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Su unicità, identità, inseparabilità - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 13:41

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    Su unicità, identità, inseparabilità

    Studiando i principi buddisti ci si imbatte spesso in concetti la cui traduzione nella nostra lingua è estremamente complessa perché qualsiasi parola sembra incapace di rendere la miriade di sfumature contenute nei caratteri originali. Di questo si occuperà questa serie che continuerà sotto forma di riquadri nei prossimi numeri per trattare dei vari termini dei principi buddisti

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    Studiando i principi buddisti ci si imbatte spesso in concetti la cui traduzione nella nostra lingua è estremamente complessa perché qualsiasi parola sembra incapace di rendere la miriade di sfumature contenute nei caratteri originali. Di questo si occuperà questa serie che continuerà sotto forma di riquadri nei prossimi numeri per trattare dei vari termini dei principi buddisti

    Finora in Italia c’è stata un po’ di confusione sull’uso di questi termini per tradurre i nomi giapponesi dei principi buddisti; si parla indifferentemente di “inseparabilità di maestro e discepolo” oppure di “unicità di maestro e discepolo” e magari si chiama “unicità” sia quella di “persona e Legge” che quella della vita e del suo ambiente. In realtà tutte queste traduzioni, che si sono sedimentate e alternate nel corso degli anni e nessuna delle quali riesce a esprimere compiutamente il corrispondente concetto giapponese, si rifanno a due termini. Il primo è funi, quella relazione di “due ma non due” che lega fra loro “maestro e discepolo”, “vita e ambiente”, “materia e spirito” e così via. Il secondo è ikka che compare in ninpo ikka il principio che unifica in una sola cosa la persona e la Legge.
    Chiariamo intanto quale potrebbe essere la traduzione più corretta di ikka.
    Il termine ikka non fa riferimento a un’idea di separabilità o di inseparabilità; il suo significato è che sebbene le due cose differiscano nel nome, in essenza sono una cosa sola.
    Infatti ikka letteralmente significa “una cosa”: i sta per ichi che è il numero “uno” e ka è un classificatore per le cose. Dunque ninpo ikka significa che “persona e Legge sono un’unica cosa” da cui la traduzione un po’ impropria di “unicità di persona e Legge”. È impropria perché in realtà in italiano “unicità” non significa, se non forse in un senso matematico un po’ oscuro, che due cose sono la stessa cosa ma solo che una cosa è “unica”, insomma non ha eguali. Dunque la traduzione più fedele di ninpo ikka è “unità di persona e Legge” che salva il legame con il numero “uno” e con l’idea di unità essenziale di due cose che chiamiamo diversamente.
    Per inciso va sempre ricordato che è impensabile voler ricercare una corrispondenza semantica precisa fra due termini, uno della lingua italiana e uno della lingua giapponese. I motivi sono svariati e forse questa non è la sede più adatta per sviscerarli tutti; basti accennare sommariamente, per comprendere la complessità dell’impresa, al fatto che si tratta di due linguaggi che rappresentano la realtà in maniera radicalmente diversa: uno, l’italiano, per “fonemi”, cioè sillabe o insiemi di suoni che dir si voglia, l’altro il giapponese, che affonda le sue radici nel cinese antico, principalmente per immagini o concetti, a cui si aggiunge una parte fonetica. I termini buddisti stessi inoltre riflettono il viaggio che il Buddismo ha compiuto dall’India al Giappone, passando per la Cina: spesso dunque il termine di partenza appartiene a una lingua “alfabetica” indoeuropea come per esempio il sanscrito, è stato poi tradotto in maniera necessariamente approssimativa in una lingua che potremmo chiamare “pittorica” come il cinese, poi ancora in giapponese che è una lingua basata in parte sui suoni e in parte sulle immagini e infine deve essere nuovamente reso in una lingua fonetica occidentale, come l’inglese o l’italiano. A complicare ulteriormente le cose, la terminologia buddista, nel suo viaggio spesso non si è limitata ad assorbire unicamente le influenze linguistiche locali ma è stata influenzata anche a livello dottrinale, come accade a ogni sistema di pensiero, dalle culture e dalle religioni dei paesi che ha attraversato. Riassumendo, nel tradurre in italiano occorre quindi accontentarsi di oneste approssimazioni, e tenere presente che il termine originale ha sempre implicazioni più vaste e più profonde del suo corrispettivo italiano. Mantenendo elasticità mentale ed evitando di attaccarsi troppo alle parole, va ricordato sempre, per esempio, che il nome italiano di un principio buddista è appunto solo “un nome” e non ne esaurisce affatto il significato.
    Vediamo ora funi che è una contrazione di nini funi cioè letteralmente “due ma non due”. In effetti funi è la traduzione del termine sanscrito advaita che significa “non-dualità”. Perché è più corretto parlare di non-dualità di maestro e discepolo, di vita e ambiente, di corpo e mente invece che di inseparabilità? È una sfumatura il cui significato però è tutt’altro che trascurabile. Qui non si sta parlando di due cose inseparabili bensì di due cose che appaiono “due ma in realtà non sono due”. Il termine “non-dualità” dunque rende al meglio questa sfumatura che riguarda la percezione illusoria e quella corretta della realtà. Per esempio “corpo e mente” ci appaiono due sul piano della realtà convenzionale ma in realtà non sono due sul piano di chi ha acquisito una visione corretta della realtà grazie al risveglio della propria natura illuminata. Dunque la traduzione più corretta di funi è “non-dualità”, di vita e ambiente, di corpo e mente, di maestro e discepolo e così via.

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