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Tutti siamo di tutti - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 09:32

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Tutti siamo di tutti

Genitori e figli. Figli e genitori: un rapporto non a senso unico, ma fatto di scambi reciproci, dove nessuno si annulla ed esaurisce nell’altro. Essere pronti a dare e a ricevere, senza pretese e aspettative. Una strada da percorrere insieme, non uno davanti all’altro, ma fianco a fianco

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Non posso dimenticare l’emozione potente che accompagna una vita che nasce, né il momento in cui ho visto per la prima volta il viso tanto sognato e immaginato dei miei figli. Un’onda di amore mi ha sommerso, colmandomi di tenerezza e spazzando via ogni fatica. Però non è stato sempre facile, dopo. Improvvisamente vieni catapultata in un’altra dimensione, densa di sfide e di responsabilità nuove, con un altro ritmo di vita e senza un manuale d’uso del cucciolo umano che la vita ti ha affidato. Ma è proprio tuo figlio che ti prende per mano con amore incondizionato e fiducia totale, riaprendo per te la porta del mondo intatto dell’infanzia e ricordandoti cose che avevi smesso di notare: il cielo, le nuvole, la bellezza della natura, il rumore del vento, la poesia delle cose. Ispirata dalla sua energia, ritrovi curiosità e voglia di imparare, e hai l’occasione di ricominciare a farlo insieme a lui. Nel mio caso, è stata proprio “l’invidia” per la vita in costruzione dei miei figli a riaccendere in me il desiderio di riprendere gli studi, di approfittare di un licenziamento per iniziare un nuovo percorso lavorativo, di buttarmi e con pazienza tentare di rendere reale un sogno: curare mostre d’arte. Non volevo essere una di quelle mamme scontente di sé che riversano sui propri figli pressioni e aspettative insostenibili. Figli che invece sono sempre pronti a perdonare le mie manchevolezze, a incoraggiarmi quando fallisco, a tifare per me. Scrive Daisaku Ikeda: «Non esiste un genitore perfetto. Dato che siete esseri umani avete pregi e difetti. Si dice che i figli chiedano più volentieri consiglio ai genitori se questi ultimi parlano apertamente dei propri insuccessi e dei propri momenti di crisi, invece di cercare di apparire perfetti» (I tesori del futuro, esperia, pag.12). Nello stesso modo in cui rivendico il mio diritto a essere imperfetta, voglio concederlo anche ai miei figli, che non sono crea­ture da plasmare a mio piacimento, ma Budda con una loro storia personale, una missione. E io sono qui per rispettarla, per vederli giocare la loro partita e affrontare le loro sfide, con il sacrosanto diritto di sbagliare. Di essere sconfitti, piangere, ridere, sentirsi tristi e rinascere ogni volta, perché queste sono le emozioni che adornano la vita e che è giusto sperimentare. Tutte. Grazie ai miei ragazzi ho imparato che la più grande illusione è pensare di avere il controllo su altri esseri umani: si può solo recitare Daimoku con forza per proteggerli, avere fiducia e incrociare le dita, perché risparmiare loro ogni dolore o delusione va davvero oltre il nostro potere. Ma qualunque cosa accada, può essere utilizzata per accedere a una felicità ancora più grande e profonda.
È stato un momento di crisi alla fine delle scuole elementari che ha permesso al mio primo figlio di avvicinarsi alla pratica e di ricordare a me il voto originale di ogni madre: sostenere la vita, ma non viverla al posto di qualcun altro. Così lui ha potuto fare la sua esperienza, trasformando completamente la situazione e in seguito individuando con sicurezza la strada che voleva percorrere. Per me è una gioia immensa guardarlo mentre suona il pianoforte con aria rapita, quando ride e scherza con gli altri ragazzi, quando mi dice che la sua scuola è la più bella del mondo.
Allora, mi chiedo, chi insegna a chi? Scrive Ikeda: «Quando i figli causano problemi, i genitori spesso negano la propria responsabilità e si limitano a dare la colpa ai figli. Ma questo non risolve nulla. Sono i genitori, e non i figli, che devono cambiare. I genitori pensano che stanno facendo crescere i loro figli, ma non capiscono che in realtà sono i figli che stanno facendo crescere loro» (Ibidem, pag.11).
La vita cambia continuamente e così la nostra missione. In questo divenire incessante delle cose, mille volte mi sono trovata a chiedermi quale fosse il mio posto e il mio compito, in un momento particolare. Pur amando i miei figli, non sono mancati i momenti di scoraggiamento, in cui mi sembrava di non avere più una identità mia, al di fuori di quella di madre o moglie. «Sarai tu a rincorrere i tuoi figli, tra dieci anni. Smettila di lamentarti!». Non ho mai dimenticato le parole sagge di mia sorella. Le cose vanno davvero così: il tempo che abbiamo a disposizione per curare le fondamenta della loro esistenza è davvero poco, sarebbe un peccato sprecarlo. Ci sono periodi in cui un compito specifico – occuparsi dei bambini, accudire genitori anziani, studiare, lavorare a ritmi molto sostenuti – finisce per assorbire quasi tutte le nostre forze, ma è proprio svolgendolo nel miglior modo possibile che proviamo il senso di soddisfazione che ci viene dal sapere di aver fatto buon un lavoro. Sensei ci incoraggia a scalare la montagna che abbiamo di fronte. Non solo: a godere dell’impresa. Ed è grazie a una pratica quotidiana costante e decisa, alla nostra dedizione al magnifico progetto di kosen-rufu che possiamo attingere da dentro di noi l’energia necessaria per farlo. Allo stesso tempo, perché abbandonare il proprio sogno? Forse nell’immediato non è realizzabile, ma la nostra fede sincera è la causa affinché nel nostro muro, quello che ci separa dalla realizzazione delle nostre aspirazioni, appaia una crepa. Un semplice pensiero che intacchi le nostre convinzioni granitiche – non sono capace, non è la situazione adatta, ho un brutto carattere, è impossibile, ormai è tardi – e cioè: Perché no? Perché non provarci?
Questo muro che ci protegge dalle delusioni, ci evita di misurarci con noi stessi, ma ci confina, ci imprigiona, al punto che non lo vediamo nemmeno più. Un dubbio, un unico dubbio sulla sua inespugnabilità che si insinua nel mare del pessimismo inizia a creare onde di fiducia e entusiasmo, e può crescere fino a diventare un vero tsunami che travolge vecchi modi di pensare, parlare, agire e fa emergere le circostanze che ci permettono di innescare il cambiamento.
La vita offre sempre molte possibilità, ma per coglierle appieno è necessario allargare il nostro campo visivo. È un allenamento a cambiare, ribaltare, scombinare continuamente il nostro modo di percepire le cose, gli accadimenti della vita, i nostri inattaccabili dogmi personali. In questo processo, gli insegnamenti buddisti svolgono un ruolo fondamentale, indicandoci la via più breve e sicura per demolire le illusioni e fare emergere ogni volta il punto di vista del Budda che da sempre dimora in noi. Credo che la rivoluzione umana consista proprio in questo: scardinare un pensiero consolidato, trovare significati nuovi, vivere con uno spirito “sovversivo” di avventura e scoperta. Come se stessimo guardando le cose con gli occhi di uno scrittore: improvvisamente dettagli, sfumature, visioni inizierebbero a popolare oggetti e paesaggi quotidiani, rendendoli interessanti. Riaccendere la vita, questa è la priorità assoluta. L’isolamento fa sì che a poco a poco tutto perda di brillantezza, divenendo opaco e senza sapore.
Scriveva lo storico Jules Michelet (1798-1874): «La vita si accende e si magnetizza con la vita e si spegne nell’isolamento. Più si mischia a vite diverse da se stessa, più diviene solidale con altre esistenze, più esiste con forza, felicità e fecondità». La pratica con gli altri, il dialogo, la condivisione, l’empatia invece sono capaci di risvegliare potere e forza vitale. I giovani, in particolare, possiedono un’energia esplosiva e stare a contatto con loro è un balsamo rivitalizzante. «Tutti siamo di tutti – era il motto di un mio caro amico -. Per praticità poi ognuno si occupa maggiormente delle persone più vicine, i membri della propria famiglia, gli amici più stretti. Ma questo non significa che non siamo ugualmente legati a tutti gli altri». Come adulti, in particolare, condividiamo responsabilità e doveri verso le generazioni future, alle quali dovremmo riservare cura e attenzione. Essere genitori, oppure no, non è che un piccolo dettaglio. In proposito Ikeda scrive: «Chi non ha bambini può amare e prendersi cura di molti figli del Budda con lo stesso affetto che nutrirebbe per i suoi» (Gli eterni insegnamenti di Nichiren Daishonin, esperia, pag. 115). Nichiren Daishonin non aveva figli, ma questo non gli ha impedito di avere verso i propri discepoli, giovani e non, una sollecitudine infinita e di estendere a chiunque – fino a comprendere coloro che lo stavano perseguitando – la compassione del Budda, esprimendo le virtù di sovrano, maestro e genitore. La virtù del genitore «si esplica nel prendersi cura della crescita delle persone; il che richiede un atteggiamento di calda compassione e allo stesso tempo di severità […]. Un genitore è colui che prova amore per gli esseri umani poiché sono figli del Budda, che un giorno diverranno Budda e agisce concretamente in loro favore» (Ibidem, pag. 39).
Ripensando alla mia esperienza personale, devo moltissimo agli adulti e ai compagni di fede più grandi di me. Non so cosa abbiano visto in una ragazzina insicura, emotiva e preda di facili rancori, ma so che non si sono fermati alle apparenze e giorno dopo giorno hanno continuato a esserci, a guidarmi, a incoraggiarmi. Grazie al loro sostegno ho realizzato tante cose e superato molte difficoltà e ancora oggi sono qui, più che mai desiderosa di portare avanti la mia rivoluzione personale e fiera di essere parte di questo straordinario movimento che sta tracciando una via senza pari per il genere umano. Questo sentimento di riconoscenza non può che essere tradotto nel desiderio di restituire ad altri, almeno in parte, quanto ho a suo tempo ricevuto. E non c’è niente di speciale in questo, dal momento che “tutti siamo di tutti”.

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Un alleato vincente

«Avere un figlio è la fortuna più grande», ma non sempre le circostanze sono favorevoli. Carmen non si è tirata indietro, anche quando ha dovuto crescere da sola suo figlio. Il suo migliore alleato? Il Daimoku

Ho sempre avuto la convinzione che un giorno avrei avuto un figlio “nella situazione ideale e con l’uomo giusto” e siccome negli anni l’uomo non era mai quello giusto e la situazione non era per niente ideale, quando rimasi incinta, senza dubitare, interruppi la gravidanza.
A trent’anni cominciai a praticare il Buddismo e, dopo cinque, iniziai una storia d’amore romantica e “senza compromessi”; dopo pochi mesi scoprii di aspettare un bambino. Quando vidi il risultato del test di gravidanza provai una gioia immensa. Era arrivato mio figlio!
Sapevo che suo papà “non avrebbe partecipato al progetto”, ma ero sicura che col Gohonzon avrei potuto affrontare la crescita di mio figlio anche da sola. Pensai di chiedere un consiglio di fede perché in questa esperienza c’era di mezzo un’altra vita e dovevo essere sicura di fare le cose nel modo migliore. A quel tempo non avevo lavoro, abitavo in un monolocale di venticinque metri quadri e la mia famiglia viveva in Argentina. Era una grande sfida! In quel periodo andai a Roma e colsi l’occasione per parlare con Dadina (Amalia Miglionico, una pioniera di kosen-rufu in Italia che praticava da molti anni).
Nelle due ore trascorse a casa sua, lei mi spiegò approfonditamente il tipo di relazione karmica che abbiamo coi nostri figli e alla fine mi disse con la chiarezza che la contraddistingueva: «Avere un figlio è la fortuna più grande, ma se tu adesso torni a casa e ti butti sul divano ad aspettare che il figlio ti porti fortuna, muori di fame. Se invece fai un sacco di Daimoku durante tutta la gravidanza trasformi tutto. Decidi tu cosa vuoi fare».
Per nove mesi ho recitato tre ore di Daimoku al giorno: è stato l’anno più felice della mia vita e i benefici sono stati incalcolabili.
Grazie a una piccola eredità arrivata un mese prima della nascita di Fernando ho potuto realizzare il mio obiettivo di dedicarmi solo a lui nel suo primo anno di vita, senza dover lavorare.
Inoltre ho vissuto il profondo legame tra compagni di fede, che mi sono stati sempre vicini e con la loro preghiera mi proteggevano; erano preoccupati di come avrei potuto cavarmela da sola con un neonato e le donne che erano mamme pensavano che avrei passato notti insonni e che dopo poco sarei crollata. Ma io ero sicura che i due milioni di Daimoku che avevo recitato mi avrebbero sostenuta. Dopo l’ospedale, alcuni amici mi avevano offerto ospitalità a casa loro, ma io non vedevo l’ora di stare da sola col mio cucciolo nella nostra casetta, che avevo risistemato: spostando i mobili avevo ricavato ben quattro stanze dal mio piccolo monolocale.
Fin dai primi giorni Fernando faceva l’ultima poppata a mezzanotte e dormiva fino alle sette di mattina, con grande sorpresa delle mie amiche.
Durante la gravidanza mi era stata offerta la responsabilità di capitolo che ho accettato, felice, perché sapevo che il diventare mamma non sarebbe stato un ostacolo, anzi, mio figlio sarebbe cresciuto assorbendo naturalmente il Buddismo mentre io facevo attività. Ricordo sempre i meeting di studio nel vecchio Centro culturale di Milano quando, mentre prendevo appunti, lui sgattaiolava per la sala insieme a un altro bebè. Non ho mai usato mio figlio come scusa per non fare attività, al contrario, è sempre stato uno stimolo a fare di più. L’ho cresciuto seguendo le guide di sensei e il risultato è stato grandioso.
Nella mia mente sono rimaste impresse immagini dell’anno di gravidanza, quando in tante occasioni recitavo Daimoku piangendo di rabbia mentre dicevo al Gohonzon: «A mio figlio darò il massimo». Ma non avrei mai immaginato tanto!
Adesso Fernando ha ventidue anni ed è un ragazzo brillante, frequenta uno dei migliori College di Londra e quest’anno si laurea, e io l’ho sempre sostenuto anche economicamente.
So con certezza che tutto ciò è stato possibile perché ho basato la nostra vita sul Gohonzon, non mi sono mai risparmiata, dedicandomi alle attività in questa meravigliosa organizzazione che ci offre la possibilità di vivere una vita esemplare alla luce del Buddismo. Sensei scrive: «La madre è il miglior maestro. La sua influenza sui figli è cosi profonda che difficilmente possiamo immaginarla. Napoleone affermava: “Il destino di un bambino è sempre determinato dalla madre”» (La donna del XXI secolo, pag. 86).

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L’alba sulla casa arcobaleno

In prima persona

Martina, due figli piccoli e un marito molto impegnato nel lavoro. Quando ha deciso di ripartire da se stessa, ispirata dalle parole del maestro, un mondo nuovo si è dischiuso

Prima elementare, primo colloquio con le insegnanti di mio figlio: «Il bimbo è molto vivace, si distrae facilmente, pensa spesso ad altro e così si perde, rimane indietro. È spesso arrabbiato e non sappiamo perché. Non si comporta bene con i compagni, fa dispetti e ultimamente viene pure isolato; è molto intelligente, ma rende meno della metà di quello che potrebbe, risponde a tono alle maestre e a volte fa il bulletto». Che disastro! Ma come? Io pratico, credo nell’educazione Soka, non è possibile che abbia un figlio del genere, non è coerente! O forse sì? Lo stesso pomeriggio al bimbo sale la febbre; l’istinto di mamma mi suggerisce di chiamare il medico e dopo poco siamo da lui, il nostro tanto amato Naidert, con barba bianca da “vecchio saggio”, al quale chiedo consiglio anche per la scuola. Lui incoraggia mio figlio e caldeggia l’unità d’intenti in famiglia e mi consiglia di evitare gli scontri frontali davanti ai figli. Mi rendo conto che è tutto lì. La mia famiglia non è proprio Soka.
È sera, sono stanca, da sola con i due bimbi di quattro e sei anni, e mio marito che tornerà tardi. Un macigno nel cuore e sulle spalle. È tutto da fare. Dopo una sana dormita, all’alba riparto davanti al Gohonzon. Leggo la guida del giorno: «Se ti senti oppressa, disorientata o passiva, è il momento di rinnovare la tua determinazione. “Seguirò il mio cammino”: grazie a questa decisione, la primavera sboccerà nel tuo cuore» (D. Ikeda, La mappa della felicità, esperia, 3 aprile). Mi ha per caso scritto Ikeda? Decido di mettere in pratica e recito con il sincero desiderio: «Basta, questa situazione deve cambiare! Seguirò il mio cammino, farò ciò che è necessario». Poco dopo capisco che in quel momento devo impegnarmi al massimo per consegnare del materiale dell’unico lavoro che ho in mano da un anno a questa parte e che si risolverà in un seminario di qualche ora. Il mio cammino è lì. Recito per tirare fuori valore da quello che andrò a scrivere e che insegnerò a un gruppo di studenti universitari. Dopo poco si sveglia Pietro Hideo; sta meglio, ma non andrà a scuola. «Mamma mi insegni Gongyo?». Rimango impietrita. Come? È questa la soluzione? Che legame incredibile quello di madre e figlio. Ho tirato fuori solo un milligrammo di coraggio per affrontare le mie paure e insicurezze e lui risponde così? Il fratellino esce con il papà verso l’asilo e io e Pietro Hideo ci mettiamo davanti al Gohonzon e recitiamo Gongyo lentamente.
Quante volte l’ho fatto con persone estranee e ora sono qui a insegnarlo al mio cucciolo, che mi sta ascoltando («suo figlio ascolta poco») e ripete con gioia e grande attenzione. Che emozione pazzesca! Sono scoppiata a piangere, lui con me. «Pietro sei meraviglioso, diventerai un grande uomo per kosen-rufu, hai una missione molto importante!». A seguire dipinge in un acquerello la scena appena vissuta, la casa con i colori dell’arcobaleno, fuori c’è il sole che sorge, è l’alba. «Mamma voglio recitare con te al mattino presto».
Nel pomeriggio ho una banale visita dermatologica e scopro di avere un piccolo tumore, introvabile per me e per chiunque mi osservasse se non esperto. Salvata in corner, che beneficio. Di lì a breve una telefonata: si sono liberati dei posti al mare che prima non sembravano esserci, ma ora qualcuno improvvisamente ha rinunciato. Passeremo l’estate in un bellissimo tucul con tanti bimbi e Pietro Hideo starà in compagnia dell’amichetta preferita. Non male per il suo primo Gongyo!
È solo l’inizio di un nuovo viaggio che ho deciso di intraprendere in nome del coraggio, della felicità e della dignità della vita per tutta la mia famiglia. Ho tanta paura di sbagliare, di soffrire, ma quando oso anche solo poco poco, caspita che gioia!
Uno dei miei più grandi desideri è, con i miei due maschietti e con quante più persone possibile, contribuire al cambiamento della mente della società, in nome dell’abolizione del pensiero guerrafondaio, violento e irrispettoso. Voglio crescere tanti individui capaci di dialogare, amare, desiderosi di vivere una vita umanamente creativa e allegra.

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