Desiderai un lavoro nuovo con cui confrontarmi. Pregavo per poterne trovare uno che contribuisse al benessere della società, ispirato dall’idea di Tsunesaburo Makiguchi di uno “stile di vita contributivo”. Dopo qualche mese iniziai a lavorare con una cooperativa che si occupa di rifugiati politici
Durante la scuola elementare ero bravo, mi piaceva studiare. Ma, quando compii dieci anni mia madre si ammalò gravemente. Iniziai così a smarrirmi. Gli insegnanti dicevano: «Il ragazzo è intelligente, ma non s’impegna…». Ero bravo a giocare a calcio e forse ero anche una giovane promessa, però a quindici anni mollai tutto e iniziai anche a fare uso di sostanze stupefacenti. Poi nel giugno del 1981 mia madre ci lasciò. In preda a un totale smarrimento smisi di andare a scuola, passai a fare uso di eroina e, come se non bastasse, iniziai anche a venderla. A quasi diciotto anni fui colto in flagranza di reato e arrestato per spaccio. Feci la breve ma traumatica esperienza del carcere minorile. Da questa scaturì la decisione di cambiare la mia esistenza. Ci provai in vari modi, ma inutilmente.
Poco dopo le mie sorelle, Alessandra e Simona, iniziarono a praticare il Buddismo, me ne parlarono e anch’io le seguii. Chiuso in casa di un amico, recitai Daimoku e sudai per quasi un’intera settimana. L’eroina uscì così completamente e per sempre dalla mia vita. Decisi di ricevere il Gohonzon, accettai la responsabilità di un gruppo e iniziai a fare attività di protezione nel gruppo dei soka-han.
Improvvisamente Alessandra morì, aveva diciotto anni. In poco più di un anno, da quando aveva abbracciato il Buddismo era riuscita a farlo conoscere a più di venti persone, che ancora oggi lo praticano. Mi ritrovai così ad affrontare nuovamente il problema della morte, con accanto Simona che aveva solo quattordici anni. Però, diversamente da quando nostra madre ci aveva lasciato, stavolta c’erano il Gohonzon e il calore di tutti i membri della SGI.
Non mi arresi al dolore e, qualche mese più tardi, iniziai a lavorare come venditore. Il giudice del tribunale dei minori, vedendomi cambiato, mi assolse da tutti i capi d’accusa che ancora pendevano a mio carico.
Mentre la mia trasformazione proseguiva, venne acquistato il Centro culturale di Firenze e io partecipai come volontario ai lavori di ristrutturazione. Per tanti anni trascorsi i fine settimana a lavorare, invece di andare in giro a divertirmi. Quando stanco tornavo a casa, sentivo una gioia incredibile, la stessa che da sempre sento quando parlo con gli altri della filosofia buddista. Come scrive Nichiren: «Sacrificare la vita per il Sutra del Loto è come scambiare sassi con oro o immondizia con riso» (RSND, 1, 679).
Finito questo periodo partii per l’Inghilterra per approfondire l’inglese. Dopo quasi un anno di studio e lavoro, ebbi la grande occasione di incontrare per la prima volta il presidente Ikeda, a Taplow Court, il Centro culturale britannico. Durante quell’incontro, vidi che la sua costante preoccupazione era rivolta alle persone, al loro benessere e alla loro gioia. Pensai che se quella era la determinazione del mio maestro nei confronti della gente, allora volevo farla mia.
Tornato a Firenze mi iscrissi alle scuole serali per diplomarmi. Iniziai anche a coltivare la passione di conoscere il mondo e presi a viaggiare visitando molti paesi nei cinque continenti: è una passione che apre la mente e che non si è ancora affievolita.
In tre anni mi diplomai e poco dopo iniziai a lavorare in un hotel a Firenze. Il mio sogno nel cassetto, che era quello di iscrivermi all’università, rimase tale finché non uscì un corso triennale per operatore per la pace – una interfacoltà tra scienze politiche e scienze della formazione – e decisi di iscrivermi.
Nel 2009, al momento di preparare la tesi di laurea, pensai a un argomento: la “rivoluzione umana”. La mia relatrice però, pur apprezzando l’idea, la bocciò come tema per una tesi universitaria perché, secondo lei, mancava di una comprovata base scientifica.
Uscii dalla facoltà abbastanza abbattuto, riemersero la sfiducia e la paura di non farcela. Decisi però di affrontare questo ostacolo recitando più Daimoku e cercando di far mio ogni incoraggiamento del presidente Ikeda: semplicemente basai tutto sul Gohonzon. Osservando il mio percorso fatto fin lì, fui consapevole che avevo trasformato la mia esistenza: potevo farcela anche adesso. Decisi insieme alla professoressa un nuovo titolo per la tesi: “La comunicazione nonviolenta e il dialogo come strumento di pace”. E così, mi sono laureato come operatore per la pace.
Dal Daimoku, dall’impegno nella pratica per gli altri e dal desiderio di mettere in pratica lo spirito di maestro e discepolo era scaturita la forza per realizzare una cosa che mi sembrava impossibile.
Desiderai un lavoro nuovo con cui confrontarmi. Pregavo per poterne trovare uno che contribuisse al benessere della società, ispirato dall’idea di Tsunesaburo Makiguchi di uno “stile di vita contributivo”. Dopo qualche mese iniziai a lavorare con una cooperativa che si occupa di rifugiati politici.
Nel maggio 2011 presso la Facoltà di Giurisprudenza si aprì un corso per ottenere una qualifica come mediatore civile: decisi di partecipare. Il primo giorno del corso precipitai nel panico totale. La stragrande maggioranza dei partecipanti erano laureati in legge e le materie venivano esposte in un linguaggio tecnico-legale. Preso dallo sconforto mi fidai delle parole di una compagna di fede, che mi incoraggiò a credere nel mio potenziale di Budda. Iniziai a recitare ogni giorno molto Daimoku e a studiare più che potevo quelle materie così difficili. In questo modo, alla fine del corso ho ottenuto l’abilitazione come mediatore civile e credo che il prossimo passo sarà quello di conseguire una laurea specialistica attinente al campo dei diritti umani e alla tutela dei minori.
Se potessi spiegare come percepisco dentro di me oggi la relazione tra maestro e discepolo, userei semplicemente una parola: vittoria! Desidero sinceramente riportare ancora grandi risultati nella mia vita di relazione riuscendo, grazie a questi, a far conoscere a quante più persone possibile la forza della pratica buddista.
Una scrittrice inglese dell’Ottocento che si firmava George Eliot scrisse: «Non è mai troppo tardi per diventare ciò che avresti potuto essere».