La parabola di Sessen Doji, il ragazzo delle Montagne Nevose, narra come il prendere coscienza dell’impermanenza della propria vita ci conduca a rompere il muro dell’illusione e a vivere secondo una prospettiva più profonda e più libera
Abitualmente si considera illusa una persona che confonde i suoi desideri e le sue speranze con la realtà. Come se ci fosse una realtà oggettiva uguale per tutti, percepibile attraverso i sensi, che però qualcuno a volte deforma e trasforma in una realtà tutta sua, che sostituisce poi a quella “vera”. Naturalmente, mentre cogliamo con grande lucidità e prontezza le illusioni altrui, siamo avvolti nella nebbia più fitta per quanto riguarda le nostre, tranne poi riconoscerle in seguito a bruschi risvegli.
Anche Nichiren Daishonin, nel Gosho Le quattordici offese, paragona l’illusione al sogno: «Quando siamo illusi è come se sognassimo, quando siamo illuminati è come se ci fossimo svegliati» (SND, 5, 177). Ma l’analogia si ferma qui, perché la sua concezione di illusione va molto più in profondità della nostra. Quella che consideriamo la realtà oggettiva è infatti per Nichiren la prima grande illusione, dato che la realtà della vita umana è rappresentata dall’impermanenza: «Anche un uomo che vive a lungo, non vive oltre i cento anni e tutti gli eventi di una vita non sono che il sogno di un breve sonno» (Ibidem, 180-181).
Vivere in preda all’illusione è dunque una caratteristica peculiare degli esseri umani: «Finché siamo nel mondo di saha, siamo circondati dai genitori e dai parenti, da fratelli, sorelle, moglie, figli e servitori; abbiamo la grande compassione del padre e il profondo amore della madre. Marito e moglie possono essere attaccati l’uno all’altra come una coppia di gamberi marini che, pur essendo animali, si uniscono facendo voto di dividere la stessa buca per tutta la vita senza mai separarsi; tuttavia […] non possono stare insieme nel viaggio al regno dei morti. […] Gli uomini vivono in questo mondo fuggevole dove tutto è incertezza e impermanenza, eppure pensano soltanto ad ammassare ricchezze in questa esistenza. Dalla mattina alla sera si concentrano solo su faccende terrene, senza venerare il Budda e senza credere nella Legge; sprecano le loro giornate senza praticare e senza acquistare saggezza» (Ibidem, 176-177) .
Come possiamo allora risvegliarci da questa grande illusione e vivere serenamente avendo coscienza dell’impermanenza della vita stessa? La soluzione più pratica non è certo quella dei cinesi di cui racconta Tiziano Terzani nel suo ultimo libro: «Nella vecchia Cina molti tenevano in casa la loro bara per ricordarsi della propria mortalità; alcuni ci si mettevano dentro quando dovevano prendere decisioni importanti, come per avere una migliore prospettiva sulla transitorietà del tutto» (Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra, Milano, Longanesi, 2004, pag. 15).
Un modello di comportamento utile ci viene proposto da Nichiren Daishonin, sempre nel Gosho Le quattordici offese, attraverso la storia di Sessen Doji, ripresa dal Sutra del Nirvana. Sessen Doji è un giovane che vive nelle Montagne Nevose, si veste con pelli di cervo e si nutre con frutti e felci. Osservando attentamente il mondo, comprende che «per la legge dell’ impermanenza della vita, tutto ciò che nasce è destinato a morire. La transitorietà di questo mondo fuggevole è simile alla luce di un lampo, alla rugiada che svanisce al sole del mattino, alla lampada che è spenta facilmente dal vento o alle fragili foglie del banano» (SND, 5,176). Il suo fortissimo desiderio di conoscenza lo porta a decidere di sacrificare il suo corpo pur di ascoltare e diffondere un verso dell’insegnamento buddista. Naturalmente la prova cui si sottopone, offrirsi in pasto a un demone, risulta un espediente escogitato da Taishaku e Sessen Doji viene acclamato da tutti gli esseri celesti come un vero bodhisattva.
La storia di Sessen Doji, giustamente citata per illustrare lo spirito dell’offerta, è anche però una potente metafora per raccontare come ci si possa liberare in un istante di tutte le illusioni e accedere all’Illuminazione. Per Sessen Doji, compresa l’impermanenza della vita, il corpo diventa un mezzo per conoscere e diffondere l’insegnamento. Agisce in base a ciò che ha compreso e dunque offre la sua vita senza timori, tentennamenti, riflessioni o paure, ma spontaneamente, gioiosamente, con grande freschezza e gratitudine. Il messaggio è chiarissimo: la comprensione dell’impermanenza della vita rompe il muro dell’illusione e ci porta a vivere in modo completamente diverso, libero dalla sofferenza della morte e da tutti gli attaccamenti che ne derivano. Il momento cruciale in questa storia è quello in cui Sessen Doji si lancia nelle fauci del demone, cioè compie un’azione coerente con la nuova visione del mondo che ha acquisito.
Che è come dire: per liberarsi dalle illusioni e dalla sofferenza che ne deriva non è sufficiente una comprensione intellettuale o libresca della natura della vita, ma è necessario agire in base a questa comprensione. Quindi quando usiamo la vita, cioè il tempo, per conoscere e diffondere l’insegnamento buddista e lo facciamo spontaneamente e consapevolmente, convinti che solo così si possa accumulare l’unica ricchezza utile per sempre, siamo come Sessen Doji quando si getta nelle fauci del demone.
Rimane sempre il problema di come rompere il muro delle illusioni risvegliandosi dallo stato di sonnambulismo connaturato alla vita stessa. Nichiren Daishonin lo spiega in poche righe in un breve ma fondamentale Gosho, scritto appena due anni dopo la proclamazione del suo insegnamento, Il raggiungimento della Buddità in questa esistenza: «Quando una persona è illusa è chiamata comune mortale, ma quando è illuminata è chiamata Budda. Anche uno specchio appannato brillerà come un gioiello se viene lucidato. Una mente annebbiata dalle illusioni derivate dall’oscurità innata della vita è come uno specchio appannato, che però una volta lucidato diverrà chiaro e rifletterà l’Illuminazione alla verità immutabile. Risveglia in te una profonda fede e lucida il tuo specchio notte e giorno. Come puoi lucidarlo? Solo recitando Nam-myoho-renge-kyo» (SND, 4, 5).
Sono parole semplici: il comune mortale è per definizione un illuso, cioè una persona che vive avvolta nella nebbia dell’oscurità fondamentale.
[Per una spiegazione più estesa del concetto di “oscurità fondamentale”, si veda Il Nuovo Rinascimento, n. 237, pagg. 22-24].
Quando si guarda allo specchio questa nebbia gli impedisce di vedere chiaramente la propria immagine, cioè il Budda che è sempre stato. Per riuscire ad avere una visione chiara di se stesso deve allora lucidare questo specchio “notte e giorno”, perché la nebbia dell’oscurità si produce costantemente.
È un po’ come una persona che, all’interno di una sauna, desideri vedere la sua immagine allo specchio ed è quindi costretta a lucidare costantemente lo specchio, perché il vapore continua ad appannarlo. Il vapore rappresenta le illusioni prodotte dall’oscurità fondamentale della vita, che solo la recitazione del Daimoku può dissolvere, permettendo una visione nitida della realtà. Questa immagine sottolinea la natura dinamica della vita: le illusioni fanno parte dell’azione stessa di vivere e quindi siamo impegnati a contrastarle per l’intera durata dell’esistenza. Solo recitando Daimoku assiduamente possiamo lucidare il nostro specchio e vedervi riflessa nitidamente l’immagine di noi stessi come Budda.
Lo specchio cui si riferisce Nichiren Daishonin non è chiaramente un oggetto, bensì la mente umana. Secondo la visione buddista del funzionamento della vita, la “fabbrica” delle illusioni risiede infatti nel funzionamento delle cinque componenti che costituiscono ogni singolo essere umano: forma, percezione, concezione, volizione e coscienza (vedi Il Nuovo Rinascimento, n. 309, pag. 23).
Attraverso le cinque componenti entriamo in contatto con il mondo circostante, creiamo le nostre convinzioni e formuliamo giudizi. Esse ci portano a vedere costantemente distinzioni e separazioni di fatto inesistenti. Così riteniamo, ad esempio, che corpo e mente, vita e ambiente, vita e morte, bene e male, salute e malattia siano entità distinte, separate o addirittura opposte. E in base a queste opposizioni, prendiamo decisioni che diventano in seguito azioni. Per esempio la nostra vita può esser vista solamente come una storia che inizia con la nascita e finisce con la morte, che a quel punto è sempre e solo una sconfitta.
Lo testimoniano i necrologi con espressioni come «Ci ha lasciato dopo aver perso la sua battaglia contro il cancro». Ma – come scrive Tiziano Terzani che leggendo i necrologi sul giornale è incuriosito dall’insistenza giornalistica con cui la morte di ognuno viene attribuita a una causa specifica – di nessuno si scrive: «È morto perché è nato» (op. cit. pag. 49).
Considerarsi immuni da malattia e morte è un’illusione talmente forte che quando queste circostanze inevitabili si manifestano ci si sente colpiti da un’ingiustizia o dalla peggiore delle sfortune. Lo sottolinea umoristicamente il testo voluto da Marcel Duchamp sulla sua lapide: «Di solito capita sempre agli altri».
Inoltre se il corso della nostra vita individuale è tutto ciò che abbiamo, cerchiamo di rendere questo “tutto” il più piacevole possibile, con conseguenze che la società amplifica clamorosamente. La distinzione fra corpo e mente porta poi a conseguenze paradossali: la mente è considerata in fondo il “vero io”, ma la morte del corpo è la fine della persona. Si potrebbe proseguire con un elenco infinito di convinzioni che producono sofferenze perché derivano dalla lettura distorta della realtà che è tipica del comune mortale.
Tuttavia continuando a praticare, approfondendo lo studio, utilizzando ogni sofferenza per fare esperienze e cambiare punto di vista, recitando Daimoku e aiutando gli altri a fare lo stesso, la percezione della realtà si trasforma. Il legame fra gli aspetti materiali e spirituali della nostra vita emerge dalla nebbia, così come la profonda relazione che ci unisce a tutto ciò che vive. Lucidando lo specchio, giorno dopo giorno, le parole di Nichiren Daishonin confermano la loro validità. In fondo sono state scritte proprio per aiutare le persone ad affrontare le sofferenze della condizione umana, adottando un punto di vista aderente alla realtà e dissipando la nebbia delle illusioni.
«L’intero universo è governato da questo ritmo inesorabile di nascita, durata, cambiamento ed estinzione» spiega Daisaku Ikeda a pagina 322 del secondo volume del Mondo del Gosho «allo stesso modo, nascita, invecchiamento, malattia e morte fanno parte integrante del tessuto della nostra vita. Chi considera scontata la propria vita ha paura della morte, chi considera scontata la propria giovinezza teme l’idea di invecchiare e chi dà per scontata la propria salute è sconvolto quando si ammala. Non si possono evitare le quattro sofferenze dell’esistenza umana.
«Ma per un Budda – per chi si è risvegliato alla Legge mistica e percepisce l’eternità della vita – nascita, invecchiamento, malattia e morte costituiscono il ritmo fondamentale e sono pervase dalla fragranza delle quattro nobili virtù di eternità, felicità, vero io e purezza. E il Daishonin ci insegna che anche il ciclo di nascita, invecchiamento, malattia e morte delle persone comuni che abbracciano la Legge fondamentale di Nam-myoho-renge-kyo viene permeato dalla fragranza di queste quattro virtù».
Quest’ultima frase, dal suono un po’ arcano e poetico, sottolinea che non si tratta di una mera comprensione intellettuale, di libertà da una concezione illusoria del mondo, ma di una trasformazione che investe il nostro intero essere, il nostro naturale “sentire” nei confronti della vita.
Infatti di per sé l’aver compreso che tutto cambia, che la vita ci spoglierà gradualmente di tutte le cose a noi più care, compresa quella a cui teniamo di più, cioè la vita stessa, non ci rende automaticamente più felici. Al contrario parrebbe più ovvio che inducesse in noi un sentimento d’indifferenza, di futilità, forse anche di rabbia e un conseguente comportamento superficiale e mirato alla gratificazione immediata, «visto che poi si muore, tanto vale divertirsi finché si può».
E invece l’effetto del Daimoku di Nam-myoho-renge-kyo, unito a una corretta pratica dell’ insegnamento di Nichiren Daishonin, è tale che questo risveglio alla realtà della vita non è accompagnato da un sentimento di apatia, indifferenza e superficialità egoista bensì da un grande desiderio di agire per la felicità degli altri che viene riconosciuta per ciò che è, la nostra stessa felicità.
Scrive Daisaku Ikeda: «Il Buddismo afferma che tutto è in una condizione di impermanenza. La questione cruciale è se accettare passivi il cambiamento ed esserne spazzati via oppure prendere l’iniziativa, creando cambiamenti positivi. Mentre un atteggiamento conservatore può essere assimilato all’inverno, alla notte e alla morte, lo spirito pioneristico e il tentativo di realizzare i propri ideali evocano l’immagine della primavera, della mattina e della nascita» (Giorno per giorno, Milano, Esperia, 2000, 21 dicembre).