Con lo spirito di arricchire la propria esistenza, Gioia racconta le emozioni vissute nel mese in cui ha studiato i trenta Gosho dedicati all’Ikeda Kayo-kai, sperimentando un’immensa gratitudine per il Daishonin e una determinazione crescente
«Possiamo dire che, su un certo livello, kosen-rufu è l’impresa di coltivare la grande terra della mente umana», scrive Daisaku Ikeda in Il Gosho e la missione di kosen-rufu (esperia, pag. 77). Queste parole mi alleggerirono molto. Ultimamente il mio rapporto con lo studio del Buddismo era diventato routinario e limitato; in poche parole non mi dava gioia. Ma questa frase mi aprì una nuova prospettiva: mentre studiamo stiamo coltivando la nostra mente, la nostra vita. La parola coltivare non implica rapidità, assenza di sforzo o impazienza, ma rimanda a me che mi impegno in qualcosa, una sfida oltre ciò che so fare già, disegna un’immagine di me che apro un cancelletto e inizio a camminare su un territorio inesplorato, decidendo di fare un’esperienza nuova. Non è retorica, non è “ciò che ci si aspetta da me”, è la mia decisione di coltivare la mia vita, di farla progredire. Nessuno pretende da noi di diventare maestri di Buddismo in un batter d’occhio e neanche noi dovremmo pretenderlo.
Io ho sempre avuto un rapporto intellettuale con il Gosho: mi spiega la vita, il perché mi accadono alcune cose, come posso superarle grazie alla strategia del Sutra del Loto; il Gosho è una guida nella fede, un faro acceso che tengo come punto di riferimento quando mi inoltro nell’oceano buio. Questa estate ho avuto l’opportunità di rivedere questa mia “relazione” in un momento nel quale ho sperimentato la sensazione di camminare come immersa nella nebbia e così ho deciso di affidarmi alle parole di Nichiren Daishonin. Decisa a farci un’esperienza entro un mese, ogni mattina recitavo Daimoku e dopo leggevo uno dei trenta Gosho raccolti per l’Ikeda Kayo-kai. Inizialmente non percepivo nulla di diverso dal solito ma, giorno dopo giorno, le barriere del mio cervello si abbassavano, mattina dopo mattina non vedevo l’ora di finire di recitare Daimoku per andare a vedere “oggi” cosa aveva da dirmi Nichiren: stavo ascoltando, ma non più solo con la mente. Non dimenticherò mai quei trenta giorni, i diversi colori con i quali ho evidenziato i passaggi che più mi colpivano, la copertina a cui mi sono affezionata. Nutro una gratitudine illimitata verso sensei, che mi ha invitato a studiare questi trenta Gosho in gioventù, e verso Nichiren che li ha scritti proprio per sostenere me, sua discepola. Senza confini, proprio come la vita, come quella vita che ho percepito fra una parola e uno spazio bianco. Ho creduto, più del solito, che con la scrittura si possa trasmettere se stessi, che in un testo si possa infondere il proprio cuore. Ed è così che Nichiren ha fatto. La sua compassione è tale da sostenere le nostre vite adesso, nelle nostre lotte quotidiane.
Mentre leggo sento la determinazione battere forte come un tamburo, a ritmo costante, e le parole di lode volare leggere come note di un flauto che mi avvolgono rimanendo impresse nella mia vita. Mentre leggo non mi domando più se il coraggio, il cuore e la fede che sento inondarmi sono miei o del maestro; io li sento, io posso usarli.