Ho toccato il fondo e sono rinata. La lotta e la determinazione con se stessi, l’azione continua e giornaliera per sviluppare la gratitudine nei confronti della mia vita, così com’è, mi ha permesso di rafforzare il mio spirito e il mio corpo fino a tornare combattiva
Quando a diciannove anni ho incontrato la pratica buddista ero immersa nella sofferenza, nella poca voglia di vivere, in un atteggiamento di continua critica; ma soprattutto ero colma di rabbia nei confronti della persona che ritenevo causa dei miei sogni infranti: mio padre.
E così, piena di arroganza e di sfida nei confronti di questi buddisti che mi avevano accolto con un sorriso dicendomi che potevo mettermi qualsiasi obiettivo, mi sono presentata alle riunioni di discussione con lo spirito di “adesso vi faccio vedere io!”. Misi subito lo scopo che mio padre scomparisse dalla mia vita. Man mano che praticavo iniziavo però ad avvertire delle sensazioni positive dentro di me e sempre più spesso capitava che quel fiume di sofferenza trovasse pace. Più recitavo Daimoku, più l’obiettivo su mio padre si trasformava.
I primi tempi di pratica buddista non sono stati facili, entrambi i miei genitori erano contrari, inoltre mio padre è cugino di un vescovo e mia madre ha ricevuto una severa educazione cattolica. Così ho iniziato a recitare Daimoku di nascosto, chiusa in bagno.
Sentivo che la pratica in quel momento di buio era l’unica luce, quando recitavo Daimoku sentivo nel cuore tanta speranza e che tutto dipendeva da me e dalla mia decisione di essere felice.
Mi sembrava di vivere circondata da un muro di gomma fatto di formalità e rapporti lasciati franare. Poi, un giorno, l’equilibrio economico della mia famiglia si è spezzato: mio padre da brillante direttore di cantieri navali si è trovato in strada, con parecchie centinaia di milioni di lire di debiti. Siamo finiti così senza luce, gas, telefono: non avevamo una lira. A volte non sapevamo neppure cosa mangiare. Eravamo poveri nell’anima e poveri nel corpo. La pratica però mi stava dando i primi benefici e io percepivo una serenità interiore che nonostante le circostanze esterne riuscì a farmi tornare quella voglia di sognare perduta da anni. Fu allora che decisi di ricevere il Gohonzon tirando fuori il mio sogno impossibile: diventare attrice.
Nel frattempo avevo smesso di desiderare la scomparsa di mio padre, ora recitavo Daimoku per il suo trasferimento. Anche questo obiettivo però cambiò: iniziai a pensare che in fondo poteva pure restare a casa che tanto mi bastava non considerarlo. Fino a quando una sera tornando da un turno di protezione al Centro culturale dove mi ero allenata ad accogliere e incoraggiare i membri, mi accorsi di quanto solo e sofferente fosse mio padre. Quella sera, per la prima volta dopo molti anni, gli chiesi come stava. In quel momento ero spaccata in due parti: una mi diceva di lasciar perdere, l’altra, incoraggiata dalle frasi di Nichiren, Toda e Ikeda, al contrario mi incoraggiava ad agire. Così feci. Non ricordo cosa mi disse mio padre, ma ricordo la decisione che presi allora: avrei trasformato radicalmente il karma della mia famiglia e mia madre, mio padre e mia sorella sarebbero diventati membri della Soka Gakkai. Ecco un’altra cosa che avevo imparato con il Buddismo di Nichiren: trasformare, considerare i problemi come occasioni, lucidare senza eliminare, illuminare il buio, credere che tutte le sofferenze possono diventare grandi fortune.
Oggi tutta la mia famiglia fa parte della Soka Gakkai e mia sorella Valentina, che vive nelle Cinque Terre ha, l’unico Gohonzon del suo paese.
Con la determinazione e il coraggio sviluppati davanti al Gohonzon, mio padre è riuscito a risanare tutti i debiti e a crearsi una nuova attività lavorativa, che ci permette di avere un alto tenore di vita.
Oggi sono un’attrice professionista che riesce a vivere più che dignitosamente con questo lavoro.
La battaglia più dura però è arrivata dopo, quando è comparsa una malattia vera e propria chiamata depressione. Lavarmi i denti era diventato una fatica, la mia vita si arrestò. In questo deserto buio, avevo solo la pratica buddista: non ho mai smesso di recitare Gongyo nonostante il suono del Daimoku mi risultasse spesso pesante. Recitavo comunque tre Nam-myoho-renge-kyo al giorno. Che beffa! Proprio io che col Daimoku avevo cambiato la vita della mia famiglia, realizzando sogni impossibili, ora non riuscivo a combattere il demone con le armi che conoscevo. La cosa fondamentale però è stato comprendere che ero preziosa anche in quello stato in cui mi percepivo come assoluto schifo. Andavo davanti al Gohonzon in condizioni pietose. Solo accettandomi per quella che ero, capendo che anche in quello stato dove non c’era alcuna forma di luce ero un Budda, sono riuscita piano piano a sopravvivere. Le cure mediche mi hanno accompagnato costantemente per otto anni e i primi tempi stavo a letto anche diciotto ore, ma mantenevo il legame con il Gohonzon.
Nel 2004 dopo un gravissimo ricovero ospedaliero, a seguito del secondo tentativo di suicidio, mi ritrovai in coma. Ho combattuto, tra la vita e la morte e ho rischiato, a detta dei medici, di compromettere definitivamente la mia attività celebrale. Mi sono ritrovata come non mai di fronte a me stessa, sola con la mia vita. Ho allora deciso di chiudere una relazione durata undici anni, di cui quattro di matrimonio, per non cedere il passo all’ipocrisia. Dopo tanto tempo iniziai di nuovo a sentirmi innamorata, ma prima di tutto della mia vita. A volte penso che sono rinata dal fango proprio come il fiore di loto. Ho toccato il fondo e sono rinata. La lotta e la determinazione con se stessi, l’azione continua e giornaliera per sviluppare la gratitudine nei confronti della mia vita, così com’è, mi ha permesso di rafforzare il mio spirito e il mio corpo fino a tornare combattiva. Ho continuato le cure mediche scrupolosamente. Ho iniziato a comprendere che qualunque cosa facessi era manifestazione di Nam-myoho-renge-kyo. Quindi ho iniziato a fare le cose che mi piacevano senza senso di colpa, vivendole al cento per cento e con il mio ritmo, che era solo mio. Dopo otto anni di malattia oggi sono guarita completamente, la mia vita è rinata e con essa il mio lavoro di attrice. Affetti e amicizie sono rinati a loro volta: ho compreso che ogni individuo è solo con se stesso, ma se ha una vita grande, dentro ci può stare tutto, anche amici lontani. Anche l’amore è rifiorito con gioia. Nei momenti più duri della mia vita, tutta la mia famiglia si è riunita per recitare Daimoku davanti al Gohonzon.
Un passo alla volta, sentendo il mio cuore, questo è stato il mio allenamento, quello che mi ha aiutato a ricordare ogni giorno che il mio maestro crede in me. Mi porto nel cuore il coraggio e la forza di rialzarsi nonostante tutto, il coraggio di determinare che la più grande sfortuna può diventare la più grande fortuna! Mi porto nel cuore questa rivoluzione umana, consapevole del fatto che nella lotta c’è già la vittoria. Tra i tanti obiettivi che ho, due li voglio dichiarare ad alta voce: creare una famiglia di valore e numerosa con il mio compagno e intraprendere un’importante carriera cinematografica che mi porterà a vincere l’Oscar! C’è una frase del presidente Ikeda che mi ha accompagnata nel percorso infondendomi coraggio: «Qual è oggi il mio compito? Realizzare la missione di oggi. Qual è la mia missione di oggi? Lottare nelle circostanze in cui mi trovo. In che cosa consiste questa lotta? Nell’avanzare fino al limite delle mie forze» (D. Ikeda, Diario giovanile, Esperia, pag. 14).