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Ti cuntu na storia di centu Sicilie - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 15:38

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Ti cuntu na storia di centu Sicilie

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Sicilia anni ’70 – Questa della Sicilia è la storia di tante terre, di tante persone che hanno creato la terra del Budda nel cuore del Mediterraneo. Luciana, che rientra dalla sua vacanza in Sardegna con Nam-myoho-renge-kyo, Marinella che le dà ascolto e recita con lei, Yuka, venuta dall’Oriente, che col suo Daimoku richiama come il canto di una sirena i primi praticanti siciliani.

di Pina Consoli

E qui, in un punto del Mediterraneo,
storica e lontana terra di Sicilia,
ecco i segni dell’avvento del Buddismo.
(Daisaku Ikeda, Omaggio alla conferenza dei poeti del Mar Mediterraneo, presentato all’edizione del 2000 delle Orestiadi di Gibellina)

C’era una volta… una ragazza palermitana, Luciana Ricci, che un’estate preferì andare in vacanza in Sardegna. E lì qualcuno – forse un fiorentino nato a Siracusa – le parlò di Nam-myoho-renge-kyo. Ne rimase affascinata e appena rientrò a Palermo raccontò subito la novità alla sua amica e compagna di banco Marinella Ragusa. E insieme iniziarono a praticare.
Era il 1978 e i primi segni dell’avvento del Buddismo in Sicilia arrivarono da un’altra isola!
«Ero molto curiosa – ricorda Marinella – e anche se a quell’epoca c’era la moda dell’Oriente, io non me ne sentivo particolarmente attratta. E così iniziai a praticare». L’allora direttore generale Mitsuhiro Kaneda passava diversi mesi all’anno a Palermo per il suo lavoro e aveva l’occasione di insegnare molte cose a Marinella e di incoraggiarla. «Sì, Kaneda è stato fondamentale per me e per lo sviluppo di kosen-rufu in Sicilia – continua Marinella -, poi un giorno mi telefonò un ragazzo da Firenze, dicendomi che aveva il Gohonzon e presto sarebbe tornato in Sicilia. Era Dino Mazzoleni».
«Quando andai a trovare Marinella scoprii che sua madre era devota di san Leopoldo, che è poi il mio vero nome. Io avevo conosciuto la pratica a Firenze nel 1979 – racconta Dino -. In quel periodo avevo le idee poco chiare sul mio futuro, studiavo architettura, anzi, avevo dato tutti gli esami e non riuscivo a preparare la tesi e laurearmi. Mi immaginavo una vita da bohémien e il mio unico desiderio era quello di dedicarmi totalmente alla pittura. Mi piaceva vivere isolato e per me era traumatico andare alle riunioni, ma ce la feci a suon di Daimoku e nell’ottobre di quell’anno mi venne affidato il Gohonzon, e qualche mese dopo feci una cosa che mi sembrava impossibile: ritornai a vivere in Sicilia per completare gli studi a Palermo. Andai ad abitare nella casa dei miei nonni, chiusa da anni, dove ero nato ventisette anni prima. Era una casa grandissima, piena di ricordi e di vecchi oggetti ed è lì che si aprì il primo Gohonzon di Catania». Così i due praticarono per un po’ da soli, vedendosi ogni prima domenica del mese per l’allora tradizionale “Kosen-rufu Gongyo”, un mese a Palermo e uno a Catania.
Intanto Dino nell’81 aveva rivisto una vecchia conoscenza, Raffaele Leone, che “si fece fare” shakubuku… “si fece fare”? «Sì, proprio così – specifica Dino – perché in verità non sentivo molto lo spirito della propagazione, anzi dentro di me pensavo che uno era poco ma due erano troppi! Poi quella primavera andammo tutti a Firenze a incontrare il presidente Ikeda, in visita in Italia. Conservo preziosamente la lettera d’invito che mi aveva inviato Kaneda. Dentro di me è rimasta scolpita la frase del presidente Ikeda che ci incoraggiava dicendo: “Io non ho paura di nessuno”». «Conoscere il presidente Ikeda è stata un’emozione travolgente – commenta ancora Marinella – e per me è stato come un papà, quel papà che non ho mai avuto».
Che fortuna aver potuto incontrare sensei così giovani nella pratica! Con l’arrivo del secondo Gohonzon a Catania, quello di Raffaele, e a Palermo, di Roberto Di Dio, iniziò l’attività vera e propria, fatta alla “siciliana”, ovvero con grande passione ed entusiasmo, come ci capita soprattutto quando si mette in moto la parte esterofila del nostro DNA. Ai quattro moschettieri, perché Luciana intanto aveva smesso, se ne aggiunsero pian piano altri, tutti coinvolti a preparare gli zadankai, a studiare, a fare fotocopie, a macinare chilometri per andare a insegnare Gongyo a qualcuno. Io stessa ricordo di quando la domenica mattina, dopo aver preparato il pranzo per la famiglia, andavo in treno a Giardini Naxos, dove la ragazza a cui avevo parlato del Buddismo veniva a prendermi con lo scooter per salire a Taormina a casa sua. Ci mettevamo due ore per leggere lentamente e scandire le battute di Gongyo – a quel tempo nella versione lunga – a studiare i dieci mondi, e a gioire per i suoi primi benefici. Sì, c’era molto entusiasmo e molta generosità.
Intanto avevamo scoperto con grande sorpresa che in Sicilia un Gohonzon c’era già addirittura dal 1974: Yuka Matsuo Trincali, una ragazza giapponese che aveva sposato un siciliano e si era trasferita da Tokyo a Carlentini, in provincia di Siracusa. Da allora lei recitava Daimoku perché anche in Sicilia si praticasse il Buddismo di Nichiren Daishonin.
«Dì la verità Yuka, ti ha mandata sensei?», le abbiamo chiesto. «Chissà. Io ero una cantante pop e grazie al mio lavoro ho conosciuto un musicista siciliano, di Carlentini, ma non pensavo affatto di trasferirmi da Tokyo in Sicilia, che per noi era solo una piccola isola di mafiosi. Ma un giorno Tadayasu Kanzaki, che viveva già a Milano e tornava spesso in Giappone, mi disse: “Vai in Sicilia, lì non c’è nessuno che segue gli insegnamenti del Daishonin. Vai per kosen-rufu“. La sua voce mi ha fatto sentire quel senso di missione a cui mi aveva allenata il maestro Ikeda. Ho raccolto il mio coraggio e sono partita. Era il 1973 e avevo ventitré anni. Sono partita come se mi avesse mandato sensei. L’impatto con Carlentini è stato duro, molto difficile. Non potevo recitare Daimoku perché mia suocera mi ostacolava continuamente, spegneva la luce o chiudeva le finestre, né potevo fare shakubuku perché era impensabile uscire da sola. Poi nell’81 ho scoperto la presenza degli altri Gohonzon, ma io non potevo andare a Catania, così Dino e Raffaele venivano a trovarmi. Parlavamo in inglese perché ancora non riuscivo a parlare bene in italiano, e ricordo la prima domanda di Raffaele: «What is ichinen sanzen?» (Che cos’è ichinen sanzen?).
In quel periodo la quasi totalità dei membri faceva parte della Divisione giovani, che si impegnò molto affinché Eiichi Yamazaki, responsabile europeo, mantenesse la promessa fatta anni prima di visitare la Sicilia quando ci sarebbero stati almeno cinquanta Gohonzon. Si recò a Palermo nel settembre dell’86. Due anni dopo ci fu il grande salto: alla consegna dell’88 i Gohonzon divennero il doppio.
Ormai il Buddismo era presente in tutta la regione e l’attività era sempre più intensa, «si andava da Messina, a Scicli o a Gela per fare riunioni e incoraggiare le persone con una energia e una gioia che scaturiva dal Daimoku che recitavamo anche in macchina» racconta Mario Castorina Calì. Autostrade, strade provinciali, viottoli di campagna e sterrate di montagna venivano continuamente battute dai membri. Da questo momento in poi non sono mancate le occasioni per recitare Daimoku per proteggere la miriade di eventi che sono stati organizzati in ogni angolo dell’isola: incontri, convegni, mostre, cittadinanze onorarie, fino alla laurea honoris causa conferita dall’Università di Palermo a Daisaku Ikeda nel marzo 2007. Forse non siamo ancora del tutto consapevoli della portata di questa onorificenza per cambiare la nostra terra. Nella lectio magistralis, il presidente Ikeda incoraggia noi siciliani a conoscere meglio noi stessi, apprezzando la nostra peculiarità di saper accogliere le diversità e di armonizzarle, visto che noi per primi abbiamo sperimentato la capacità e la possibilità di vincere la guerra e di costruire la pace attraverso il dialogo. Ikeda ci ha indicato con chiarezza la strada da percorrere e il vero punto di partenza. Da qui, da questo punto del Mediterraneo, riaccendere le luci per un Rinascimento nuovo.
È davvero difficile condensare trent’anni di storia, di rivoluzione individuale e collettiva, con tutti gli alti e bassi, gli ostacoli e le vittorie. È come fare il bilancio della propria vita dopo aver guardato l’album delle fotografie. C’è un po’ di commozione nel rivedere i volti dei compagni scomparsi, di dispiacere per chi ha smesso, ma c’è soprattutto la gioia di vedere i giovani, i giovanissimi, le “saette” che hanno tanta forza e voglia di essere i pionieri del futuro. Come vuole Daisaku Ikeda, e come vogliamo noi. E c’è il desiderio di avere finalmente un Centro culturale, di creare una vera unità, di essere liberi e di riuscire a superare quell’eccesso d’identità di cui soffre la Sicilia, giacché «per chi ci è nato dura poco l’allegria di sentirsi seduto sull’ombelico del mondo […] Capire la Sicilia significa dunque per un siciliano capire se stesso, assolversi o condannare. Ma significa, insieme, definire il dissidio fondamentale che ci travaglia, l’oscillazione fra claustrofobia e claustrofilia, fra odio e amor di clausura, secondo che ci tenti l’espatrio o ci lusinghi l’intimità di una tana, la seduzione di vivere la vita come un vizio solitario. L’insularità, voglio dire, non è una segregazione solo geografica, ma se ne porta dietro tante altre: della provincia, della famiglia, della stanza, del proprio cuore. Da qui il nostro orgoglio, la diffidenza, il pudore; e il senso di essere diversi» (Gesualdo Bufalino, Cento Sicilie, La Nuova Italia, 1993).

Hanno collaborato: Alessandro Viani, Antonio Insinga, Laura Ferrara, Turi Greco e Antonio Natoli

Le tappe principali

1979 arrivo dei primi Gohonzon in Sicilia;
1983 nasce il “settore Sicilia”: i suoi tre gruppi sono Catania, Palermo e Messina;
1986 fondato il “capitolo Sicilia” che conta 126 presenze;
1987 nascita dell’hombu: due capitoli, 40 luoghi di riunione;
1993 diventa territorio: 2 hombu, 5 capitoli, 470 presenze;
2000 i territori diventano 2, i capitoli 19, 170 luoghi di riunione;
2003 inaugurazione a Palermo della prima sede siciliana dell’Istituto Buddista.

Dal 1988 a oggi sono stati organizzati complessivamente 24 corsi, fra i quali il Corso nazionale per gli educatori tenutosi a Rametta (ME), nel 1996.

L’incontro con la società

1994: partecipazione a incontri interreligiosi a Messina e Catania; seguiti l’anno successivo, da quattro conferenze sul Buddismo di Nichiren, tenute presso l’aula magna dell’Università di Palermo e nella sala consiliare del Comune.
1997: conferenza di Johan Galtung su “La geopolitica del XXI secolo: il lavoro per la pace” e presentazione a Palermo, ai Cantieri culturali alla Zisa, del libro di dialoghi tra Galtung e Daisaku Ikeda Scegliere la pace. La presentazione del libro venne inserita nel programma degli eventi collaterali della mostra del Telefono Azzurro allestita al Centro Le Ciminiere di Catania.
1998: in collaborazione con il CIR, mostra e presentazione del volume “Lontani”, sui rifugiati della ex Jugoslavia, ospitata a Catania e a Palermo.
1998: in collaborazione con l’Università e le istituzioni locali, organizzazione di tre conferenze-spettacolo sulla “Memoria per il futuro: la Sicilia nella storia”: il ‘400 all’Università di Messina, il ‘500 a Siracusa e il ‘600 allo Spasimo di Palermo.
1998: partecipazione a Comiso alla conferenza “Donna nelle religioni”, nell’ambito del “Progetto D” della Unione europea.
2001: mostra itinerante “I diritti umani nel mondo contemporaneo”, Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo. Più di 200 persone collaborano all’organizzazione, oltre 17.000 i visitatori.
2001-2002: cittadinanza onoraria a Daisaku Ikeda dal Comune di Palermo, di Floridia (SR) e di Castelbuono (PA), qui insieme alla moglie.
Dal 2002 a oggi: partecipazione a convegni e conferenze; le mostre itineranti “I costruttori di pace” e “I semi del cambiamento” sono state ospitate da molti comuni.
2007: conferimento laurea honoris causa in Scienze della comunicazione dall’Università di Palermo al presidente della SGI Daisaku Ikeda. Partecipa in sua vece il figlio Hiromasa che legge la lectio magistralis.

L’abito del pioniere
Oltre vent’anni di pratica per trasformare il proprio cuore e attingere al potere della vita per abbracciare anche quello dei suoi conterranei.
di Enrico T., Enna

Cominciai a praticare nell’ottobre del 1987 a Catania, dove vivevo e lavoravo e un anno dopo ricevetti il Gohonzon, che portai a Enna dove avevo deciso di tornare a vivere.
Ho sempre ricordato le parole del responsabile europeo Yamazaki durante una riunione a Trets, il Centro culturale europeo in Francia: «La vita – diceva – può esser vista come un insieme di fatti sequenziali e orizzontali (si nasce, si cresce, scuole, primo amore, lavoro, matrimonio, figli…) ma ci sono pochissimi fatti verticali e da quel momento la nostra vita, in senso davvero profondo, non è più la stessa». Il mio primo anno di pratica senza Gohonzon rientrava nei fatti orizzontali (dubbi, problemi, benefici enormi di cui non mi rendevo assolutamente conto…) mentre il fatto verticale che tutto cambia, per me non fu tanto ricevere il Gohonzon ma decidere di aprirlo subito a Enna. Cominciava l’avventura. Avevo indossato l’abito del pioniere, che ogni tanto era un pesante fardello che “dovevo” indossare quasi senza averlo scelto. I primi mesi di attività furono pesantissimi. Era finita la pacchia di andare alle riunioni, sedersi, partecipare, criticare e andarsene come se tutto fosse dovuto. La cura e le attenzioni dei responsabili catanesi, se non scomparse, ora erano affidate per lo più alle telefonate. I primi zadankai a Enna erano inviti ad amici e conoscenti, ma spesso mi ritrovavo a fare la riunione da solo, facevo un’ora e mezza di Daimoku e poi telefonavo a Catania per la statistica: una presenza, la mia. Per sentirmi dire che se non c’erano almeno tre persone la riunione non veniva registrata! La volta successiva, stessa storia. Fin quando arrivai a percepire che shakubuku si fa col cuore e col Daimoku. Così arrivò la prima persona, la seconda, poi le altre. Ovviamente la gioia era proporzionale allo sforzo fatto per gli inviti, per preparare la casa, l’argomento, per accogliere le persone e la loro vita, per mantenere e alimentare quel sottile filo che cominciava a esserci fra di noi. Questo mi ha dato voglia, forza e capacità di continuare.
A fine ’88 andai al Centro culturale di Firenze. Ricordo che mentre chiacchieravo del più e del meno con un responsabile, questi, saputo che venivo da Enna, mi chiese ciò che io temevo e cioè: «Quanti siete?». Quasi vergognandomi, gli dissi che ero l’unico. Non dimenticherò mai la sua espressione: un misto di stupore, ammirazione e voglia di incoraggiarmi. Mi disse, fra l’altro: «Non immagini quante persone stanno aspettando che gli si faccia shakubuku!». Mi ci vollero quasi due anni per capire davvero quelle parole. Compresi che se una responsabilità l’assumi con gioia allora può diventare davvero un’opportunità. Il tempo passava e scoprivo che era vero quanto mi era stato detto a Firenze: tanti aspettavano di conoscere la filosofia buddista. Alcuni erano pronti, altri meno, altri ancora mi contattavano senza aspettare che fossi io a farlo, e la fortuna più grande era che ci fosse un Gohonzon in zona, il mio.
Allora cominciai a capire l’importanza di non fermarmi alle prime difficoltà. Inizialmente feci tanta attività per gli altri apparentemente a vuoto. Solo dopo un po’ di tempo ho capito quanto sono cresciuto grazie a quell’attività che sembrava inconcludente e dispersiva, ho trovato il modo di canalizzare la mia voglia acerba di abbracciare la vita delle persone, ho imparato ad ascoltare quel che mi veniva detto e anche quello che non mi veniva detto a parole, ma in qualche modo comunicato. Nutro un gran senso di gratitudine per tutte le persone che ho incontrato e che spero di avere incoraggiato sul cammino della fede. Di fatto sono io a essere in debito per tutto quel che mi hanno dato. Ora so che essere pioniere significa questo: non chiudere occhi e orecchi ai messaggi della vita e abbracciare la vita degli altri abbracciando, nello stesso tempo, la propria.

Storia di una regione

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