La preparazione della riunione europea dei giovani diventa l’occasione per parlare col direttore Tamotsu Nakajima di alcuni aspetti che riguardano la fede e la pratica, non solo dei giovani
Alcuni giovani vivono con disagio il fatto che la riunione del 16 marzo non è aperta a tutti. Chi non potrà partecipare è svantaggiato?
È normale che tutti i giovani vogliano essere presenti alla riunione europea di Milano, ma il fatto di partecipare non determina di per sé valore nella vita di una persona. Alcuni incontrano tante difficoltà ma, utilizzando questo svantaggio, diventano individui forti. Chi è più svantaggiato fa uno sforzo maggiore per tirare fuori le proprie capacità; se guarda solo agli ostacoli avrà una visione limitata. Chi riesce a vedere la causa di ciò che succede dentro di sé non ha la tendenza al lamento, se invece guarda fuori di sé, tutto diventa motivo di lamentela.
Alla riunione di Milano potranno partecipare 4700 persone da tutta l’Europa. Le cause sono sempre dentro di noi, se comprendiamo questo riusciamo a utilizzare al meglio ogni cosa. Il problema è come ciascuno usa la propria vita, non se partecipa o meno alla riunione di Milano. Tante persone partecipano a grossi eventi, ma poi negli anni si allontanano dalla pratica corretta. Questa riunione è un’occasione per tutti di migliorare se stessi, ma dipende dagli sforzi compiuti fin da ora, durante la preparazione, giorno dopo giorno, nel Daimoku, nello shakubuku, nella vita personale e nell’attività buddista. Bisogna vincere ogni attimo sforzandosi nella fede e nella vita quotidiana. Tutti possono fare un percorso importante da qui al 16 marzo.
A novembre ha incontrato il presidente Ikeda nel Kansai. Cosa ha riportato da questo viaggio?
Io provengo dal Kansai. È una regione che ha un dialetto molto caldo e un modo caloroso di relazionarsi al prossimo. I membri sono molto uniti, una vera e propria famiglia e ciascuno di loro ha un legame diretto con sensei, molto forte. I praticanti più anziani tramandano ai giovani lo spirito della “campagna di shakubuku del ’56” quando, insieme al giovane Ikeda, consegnarono 111000 Gohonzon in un solo mese. Il loro motto è “josho Kansai” (Kansai sempre vittorioso, non può assolutamente perdere”). Nel Kansai non c’è differenza tra i praticanti, non c’è gerarchia; tutti insieme lottano per realizzare kosen-rufu, sostenendosi reciprocamente.
In Italia si avverte spesso troppa distanza tra membri e responsabili, o tra chi pratica da più tempo e chi meno, ma quel che conta è ciò che stiamo facendo ora e con quale atteggiamento pratichiamo ogni giorno.
In Giappone ogni mese si tengono una riunione di discussione e una di studio. Anche in Italia potrebbe cambiare il ritmo dell’attività?
Il ritmo dell’attività in Italia l’abbiamo deciso noi, se non va più bene, possiamo cambiarlo. Spesso si organizzano troppe riunioni, a volte addirittura quasi tutte le sere, ma in questo modo si rischia col tempo di perdere l’entusiasmo e il desiderio di fare attività. Quando ero nel Kansai avevamo abbastanza tempo libero, per questo riuscivamo a parlare della pratica a tante persone. Studiavamo e partecipavamo agli zadankai, poi il sabato mattina ci incontravamo per organizzare le attività dei giorni successivi. Non si parlava dei problemi delle singole persone, ma quando qualcuno incontrava delle difficoltà, il suo responsabile recitava Daimoku e andava a trovarlo per incoraggiarlo. Il nostro obiettivo era creare un’organizzazione che rispettasse ogni singola persona, in cui tutti potessero partecipare all’attività con gioia e allegria. E questo è quello che vorrei vedere oggi anche nell’organizzazione italiana.