L’agenzia di stampa internazionale online Inter Press Service (IPS) pubblica un articolo di Daisaku Ikeda che esorta i leader politici a “raccogliere il coraggio della moderazione” e a “cercare un terreno comune” su cui basare le proprie azioni rivolte all’eliminazione delle armi di distruzione di massa
Tokyo, 30 marzo 2012. Negli ultimi mesi la disputa sulla natura e sugli intenti del programma di sviluppo nucleare iraniano ha generato crescenti tensioni in tutto il Medio Oriente. Considerando l’enorme portata di ciò che c’è in gioco, mi tornano alla mente le parole dello storico britannico Arnold Toynbee che parlava dei pericoli dell’era nucleare come di «un nodo gordiano che deve essere sciolto da dita pazienti invece di essere tagliato con la spada».
Mentre cresce la preoccupazione che queste tensioni possano sfociare in un conflitto armato, voglio esortare i leader politici di tutti gli stati coinvolti a rendersi conto che è il momento di raccogliere il coraggio della moderazione e cercare un terreno comune sul quale poter risolvere l’attuale situazione di stallo.
L’uso della forza militare o di altre forme di potere duro non ha mai prodotto soluzioni durature. Anche se può apparire una scelta possibile per eliminare una minaccia specifica, in realtà ciò che lascia dietro di sé è un’eredità di rabbia e di odio ancor più letale.
È una triste costante delle politiche internazionali che, quando sale la tensione, salgono anche i livelli delle minacce e delle invettive che vengono scambiate. Ricordiamo come, quando il presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy e il premier sovietico Nikita Krusciov si incontrarono a Vienna, all’apice della Crisi di Berlino del 1961, il secondo dichiarò: «La forza si scontrerà con la forza. Se gli Stati Uniti vogliono la guerra è un loro problema. Le calamità generate dalla guerra saranno condivise in egual misura».
Ma non dobbiamo perdere di vista che, quando scoppia una guerra, a pagare lo scotto di indicibili sofferenze sono un numero inaudito di cittadini comuni. È qualcosa che le generazioni che hanno vissuto le guerre del XX secolo conoscono bene per dolorosa esperienza personale. Nel mio caso, persi uno dei miei fratelli maggiori in battaglia e fummo costretti per due volte ad abbandonare la nostra casa perché era bruciata. Ho ancora impresso il ricordo di quando portavo per mano mio fratello, che allora era un bambino, mentre scappavamo fra i bombardamenti di un raid aereo. Qualsiasi uso di armi di distruzione di massa ingigantirebbe al di là di ogni immaginazione questo tributo di morti e di caos. In particolare le armi nucleari andrebbero riconosciute come armi della massima disumanità.
Sia nella crisi di Berlino del 1961 che nella crisi dei missili di Cuba del 1962, i capi delle due superpotenze, giunti sull’orlo del conflitto, decisero di fare un passo indietro. In mezzo a tensioni insostenibili, senza dubbio si resero conto della devastazione che avrebbe generato il loro fallimento di disinnescare la situazione. Nella situazione attuale sappiamo che un attacco militare contro gli impianti nucleari iraniani sarebbe fortemente destabilizzante. Una rappresaglia sarebbe inevitabile ed è impossibile predire quali ripercussioni avrebbe in una regione che sta subendo vaste trasformazioni politiche.
Anche quando le dinamiche delle politiche internazionali sembrano imprigionate in una spirale di minacce e di sfiducia, non dobbiamo ignorare le voci degli innumerevoli individui che vivono in quelle regioni e che desidererebbero vederle libere dalle armi nucleari. Possiamo sentirle, per esempio, leggendo le ricerche che ha divulgato la Brookings Institution nel dicembre scorso, dalle quali risulta che due israeliani su tre sarebbero favorevoli a un accordo che rendesse il Medio Oriente, Iran e Israele compresi, una zona denuclearizzata.
La conferenza internazionale, prevista per quest’anno, allo scopo di istituire una zona libera dalle armi di distruzione di massa in Medio Oriente è un tentativo di rispondere alle aspirazioni delle popolazioni locali, e va compiuto ogni sforzo possibile per assicurarsi che sia un successo. L’eliminazione di queste armi di distruzione di massa dalla regione rappresenta una strada verso la realizzazione dei comuni interessi di sicurezza di Iran, Israele e dell’intera regione. Gli sforzi della Finlandia per ospitare questa conferenza sono lodevoli e spero che il Giappone, un paese che ha sperimentato su di sé gli effetti delle armi nucleari durante la guerra, svolgerà un ruolo positivo nel creare le condizioni per il dialogo.
Il presidente Kennedy, che si era trovato per due volte in una crisi potenzialmente apocalittica, una volta affermò: «Le nostre speranze devono essere temprate dal monito della storia». Fino a oggi, le aspirazioni a un mondo senza armi nucleari sono state alimentate e forgiate attraverso gli sforzi incessanti di coloro che hanno incontrato e superato le difficoltà dei momenti di crisi. Per esempio, il processo che condusse a stipulare il Trattato di Tlatelolco, col quale si istituì la prima zona denuclearizzata in una regione popolata, fu accelerato dall’emergenza creata della crisi missilistica cubana.
Nonostante le dichiarazioni ciniche che definivano tali sforzi una perdita di tempo, perché non si sarebbe mai raggiunto l’accordo su un trattato del genere, i negoziatori insistettero, e oggi tutti i trentatré stati dell’America Latina e dei Caraibi, così come i cinque stati nucleari dichiarati, hanno aderito al trattato di Tlatelolco.
Per risolvere la crisi che attualmente incombe sul Medio Oriente occorre una rinnovata determinazione da parte della società internazionale a non abbandonare mai il dialogo, ad approfondire la convinzione che ciò che ora appare impossibile può veramente diventare possibile. Indipendentemente da quanto sia scoraggiante la realtà presente e da quanto insidioso sia il cammino per uscirne, dobbiamo ricordare che la speranza si alimenta soltanto grazie a sforzi tenaci e incessanti verso la pace.