia famiglia in occasione della morte improvvisa di mio padre che seguì subito dopo, fu grazie alla forza della pratica per gli altri, del mio “piccolo voto”. È facile sentire coraggio all’inizio delle proprie battaglie, ma, dopo tanto tempo che si lotta in compagnia di un dolore fisico costante, i nervi cominciano a cedere. E quando, verso la dodicesima operazione, assillata da mille altre difficoltà, sentii che volevo solo lasciarmi andare e smettere di lottare, mi balzarono alla mente i volti dei membri, degli amici, di tutte le persone a cui avevo fatto shakubuku convincendole che “l’impossibile diventava possibile”, e che mi avevano creduto, e che si sarebbero sentite deluse e tradite. Per fortuna, dissi: «Vabbè, mi tocca andare fino in fondo anche se non ne ho voglia».
    Per fortuna, dico, perché quel­l’e­sperienza fu la base per tutte quelle successive, perché al di là di tutte le chiacchiere della mia mente scettica e razionale, ogni volta che guardo le cicatrici della mia gamba, penso con fierezza e gratitudine a quella grande prova che la Buddità esiste per davvero e che io, ma proprio io, a dispetto di tutto, di tutti e pure dei miei stessi dubbi, sono riuscita a manifestarla.

    Un voto da leone

    La sensazione che ebbi la prima volta che lessi il Mondo del Gosho fu che la vita del Daishonin fosse un incredibile modello di coerenza fra teoria e pratica, e che il suo esempio trasmettesse tanto quanto le sue parole. In questo senso, da quel primo voto fatto a dodici anni, penso che la sua vita fu un “voto continuo” sempre più profondo.
    Una tappa cruciale di questo processo è ne L’apertura degli occhi in cui il suo voto assume una portata universale ed egli rivela che in questa decisione di dedicarsi alla diffusione della Legge mistica per la felicità di tutti, senza risparmiare la propria vita, di fronte a qualsiasi persecuzione, risiede la sola e unica causa per il conseguimento della Buddità.
    Decidere di propagare la Legge a costo della vita è l’unico e il solo modo di conseguire la Buddità. Lo spiega anche l’esempio di Shariputra che praticò la via del bodhisattva per sessanta kalpa, ma abbandonò la via perché non sopportò l’insulto del brahmano che gli aveva chiesto in elemosina un occhio e poi lo aveva calpestato.
    In cuor mio avevo sempre simpatizzato con il povero Shariputra, ma quando lessi la spiegazione di Ikeda relativa proprio a questo passo dell’Apertura degli occhi, fu un punto di svolta per la mia fede. L’errore di Shariputra, in cui spesso cadiamo tutti, fu che nel momento in cui il brahmano sdegnò il suo nobile sforzo, egli per un istante dubitò della Buddità del brahmano e così finì per dubitare anche della propria e gradualmente abbandonò la strada dell’insegnamento corretto.
    Inevitabilmente per l’epoca in cui viviamo e perché l’oscurità fondamentale – ovvero il senso di sfiducia, separazione, disprezzo, oppressione degli altri, il considerare se stessi e le altre persone come mezzi e non come fini – permea comunque la vita umana, ci saranno sempre occasioni di dubitare della nostra e dell’altrui Buddità; per questo Nichiren con il suo esempio ci esorta a decidere di combattere l’oscurità fondamentale dentro e fuori di sé, mantenendo e dimostrando un profondo rispetto e fede per la natura di Budda di ogni persona. Scrive: «Sebbene io e i miei discepoli possiamo incontrare varie difficoltà, se non nutriamo dubbi nei nostri cuori, raggiungeremo naturalmente la Buddità» (L’apertura degli occhi, RSND, 1, 256).
    In questi ventiquattro anni di pratica, il mio voto piccolo piccolo si è evoluto nella consapevolezza che la visione buddista della real­tà come un tutto interconnesso è assai sensata e che banalmente la maniera migliore per diventare felice è adoperarsi per la felicità degli altri e del proprio ambiente. E che l’unico modo in cui le persone possono diventare più felici è rivelando a se stesse e agli altri di avere in sé la capacità di vincere qualsiasi problema e trasformarlo in un’occasione per arricchire ancor di più la propria vita e quella degli altri. Penso che il desiderio di kosen-rufu non sia altro che il “grande desiderio”, il desiderio originario che profondamente è alla base della vita di ogni persona, il desiderio di essere felici insieme agli altri.

    ©ilnuovorinascimento.org – diritti riservati, riproduzione riservata