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Tutti uguali, tutti diversi - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 13:24

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Tutti uguali, tutti diversi

Con la spiegazione dei tre regni si conclude l’analisi di ichinen sanzen, cuore della spiegazione buddista della vita. Per approfondire l’argomento consigliamo la lettura del saggio pubblicato sul n. 104 di Buddismo e Società

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Con la spiegazione dei tre regni si conclude l’analisi di ichinen sanzen, cuore della spiegazione buddista della vita. Per approfondire l’argomento consigliamo la lettura del saggio pubblicato sul n. 104 di Buddismo e Società

Nei numeri scorsi abbiamo analizzato pezzo per pezzo i vari elementi che formano la spiegazione buddista della vita, contenuta nel principio apparentemente oscuro di ichinen sanzen, che si può più o meno tradurre letteralmente con “tremila in un singolo istante” (ichi = uno, nen = istante, sanzen = tremila). Più esplicitamente questo principio afferma che in un’infinitesima porzione di spazio tempo, paragonabile per durata alla sessantesima parte di uno schiocco delle dita, è contenuto ogni possibile sviluppo dell’universo intero.
Riassumiamo brevemente ciò che è già stato spiegato (Il Nuovo Rinascimento, n. 292 e n. 294).
In ogni istante di vita un essere senziente può sperimentare dieci diverse condizioni vitali (principio dei dieci mondi), dalla più tremenda, che è l’Inferno, alla più nobile ed elevata, che è la Buddità. Anche se è solo una la condizione vitale che si vive in ogni istante, le altre nove non scompaiono, ma rimangono latenti al suo interno, pronte a manifestarsi quando se ne presenti l’occasione appropriata (principio del mutuo possesso dei dieci mondi). Insomma, la vita di tutti, ma proprio tutti, è un’alternanza continua di Inferno, Animalità, Avidità, Collera, Umanità, Estasi, Studio, Illuminazione parziale, Bodhisattva e Buddità. Non necessariamente un essere umano le sperimenta in quest’ordine e non è nemmeno detto che le sperimenti tutte, ma se riflettiamo bene sulla nostra esperienza personale vedremo che questa classificazione risulta esaustiva. E, per cominciare a fare un po’ di matematica, se ogni stato vitale contiene potenzialmente al suo interno tutti gli altri, dieci per dieci fa cento e dunque in ogni istante vitale sono presenti cento mondi.
Abbiamo poi visto che la vita, di tutti ma proprio di tutti, è caratterizzata da dieci fattori che ne spiegano gli aspetti materiali e spirituali, spaziali e temporali, insomma come il solito essere senziente entra in relazione con l’altro da sé, lo influenza, se ne fa influenzare e attraverso questo movimento passa continuamente da uno all’altro dei vari stati vitali. E qui torniamo alla matematica: avevamo cento mondi che, moltiplicati per dieci fattori, fanno mille.
Finora avremmo spiegato solo ciò che è comune a tutti gli esseri, il meccanismo che fa della vita individuale e collettiva un turbine di incessante mutamento, da una condizione vitale all’altra. Ma, prima domanda, chi è il soggetto di tutto questo? Cos’è esattamente un essere senziente? E, seconda domanda, se questi sono gli aspetti comuni alla vita di tutti, cos’è che fa di ognuno di noi un individuo unico, irripetibile, distinto da tutti gli altri e allo stesso tempo inscindibile da essi?
E qui entra in gioco il tassello mancante di ichinen sanzen che non avevamo ancora considerato in questa sede: il principio dei tre regni dell’esistenza, che fa la sua apparizione nel capitolo sedicesimo del Sutra del Loto. Tre regni, in giapponese, si dice san seken: san è tre, ma seken non vuol dire esattamente regni ma distinzioni, differenze, a ribadire che si sta proprio parlando dell’ambito in cui gli esseri, umani e non, si differenziano gli uni dagli altri.
Il primo “regno” è quello delle cinque componenti, vale a dire che per il Buddismo un’esistenza individuale non è considerata una unità indivisibile, ma un aggregato di cinque funzioni che compongono la vita: la forma, cioè il corpo, la materia di cui siamo fatti e che ospita le altre quattro componenti: la percezione, cioè la capacità di percepire oggetti ed eventi intorno a noi; la concezione, cioè la capacità, attraverso ciò che abbiamo percepito con i nostri cinque sensi, di formarci un’idea coerente riguardo a questi oggetti o fatti della vita; la volizione, cioè la capacità di prendere decisioni in base all’idea che ci siamo fatti di una determinata situazione; e infine la coscienza, cioè la nostra consapevolezza complessiva del mondo che ci circonda. È facile rendersi conto del perché Richard Causton in The Buddha in daily life li definisca «gli attributi essenziali che occorrono per vivere»: il corpo è la custodia, il veicolo indispensabile delle varie funzioni che ci pongono in relazione col mondo; senza la percezione la nostra esistenza stessa sarebbe impossibile, basti pensare alle limitazioni e ai rischi a cui è sottoposto chi ha un funzionamento insufficiente o alterato di qualcuno dei cinque sensi. Se non fossimo in grado di formarci un’idea coerente delle cose intorno a noi, non riusciremmo nemmeno a prendere in mano del cibo per nutrirci; non essere in grado di volere, cioè di decidere di agire, equivarrebbe alla paralisi totale e infine, senza la coscienza, la nostra vita sarebbe frazionata e incoerente come un sogno o come il delirio di un folle.
Il primo dei tre regni ci dice che ognuno di noi è un individuo unico sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista delle sue funzioni mentali. E unico in ogni istante, in quanto le cinque componenti variano a secondo dello stato vitale o mondo in cui ci troviamo: così una persona nel mondo d’Inferno sembra abbrutita, anche fisicamente, dalla sofferenza, ha una percezione negativa della realtà circostante, spesso prende decisioni sbagliate e nel complesso ha una visione pessimista della vita. Una persona nel mondo di Avidità, percepisce, vuole, concepisce il mondo nei termini di “tutto mio, deve essere tutto mio a tutti i costi”, mentre d’altro canto il sentire, il volere di un bodhisattva saranno più orientati a una visione ampia della vita che tenga costantemente conto non solo del proprio benessere, ma anche di quello degli altri, e anche sul suo volto sarà riflessa la benevolenza che prova nei confronti del mondo. Questi sono solo alcuni esempi, ma ognuno ha la sua miscela, il suo modo specifico di vivere i dieci mondi attraverso le proprie facoltà.
Quando poi mettiamo insieme tutte queste individualità che risultano dall’unione temporanea delle cinque componenti, abbiamo il secondo “regno”: il regno degli esseri senzienti, un corpo collettivo di individui – fatto di esseri umani e animali, perché le piante, pur viventi, non possiedono un sistema nervoso centrale e un cervello che permetta loro di interagire volontariamente con l’ambiente – che entrano continuamente in relazione l’uno con l’altro.
Ma ognuno di questi individui ha un ambiente in cui vive, che è solo suo e legato indissolubilmente alla sua vita. Che ogni individuo abbia il suo “ambiente” che è solo suo e di nessun altro sembrerebbe contrastare con la nostra idea di ambiente. Ma a una più attenta considerazione, come fa notare sempre Causton nel testo appena citato, ciò è in parte il risultato di una legge fisica per la quale due corpi non possono occupare lo stesso spazio nello stesso istante e dunque anche se più persone si trovano nella stesso posto, data la loro posizione lo vedranno sempre da prospettive leggermente diverse. E non sarà solo la loro collocazione fisica, ma anche l’unicità della loro personalità individuale a determinare l’ambiente di ognuno: così chi ama la tranquillità e la natura si troverà più spesso in campagna piuttosto che in un fumoso night-club. E inoltre c’è un ultimo elemento che caratterizza l’unicità di ogni ambiente individuale: lo stato vitale del soggetto in questione. «Gli spiriti affamati vedono il fiume Gange come fuoco, gli esseri umani vi vedono l’acqua e gli esseri celesti lo vedono come amrita. L’acqua è sempre uguale, ma appare diversamente secondo la capacità karmica degli individui» dice il Daishonin (Risposta a Soya nyudo, SND, 7, 147). Il posto più bello del mondo potrà risultare insopportabilmente tedioso a una persona immersa nelle proprie preoccupazioni.
Quando poi consideriamo tutti questi “ambienti” nel loro complesso abbiamo il terzo regno, il regno degli ambienti degli esseri viventi, la realtà “insenziente” – nel senso spiegato poc’anzi – che ci circonda, la nostra terra, il nostro clima, il posto in cui la nostra vita agisce e si svolge che, anche se – ripetiamo – ci può apparire separato e distinto da noi, in realtà forma un tutt’uno con la nostra vita, una specie di riflesso speculare della nostra condizione vitale. Infatti, le considerazioni precedenti sull’unicità degli ambienti individuali valgono anche per spiegare le modalità di aggregazione delle persone in base alle tendenze e agli stati vitali corrispondenti e il riflesso che questo ha sull’ambiente e la terra in cui vivono. Basti pensare al triste “regno degli ambienti degli esseri viventi” di un paese in guerra. La natura devastata, le case distrutte, l’atmosfera pesante, tutto riflette sia le tendenze dei suoi abitanti, socialmente e collettivamente accumulate nei secoli, che a quella guerra hanno condotto; in una parola, quello che il Buddismo chiama il loro karma e lo stato vitale di sofferenza, Animalità e Avidità che predomina quando le persone sono in conflitto fra loro.
A questo punto, però torniamo alla matematica. Avevamo mille fattori che, moltiplicati per i tre regni in cui agiscono, ci danno tremila possibilità di differenziazione dell’esistenza presenti in ogni istante.
Il principio dei tre regni, per scendere dal mondo dei numeri a considerazioni più concrete, genera infinite riflessioni. Anzitutto alla luce del primo regno crolla l’illusione, peculiarmente umana, di possedere un io stabile, immutabile e permanente. Il nostro io esiste solo nella rete di relazioni che lo collegano da una parte alle cinque componenti che lo definiscono istante per istante, soggette come abbiamo visto all’altalena degli stati vitali mutevoli, e dall’altra agli altri esseri, aggregati temporanei simili a lui, e all’ambiente in cui vivono che è il loro specchio.
Conclusione abbastanza rassicurante, per esempio, rispetto al problema della morte. In realtà, in ogni istante, quell’io che identifichiamo con noi stessi vive una “piccola morte”, nel senso che si trasformano costantemente le componenti che lo formano, e quella che invece consideriamo la “grande morte”, il termine dell’esistenza, non è che una trasformazione un po’ più grande in cui le “nostre” cinque componenti non scompaiono ma si riuniscono al grande mare della vita per manifestarsi nuovamente in una nuova combinazione conforme al nostro karma.
E allo stesso tempo, il principio dei tre regni ci garantisce che quell’esitenza effimera che chiamiamo “io” ha allo stesso tempo un immenso valore perché non ne può esistere, né ora né mai, una esattamente eguale in quanto alle differenze di stato vitale si sommano quelle del funzionamento delle cinque componenti e dell’ambiente.
Ma specialmente ci fa capire il perché di quell’assunto fondamentale del Buddismo riformulato in termini moderni da Daisaku Ikeda nella prefazione al romanzo La rivoluzione umana, che descrive la storia del movimento di kosen-rufu nella nostra epoca e il sogno di realizzare la pace nel mondo attraverso l’autoriforma di ogni persona: «La rivoluzione umana di un singolo individuo contribuirà al cambiamento nel destino di una nazione e condurrà infine a un cambiamento nel destino di tutta l’umanità».
Ci fa capire che noi possiamo cambiare, cambiando il nostro stato vitale individuale, la realtà del nostro ambiente ed espandere gradualmente questa trasformazione, come un’onda, all’ambiente di tutti gli esseri senzienti e al luogo in cui vivono insieme a noi, cioè la Terra.
I tre regni dunque non sono solo un principio di differenziazione che dà sostanza al valore della nostra unicità, ma anche una spiegazione che connette in maniera mirabile l’esistenza, nostra e di ogni altra particella, apparentemente infinitesima come noi, alla totalità dell’universo, una totalità nella cui trama di relazioni ogni individuo o fenomeno, anche il più piccolo, acquisisce il suo senso e il suo ruolo.

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Il principio della vera terra

Il regno delle cinque componenti e il regno degli esseri senzienti venivano descritti anche nei sutra precedenti al Sutra del Loto, ma è solo in quest’ultimo – e specificamente nel capitolo sedicesimo Durata della vita del Tathagata che fa la sua comparsa per la prima volta il regno dell’ambiente, sotto forma di quello che T’ien-t’ai in seguito classificò come il mistico principio delle vera terra. Secondo la classificazione di T’ien-t’ai, nel Sutra del Loto esistono dieci principi mistici dell’insegnamento teorico (prima metà del sutra) e dieci principi mistici dell’insegnamento essenziale (seconda metà del sutra). Il principio della vera terra, contenuto nel sedicesimo capitolo insieme a quello della vera causa e del vero effetto, appartiene a questa seconda categoria ed è espresso dalla frase: «Da allora ho sempre dimorato qui nel mondo di saha, predicando la Legge, istruendo e convertendo» (SDL, 16, 297). «Quest’ultimo brano – scrive Daisaku Ikeda – rivela la natura eterna della terra del Budda, che viene qui identificata col nostro ordinario mondo terreno» (I misteri di nascita e morte, Esperia, pag. 155).

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