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Roma - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 11:05

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Roma

Si conclude la serie che ci ha portato a ripercorrere il primo viaggio del presidente Ikeda in Europa nel 1961. Ultima visita: Roma, la città eterna, simbolo di passato, presente e futuro, dove si incontreranno il 22 ottobre quattromilacinquecento membri da tutto il continente, con lo sguardo rivolto al domani

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La nuova rivoluzione umana, vol. 9, pag. 175

Mentre ammiravano la basilica di San Pietro dall’esterno e scattavano fotografie, una giovane coppia di italiani si rivolse a loro. Quando Shin’ichi si voltò, l’uomo gli tese una macchina fotografica. Volevano che Shin’ichi scattasse loro una foto.
«Certamente» disse Shin’ichi, e scattò una foto dei due sposini sorridenti, a braccetto.
Era una coppia siciliana in viaggio di nozze a Roma. Nel saperlo, Shin’ichi Yamamoto esclamò: «Davvero? Congratulazioni. Vorrei fare una foto assieme a voi».
Shin’ichi diede la sua macchina fotografica a Eisuke Akizuki e lo pregò di scattare la foto. Masao Yamagishi disse loro chi era Shin’ichi, e quando i due giovani scoprirono che era il leader di un’organizzazione buddista giapponese che contava cinque milioni di famiglie, un’espressione di sorpresa si dipinse sui loro volti. La moglie scosse il capo meravigliata: «Non avrei mai immaginato che a scattarci la foto fosse una persona così importante».
Ma Shin’ichi la interruppe e le disse con un sorriso: «Siamo tutti uguali. Del resto, è del tutto naturale che una persona di fede desideri aiutare gli altri».
Il marito chiese allora: «Tutti i leader buddisti sono aperti come lei?». «In realtà non lo so» rispose Shin’ichi, «ma il Buddismo insegna che tutti gli esseri umani possiedono intrinsecamente il più alto stato di vita, chiamato Buddità. Perciò è sbagliato trattare gli altri con modi altezzosi o autoritari».
Commosso, il marito disse: «Io sono cattolico, ma sento che grazie a lei sono entrato in contatto col vero spirito della fede. Sono molto felice di averla incontrata oggi».
«Grazie» disse Shin’ichi. Benché l’incontro fosse stato breve, la loro conversazione era stata pervasa dal calore e dall’amicizia. Guardandoli allontanarsi, Shin’ichi disse alle persone del suo gruppo: «Se vogliamo creare un mondo pacifico, è essenziale forgiare legami di amicizia tra gli individui. Se etichettiamo le persone in base alla loro nazionalità o alla loro razza, perderemo di vista la loro vera umanità».

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Dedicate all’Italia

Le brevi poesie scritte per noi dal presidente Ikeda parlano di fiducia nella Legge mistica, di cultura che migliora l’animo umano, di legami di valore. Come nel messaggio inviato quest’anno per l’avvio dei lavori al Centro culturale Ikeda di Milano per la pace

In piedi,
tra le rovine di Roma,
sento la certezza
che la Terra della mistica Legge
non perirà mai.

(Roma, 20 ottobre 1961)

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Eterna è la colta città del mondo.
Eterna e felice è la città degli uomini.
Vera è la città di umane virtù e fortuna.
Firenze, città dei fiori, sovrana fra tutte le città.

(Firenze, 30 giugno 1992)

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Ai nobili giovani
che in Italia
hanno preso l’iniziativa
per
kosen-rufu
andranno benefici per i tre tempi di passato, presente e futuro.

(maggio 1994)

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In Italia è sorta
una nuova alba:
bagliori di nuove
vittorie e benefici.

Pregando con tutto il cuore
per la felicità e la lunga vita di tutti
i compagni di fede in Italia

(23 marzo 2007)

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Alla Divisione donne italiana:

Realizzate un forte legame fra maestro e discepolo.
Unitevi in un meraviglioso spirito di itai doshin.
Tramite una profonda preghiera date prove concrete nella società.

(24 agosto 2007)

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Ai membri italiani:

Avanzate insieme in armonia.
Legami più profondi di itai doshin,
legami indistruttibili,
legami vittoriosi,
legami costruttivi,
legami che permettano a tutti di realizzare i propri desideri.
È questo il mondo della compassione dei compagni di fede, vera essenza del Buddismo.
È questa la vera Soka Gakkai.

(12 giugno 2011)

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1981-1992-1994: Ikeda incontra i membri italiani

A Firenze, nel 1981, Ikeda volle visitare il museo casa di Dante; a Bologna il primo giugno del ’94 dedicò la sua lectio magistralis a Leonardo da Vinci. Proprio il titolo di quella lezione ha suggerito il nome della testata dei giovani italiani: Il volo continuo. Presentiamo due estratti di Ikeda sul Sommo Poeta e il Genio Universale

Dante Alighieri

Dante nacque a Firenze, all’inizio dell’estate del 1265, un anno dopo la persecuzione di Komatsubara: era quindi quasi un contemporaneo di Nichiren.
Per Dante la prima grande prova fu la morte dell’amata Beatrice, che aveva incontrato quando entrambi avevano circa nove anni, serbando da quel momento per lei un amore segreto. Cos’è la morte? Cos’è la vita? Perché si vive? Disperato, cercò una risposta nella filosofia.
A trent’anni, già noto come poeta, divenne membro di una prestigiosa corporazione e da quel momento si distinse anche come uomo politico. Dante credeva con fermezza in un governo a servizio della gente ma, una volta raggiunti i vertici del potere, finì invischiato in un groviglio di conflitti e gelosie in seno alla vita politica fiorentina e venne esiliato dalla città con false accuse di atti illeciti. Questa fu la sua seconda prova.
Lui, che aveva dato tutto se stesso a Firenze, fu mandato in esilio dalla sua stessa città. «Più resistenza incontrano, più forti diventano le onde» è stato il mio motto fin da giovane. E così lo spirito di Dante, più veniva messo alla prova, più forte si faceva. Attese il momento opportuno, lo creò quasi, e dopo dieci anni e più d’esilio, cominciò a scrivere la Divina Commedia gettandovisi anima e corpo.
Il poema racconta cosa succede dopo la morte, illustrando con vividi dettagli la retribuzione che ciascuno riceve in base a come ha vissuto veramente. È un attacco al male che arreca agli esseri umani infelicità e sofferenza, un attacco a gelosia, inganno, arroganza, violenza, menzogna e tradimento.
(tratto da NR, 266, 267 e da Cari amici italiani, IBISG, 2003)

Leonardo da Vinci

Credo che la «volontà di dominare se stessi» sia il primo insegnamento che dobbiamo ereditare da Leonardo. Uomo libero, autonomo e assolutamente indipendente, egli non solo rifiutava la prigionia delle norme etico-religiose, ma era anche svincolato da tutte quelle relazioni o strutture che regolano la convivenza umana: la patria, la famiglia, gli amici, i conoscenti.
Non si lasciava allettare dalla promessa di onori e denaro, continuava semplicemente ad andare avanti, inseguendo solo ciò che gli stava a cuore. Era capace di sforzi notevoli e prolungati nel tempo, e aveva una capacità di concentrazione straordinaria. Si dice, per esempio, che quando dipinse l’Ultima cena si applicasse al lavoro dall’alba al tramonto, senza bere né mangiare. È senz’altro fuor di dubbio che Leonardo fosse un “genio universale”, un artista dotato di talenti molteplici e di grande versatilità: pittura, scultura, invenzioni di macchine e armi, ingegneria civile, non c’è campo dove il suo ingegno non si fosse applicato.
Quel Leonardo che osservava e studiava il movimento delle acque, la vita delle piante, che analizzava il volo degli uccelli, era lo stesso Leonardo che fissava poi lo sguardo sul volto dei cadaveri di giustiziati, impugnando il bisturi per i suoi studi di anatomia.
La sua natura di uomo libero e cosmopolita si manifestava nella capacità di andare al di là delle regole: in lui si sono realizzate le più alte aspirazioni di vitalità e originalità del Rinascimento italiano. Credo che tutto ciò sia stato reso possibile dalla sua non comune “volontà di dominare se stesso”: «Non si pò avere maggior né minor signoria – scrisse – che quella di se medesimo» (Codice H 119, Bibliothéque de l’Institute de France, Paris).
È noto come il suo grande sogno fosse quello di vedere gli esseri umani volare nel cielo come gli uccelli. Si potrebbe dire, usando una metafora, che pure la sua anima abbia continuato a volare per tutta la vita.
(tratto da DU, 45)

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Un cuore indomito e gentile

Un “diario intimo” dei primi passi di kosen-rufu in Italia attraverso la testimonianza di Toshiko Nakajima, quarantotto anni dopo la seconda visita del presidente Ikeda a Roma. Il trasferimento in Italia della giovane pioniera di kosen-rufu, i consigli del maestro, la sfida della crescita personale, i primi gruppi a Roma, i frutti di tutta una vita

di Toshiko Nakajima

Mi sono laureata nel marzo del 1962 e a settembre dello stesso anno sono venuta in Italia per perfezionare i miei studi artistici. Il 29 agosto, a Tokyo, mi recai da sensei per comunicargli che mi sarei trasferita a Roma, e lui mi donò un volume del Gosho dove scrisse di suo pugno: «Presidente Daisaku Ikeda, Soka Gakkai, dono a Toshiko Nakajima, Tokyo». Questo regalo rappresenta per me un tesoro davvero prezioso. [È il libro che Toshiko mostra nella foto, n.d.r.].
Nel 1961, quando ero ancora all’università, avevo partecipato a una riunione della Divisione studenti universitari durante la quale sensei ci aveva raccomandato di “trarre la saggezza dal Buddismo e la conoscenza dal mondo”. È in quella occasione che decisi di completare i miei studi all’estero. All’università mi ero distinta, e per questo ero sempre stata sostenuta dai miei professori. Fu il rettore stesso a indicarmi l’Accademia di Belle Arti di Roma per proseguire i miei studi. Così, dopo gli esami di ammissione, entrai direttamente al terzo anno di corso.
Avevo iniziato a praticare, insieme ai miei genitori e a mio fratello Tamotsu, nel 1955, nel Kansai. In seguito mi ero trasferita a Tokyo per frequentare l’università e lì, nel ’58, avevo ricevuto il mio Gohonzon personale. A Tokyo avevo iniziato a fare attività nella Divisione studenti. Ero anche responsabile byakuren per le attività di accoglienza al Taiseki-ji e responsabile di centro delle giovani donne.
Quello stesso anno, nel ’58, ebbi modo di partecipare ai funerali di Josei Toda, nel cimitero di Aoyama. Era il mese di aprile e i ciliegi erano tutti in fiore. C’era una leggera brezza primaverile che faceva cadere una pioggia continua di petali. Era meraviglioso. C’erano un’infinità di persone venute da tutto il Giappone e si respirava un’atmosfera di profondo benessere. Non dimenticherò mai quella giornata.

1963
Nel 1962 sono arrivata a Roma. Sensei era venuto in visita l’anno precedente e sarebbe tornato l’anno successivo, dal 19 al 22 gennaio del ’63.
Ricordo che mi recai all’aeroporto per accoglierlo insieme a Sadao Yamazaki, che a quel tempo lavorava all’ambasciata giapponese a Roma, e a sua moglie. Con sensei giunsero anche Akiya, Hojo e Eiichi Yamazaki, che viveva a Parigi. Li accompagnammo in albergo e lì misero a punto il programma per il giorno dopo.
L’indomani partimmo per una visita a Pompei. Fino a Napoli in treno, e poi in automobile. La prima tappa fu Ercolano dove ci fermammo, tra l’altro, in una manifattura di cammei. Sensei ne acquistò alcuni da regalare, e uno lo diede a me. Io facevo da interprete, perché prima di partire, a Tokyo, avevo studiato un po’ di italiano. Facevo del mio meglio, anche se molte parole ancora mi sfuggivano. Ricordo che era una giornata molto fredda e ventosa. In macchina ero seduta proprio vicino a sensei. La sera rientrammo a Roma.
Il giorno seguente ci recammo a visitare le rovine di Roma e la basilica di San Pietro e poi, la sera, a casa di Yamazaki, ascoltammo insieme le canzoni della Soka Gakkai. In occasione di quella visita ricordo che a un certo punto sostenemmo anche gli esami di Buddismo del Dipartimento di studio.

1964
L’anno seguente sensei arrivò a Roma da Istanbul, il 6 ottobre, nel pomeriggio. All’aeroporto eravamo sempre noi tre ad accoglierlo, i coniugi Yamazaki e io.
La sera ascoltammo insieme Mambo italiano e Arrivederci Roma. Allora ricordo di avergli domandato: «Sensei, a lei piace Non piangere sorella vero?» (è una canzone giapponese che dice: “…siamo venuti via, lontano dal nostro paese”). «Sì, mi piace molto – mi ha risposto – ma tu come lo sai?». «Io so cosa piace a sensei», risposi timidamente.
Il giorno dopo facemmo un giro per la città. Era nuvoloso, a tratti pioveva. Scendemmo la scalinata di Trinità dei Monti con gli ombrelli aperti e in fondo, in piazza di Spagna, ci aspettava il taxi per portarci a San Pietro. Ricordo che mentre sostavamo davanti alla basilica, proprio lì dove si vedeva in terra il confine tracciato tra Stato italiano e Stato vaticano, improvvisamente smise di piovere e dietro la cupola di Michelangelo apparve un meraviglioso arcobaleno. Fu una scena spettacolare, che mi fece molta impressione.
Entrammo e percorremmo tutta la basilica, fino in fondo. Sensei non diceva una parola, osservava tutto con grande attenzione. Durante il percorso di ritorno, in macchina, mi domandò: «Come trascorrono il tempo libero i giovani italiani?». Gli risposi che avevo l’impressione che i giovani di qui avessero molta energia, ma non sapessero bene come utilizzarla.
Non saprei dire esattamente cosa provassi: un misto di emozione, paura… ero molto giovane, mi trovavo da poco a Roma, da sola. Non mi rendevo conto di quel che stavo vivendo, mi sembrava tutto un sogno. Sensei mi disse che non dovevo avere fretta di fare shakubuku. Mi disse di pensare a crescere e a imparare bene la lingua italiana. «Pensa a crescere, crescere, crescere…» mi ripeté, tanto che io mi domandai come mai insistesse tanto. Mi sentivo quasi un po’ ferita nell’orgoglio. Solo in seguito ho capito il significato di quel “crescere, crescere”!
In quel periodo ero vice responsabile europea delle giovani donne, e un giorno mi trovai a dover fare un intervento a una riunione europea. In quella occasione compresi quanto davvero dovevo ancora crescere, sia nella fede che umanamente, come persona. Lì mi sono accorta di quanto ero arrogante, ho capito quanto dovevo continuare a fare la mia rivoluzione umana. Ora, quarantotto anni dopo, riflettendo sul significato di quelle visite di sensei, capisco sempre meglio le sue parole.
Ho iniziato a fare shakubuku a Roma nel ’65, dopo la visita di sensei. Allora ero rimasta io sola, perché i signori Yamazaki erano rientrati a Tokyo. Si formò un primo gruppo, poi un settore. Io comunicavo direttamente con Yamazaki, che stava a Parigi, e lui comunicava con il Giappone, … e così venivano spediti qui i primi Gohonzon.
C’erano già circa centoventi membri quando arrivò Mi­­tsuhiro Kaneda in Italia. Il primo shakubuku a Roma fu uno studente dell’Accademia, poi la mia padrona di casa, e in seguito un’altra coppia, marito e moglie. Dadina (Amalia Miglionico) iniziò a praticare nel ’66, quando c’era già un gruppetto. Il primo esame di studio europeo si svolse a casa mia. A quel tempo uno zadankai si teneva a casa di Dadina e un altro a casa di sua nipote. Un altro gruppo si formò presto ai Parioli, e poi a Settebagni. Poco dopo, nel ’67, si trasferì a Roma anche Tamo­tsu, mio fratello.

1967
Il 23 maggio del ’67 sensei è tornato a Roma. Quella volta siamo stati a Tivoli, con una ventina di altri responsabili. Ma dall’Italia eravamo solo io e Tamotsu. Sulla Tiburtina, viaggiando verso Tivoli, ricordo che sensei ha detto: «Qui si potrebbe costruire un ­kaikan…». Allora non c’era niente, era tutta campagna. Visitammo Villa d’Este e scattammo una foto davanti alle fontane.
Nel ’67 c’era anche la signora Kaneko. Mi invitarono a colazione con loro in albergo. Eravamo solo noi perché a quell’epoca non c’era consapevolezza tra i membri italiani di chi fosse sensei.
Solo ora comincio a comprendere il significato di tutto questo. Fare la propria rivoluzione umana… continuare a crescere, imparare bene la lingua: anche se diventassi bravissima, se non sono in grado di comunicare con gli altri, come faccio? Capisco ora sempre di più l’importanza di queste cose.
I miei genitori non mi hanno mai fatto molti complimenti. La mia famiglia discende da samurai, ha una tradizione molto severa. Ma l’anno scorso, quando sono tornata in Giappone dopo tanti anni, mi hanno detto per la prima volta: «Hai fatto una grande rivoluzione umana. Sei diventata una persona meravigliosa!».
Questa è la cosa più grande per me, il vero frutto della mia vita. Poter sentire questo dai miei genitori: questa è la mia grande vittoria! Ho avuto dei genitori meravigliosi, un’infanzia meravigliosa, sento una gratitudine infinita per loro e cerco di ripagarla praticando il Buddismo.
Non ho alcun rimpianto nella mia vita. So di aver avuto una grande fortuna a incontrare la Soka Gakkai e i presidenti Toda e Ikeda. Anche se dovessi trovarmi a chiedere l’elemosina, io ho incontrato il Gohonzon, perciò non ho paura di niente.

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La nuova rivoluzione umana, vol. 7, pagg. 175-183

Il presidente Ikeda racconta il suo secondo viaggio a Roma e l’incontro con Toshiko Nakajima nel romanzo La nuova rivoluzione umana. Shin’ichi Yamamoto e Sumiko Kojima sono gli pseudonimi di Daisaku Ikeda e Toshiko Nakajima.

«Ha già imparato a parlare l’italiano?» le domandò. «Sì. Un poco. Abbastanza per arrangiarmi, comunque» rispose lei. «Capisco – disse Shin’ichi -. Per favore, si prefigga come suo obiettivo principale la completa padronanza della lingua». […] Era veramente preoccupato per il futuro di quella giovane donna che era venuta da sola in Italia per studiare. Sumiko era intenzionata a restare in Italia anche dopo aver terminato gli studi, ma Shin’ichi sapeva che cercare di guadagnarsi da vivere come artista non sarebbe stato facile. Tra l’altro, i coniugi Yamagishi, che si erano trasferiti in Italia a causa del lavoro del marito, sarebbero tornati in Giappone entro pochi anni. Sumiko Kojima doveva perciò diventare una figura chiave per i membri italiani. Shin’ichi confidava che lei si integrasse pienamente nella società italiana, così da poter essere una guida attiva e capace del movimento di kosen-rufu in quel ­paese, quando fosse venuto il tempo. Questo era il motivo per cui desiderava che Sumiko diventasse forte. […] Finalmente arrivarono a Pompei. […] Dopo aver visitato il museo edificato alle porte dell’antica città, il gruppo si incamminò tra le rovine. Sumiko Kojima fece del suo meglio per tradurre in giapponese le spiegazioni dell’anziano italiano che faceva da cicerone. Rivolgendosi a Sumiko, Shin’ichi continuò: «Signorina Kojima, la vita è breve. Non si sa mai cosa potrà accadere; ogni cosa cambia costantemente. Ma se si vive la propria vita in accordo con l’eterna e immutabile legge del Buddismo, si troverà la strada per la felicità perpetua. Perciò spero che lei costruisca un io forte e indomabile, e lotti per realizzare la sua missione per kosen-rufu, qualunque dolore o sofferenza possa incontrare». Il giorno seguente Shin’ichi e i suoi compagni si recarono alle rovine di Roma e alla basilica di San Pietro; la mattinata era piovosa, ma quando arrivarono a San Pietro qualche raggio di sole fece capolino tra le nubi. […] All’epoca i membri italiani erano davvero pochi in confronto a quelli della Germania e della Francia. Ma se le fondamenta sono solide, col tempo si verificherà immancabilmente una grande crescita.

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