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Un mostro chiamato paura - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 10:31

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Un mostro chiamato paura

Adele Gerardi, Trento

La paura invade la vita di Adele che si trova a lottare per non perdere padre, marito, lavoro e, soprattutto, se stessa. Il sostegno della pratica e della comunità buddista è cruciale, facendole sentire che non è sola e accompagnandola alla scoperta del suo valore

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La paura invade la vita di Adele che si trova a lottare per non perdere padre, marito, lavoro e, soprattutto, se stessa. Il sostegno della pratica e della comunità buddista è cruciale, facendole sentire che non è sola e accompagnandola alla scoperta del suo valore

È stato dopo quasi vent’anni dall’inizio della pratica buddista che la paura ebbe il sopravvento. La sofferenza era apparentemente più forte di me. Avevo la sensazione di non riuscire a trasformare nulla: non si vedeva l’ombra dello stato vitale del Budda, rimanevo fissa tra Animalità (paura) e Inferno. Mio padre ebbe un attacco di peritonite fulminante a novant’anni. Il giorno prima avevo perso un lavoro conquistato in un anno di sforzi: avrei dovuto firmare il contratto e lo stesso giorno sarei passata a salutare mio padre, che vive in un’altra città, anche per condividere con lui la novità.
Quello che invece la vita mi riservò fu il blocco del contratto “a data da destinarsi” senza spiegazioni e mio padre, il giorno dopo, svenuto in bagno tra il vomito e quindi trasportato d’urgenza all’ospedale. Io ero lì sola. L’ansia per la perdita del lavoro si aggiunse alla preoccupazione di perdere mio padre. I medici sentenziarono il rischio della perforazione dell’intestino e provarono con dosi massicce di antibiotici a scongiurare l’intervento che sarebbe stato fatale perché lui è cardiopatico. Decisi di recitare Daimoku tre ore al giorno: iniziavo alle cinque di mattina, poi andavo in ospedale. Questa la mia vita per due mesi: tanto rimase in ospedale mio padre e tanto rimasi io lontana dalla mia famiglia, mia figlia e mio marito a Trento. Dormivo pochissimo: ero sommersa dalla paura della morte di mio padre, che sentivo come unico riferimento affettivo genitoriale perché avevo perso mia madre a sedici anni. Ma questo dolore forte non aveva soffocato l’altra di paura, quella di aver perso il lavoro a causa mia, per essermi comportata in modo maldestro e impulsivo con una responsabile del team in cui dovevo collaborare. Non sapevo darmi pace e i due dolori si sommavano, annichilendomi. Tornava il mostro di sempre: la paura di perdere amore, stima, sicurezza.
Mio padre è andato in coma tre volte, poi in depressione. Inoltre, una serie di complicazioni nosocomiali lo debilitarono al punto di non riuscire neanche a stare seduto sul letto. Io continuavo ad assisterlo e recitavo Daimoku. Intanto dal lavoro nessuna notizia, ma solo fredde mail per farmi concludere un lavoro fatto fuori contratto, ma nelle quali non si accennava al pagamento. Ero in crisi d’insicurezza, meditavo ritorsioni, denunce, ma poi mi fermavo perché volevo affidare al Daimoku la trasformazione della sofferenza. Anche il presidente dell’associazione che mi aveva dato l’incarico non rispondeva più alle mie mail. Mio marito pensò bene in quel periodo di minacciare di andarsene da casa, perché ero “insopportabile”. «Proprio ora – pensai aumentando il mio dolore – che ho bisogno solo di affetto e di essere compresa!». Così il quadro della perdita era completo: anche la separazione.
L’unico sostegno era il Daimoku, le telefonate dei compagni di fede e il Gosho. Decisi a quel punto di mettere in pratica tutti gli incoraggiamenti letti. Mi sforzai di fare shakubuku ovunque, feci recitare mio padre, presi contatti con i membri della regione in cui mi trovavo. Qui fiorì il primo beneficio: capii che non ero sola! I membri mi scaldarono il cuore e ringraziai potente nel mio cuore sensei per aver consolidato nel mondo la SGI. «Questa è la mia famiglia – mi dicevo – non sono sola». Recitando per il lavoro sentii che ero io stessa a calpestare la mia dignità, l’oscurità si manifestava ancora una volta come disprezzo di me stessa e senso di inadeguatezza. Smisi di controllare ossessivamente la mail per vedere se mi avevano cercato. Sentii il mio valore, anche se fuori nessuno lo riconosceva, dandomi un lavoro e che, anche se avevo cinquantadue anni con una collaborazione da cinquecento euro al mese, la mia dignità non ne era intaccata. Questo fu il pensiero costante: “ogni fenomeno contiene Nam-myoho-renge-kyo” e quindi abbandonai ogni giudizio su di me e sugli altri e recitai per far emergere il Budda lì dov’ero.
In sintesi ora vi dico: 1) che mio padre si è fatto una passeggiata al mare con me l’estate scorsa alla tenera età di novantun anni; 2) venni a sapere in seguito che avevo perso il lavoro perché il centro era stato ridimensionato dall’istituzione pubblica che lo finanziava. E l’ormai ex presidente mi richiamò per dirmi che dovevo aiutarlo nel lavoro di comunicazione. Oggi sono più forte e sono determinata non più a trovare “un lavoro per kosen-rufu“, ma a fare “kosen-rufu lì dove mi trovo”, che riguardi il lavoro, l’amicizia o la famiglia. Per il lavoro sono al secondo libro e al terzo programma televisivo che mi sono stati commissionati proprio dopo quei due mesi di tunnel dell’orrore!

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