Iniziammo tutti a recitare Daimoku con forza, cercando una risposta. Io pregavo per far emergere saggezza e per comprendere e affrontare al meglio l’accaduto
Incoraggiato dai primi risultati di una pratica poco costante, cominciai regolarmente a fare Gongyo e a dedicarmi agli altri, mettendo a disposizione alla meglio la nostra piccola casa alle persone che si avvicinavano al Buddismo. Dopo un anno ricevetti il Gohonzon insieme a mia moglie e Alberto, mio figlio.
La nostra vita si rinnovò: ci trasferimmo in una casa molto più grande, recuperai il rapporto con mio padre e con mia moglie decidemmo di avere un altro figlio. Così nacque il nostro secondogenito, Bruno.
All’inizio degli anni ’90, costretto a casa per un brutto incidente sul lavoro, ebbi l’occasione di recitare molto Daimoku, una “riserva” che mi servì tantissimo nel momento in cui morì improvvisamente mia suocera. Grazie a ciò riuscii a far fronte alla situazione e a incoraggiare le persone vicine rimaste preda di una grande, quanto comprensibile, disperazione. Fu anche l’occasione per comprendere meglio il concetto di “cambiare il veleno in medicina” e di percepire il principio buddista della “morte come espediente”. La morte di mia suocera fu un “espediente” per la crescita interiore di tutti. Ebbi così modo di sperimentare come il “tesoro del cuore” cresceva con l’aumentare del mio impegno e gli sforzi per far avanzare kosen-rufu, che si concretizzavano in lunghi viaggi per incoraggiare membri distanti da casa mia. Fu così che realizzai un obiettivo vecchio di sette anni: cambiare lavoro.
Grazie al nuovo impiego avevo più tempo da dedicare alle attività e ai miei interessi, maggiori soddisfazioni, e soprattutto più sicurezza dal punto di vista economico. Evitai anche di subire le conseguenze del fallimento del precedente datore di lavoro, avvenuto giusto due mesi dopo le mie dimissioni. L’avevo scampata per un pelo…
Dal 2006 al 2009 ho dovuto affrontare nuovamente la sofferenza di “doversi separare da chi si ama”.
Prima se ne andò mio fratello, per una grave malattia, poi mio padre e infine mia madre. In questi momenti cruciali ho cercato di seguire i consigli di Daisaku Ikeda recitando più Daimoku possibile, intensificando l’attività per gli altri e lo shakubuku. Il risultato è stato una più profonda comprensione del significato di malattia e morte. Mi sono confrontato con la mia codardia e, superandola, ho potuto far emergere il coraggio di stare accanto a chi stava morendo, affrontando la separazione da mia madre con la quale avevo un rapporto veramente speciale. Scrissi una lettera al presidente Ikeda, nella quale lo informavo delle mie vicende e delle mie esperienze, e dove ringraziavo lui e sua moglie con tutto il cuore. Sentivo che tutti i risultati realizzati fino a quel momento, li dovevo al rapporto con il maestro stabilitosi “silenziosamente” nel tempo, attraverso le sue guide e nel mio impegno nel metterle in pratica. Sensei mi rispose che «pregava profondamente per la mia felicità e perché la mia famiglia godesse di buona salute e diventasse veramente felice». Mi colpì quel “veramente felice”: c’era qualcosa che dovevo approfondire e lo capii poco tempo dopo.
Fin dai primi tempi di pratica, una persona che chiamerò Carlo frequentava spesso casa nostra, sia per l’amicizia con il mio primogenito Alberto, che per la simpatia nei confronti di Bruno. La frequentazione e la gentilezza nei nostri confronti fece sì che si consolidasse una forte amicizia.
Un giorno Carlo mi chiese del Buddismo, lo invitai a recitare Daimoku e lui decise di provare.
Passarono mesi, e poi anni, ma Carlo non manifestava il desiderio di ricevere il Gohonzon; tra le varie motivazioni quella di vivere con il padre che non accettava la sua fede. Anche mio figlio Bruno aveva iniziato a praticare e dopo un po’ prese la decisione di divenire membro e anche Carlo sentì che era arrivato il momento di ricevere il Gohonzon. Il giorno della cerimonia ero doppiamente orgoglioso: non solo un mio shakubuku riceveva il Gohonzon, ma anche l’altro mio figlio aveva deciso di entrare nella Soka Gakkai.
Nei giorni seguenti Bruno, che studiava fuori città, tornò a casa per qualche giorno. Il suo viso e il suo essere manifestavano una grande sofferenza, così come il suo modo di pregare. Gli chiesi che cosa avesse e con grande dolore, mi parlò delle molestie sessuali che per molti anni, fin da bambino, aveva subito da parte di Carlo.
Un grande sconforto, sensi di colpa misti a rabbia e a dubbi investirono improvvisamente me e mia moglie. Non ci capacitavamo di come avevamo potuto non accorgerci di tutto questo, di aver permesso che nostro figlio frequentasse questa persona che approfittava di un bambino, e di aver contribuito in qualche modo a tenere vicino a nostro figlio chi gli aveva provocato una così grande sofferenza. Ci chiedevamo perché fosse potuto accadere.
Parlammo subito con un carissimo amico e compagno di fede di grande esperienza. Ci incoraggiò prospettandoci una serie di possibili azioni da fare, ma soprattutto ci spronò a ricercare la soluzione sulla base della fede per “creare valore” anche in questa difficile circostanza. Iniziammo tutti a recitare Daimoku con forza, cercando una risposta. Io pregavo per far emergere saggezza e per comprendere e affrontare al meglio l’accaduto.
La prima cosa che successe fu che mio figlio, dopo aver affrontato questo pesante fardello, decise di parlare con franchezza a Carlo raccontandogli la sua sofferenza e il percorso che stava facendo. Lo incoraggiò anche a parlare con noi e lo spinse a curarsi. Questa azione coraggiosa scaturì dalla forza della nostra pratica buddista e dalla nostra unità.
Carlo venne da noi e io e mia moglie capimmo la grande sofferenza che lo attraversava e quanto le sue azioni fossero state guidate dall’oscurità che avvolgeva la sua vita, creando uno squilibrio nella sua mente. Fino ad allora lo avevamo considerato uno di famiglia, quasi un figlio, oltretutto era un membro della Soka Gakkai. Pensai che “valore” poteva significare il concedergli una possibilità, dargli, nonostante tutto, fiducia. Il che equivaleva a dare fiducia alla sua Buddità, di conseguenza lo incoraggiammo a vincere sulla sua oscurità e a intraprendere una terapia. Fu così che Carlo seguì il nostro consiglio rivolgendosi a una struttura pubblica che lo segue tutt’ora.
Nostro figlio ha prima trovato il sostegno di un’associazione che a titolo gratuito ha messo a sua disposizione una psicologa e, successivamente, ha intrapreso un percorso con una professionista privata. All’inizio sostenevamo noi il costo di questa terapia, ma in questo c’era qualcosa che stonava e, dopo una comune riflessione, trovai giusto incontrare Carlo e chiedergli di farsi carico di queste spese. Carlo accettò di contribuire concretamente per porre rimedio a quella sofferenza arrecata a nostro figlio.
Bruno, che continua a praticare con forza nella città in cui vive e studia, ha raccontato in varie occasioni la sua esperienza e diverse persone sono andate da lui rivelando per la prima volta nella loro esistenza di aver avuto problemi analoghi al suo e questo gli ha permesso di aiutarle e incoraggiarle ad aprirsi e a iniziare un percorso comune per vincere questa sofferenza.
Io e mia moglie osservando lui abbiamo compreso meglio il significato di “trasformare il karma in missione”. Direi che tutta la mia famiglia ha imparato molto da questa esperienza e insieme, sia pure tra alti e bassi che il vivere comporta, stiamo portando avanti la nostra rispettiva rivoluzione umana.
Non mi sento speciale ma fortunato per aver incontrato un così efficace mezzo per trasformare le sofferenze in gioia e un maestro che in maniera corretta mi guida e mi incoraggia.
Credo di aver compreso più profondamente il significato della risposta di sensei alla mia lettera: “realizzare una famiglia veramente felice” non si riferisce a un punto di arrivo. È piuttosto un incoraggiamento a lottare sempre, in qualsiasi circostanza per “ricercare la vera felicità”, quella che non deriva dall’avere o dall’ottenere qualcosa, ma che sgorga dalla vita quando lottiamo contro l’oscurità fondamentale che vuole affossarci in ogni modo.
Ikeda definisce la vita un immenso palcoscenico dove poter rappresentare il magnifico dramma dell’esistenza, penso che sia proprio così, specialmente se decidiamo di incoraggiare quante più persone possibili offrendo loro un mezzo che non mancherà mai di trasformare qualsiasi veleno in una medicina.
Voglio continuare così, sapendo che, come dice una bellissima canzone di Venditti, «quando pensi che sia finita, è proprio allora che incomincia la salita… che fantastica storia è la vita!».