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Rinascere dentro - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 12:36

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Rinascere dentro

Riccarda Barattini, Marina di Carrara

Ma ecco di nuovo il demone della paura che mi assale: non sono pronta, mi ripeto, non ho il coraggio e la determinazione sufficienti, ho ancora troppe cose da affrontare, devo essere più saggia, devo studiare di più…

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Ma ecco di nuovo il demone della paura che mi assale: non sono pronta, mi ripeto, non ho il coraggio e la determinazione sufficienti, ho ancora troppe cose da affrontare, devo essere più saggia, devo studiare di più…

Mia madre era una donna speciale, da lei ho imparato tutto: a essere aperta verso gli altri, a non giudicare, a prendere decisioni e ad assumermi con onestà la responsabilità delle mie scelte. Da lei mi sono sempre sentita sostenuta, mai oppressa e soprattutto mi sono sentita capita e amata per quello che ero.
A diciassette anni ho conosciuto Piero, l’amore della mia vita, il mio compagno di percorso. Dal momento in cui l’ho incontrato ho avuto la consapevolezza che insieme avremmo potuto affrontare qualsiasi prova. In trentasette anni di matrimonio abbiamo condiviso tanti dolori, tante difficoltà, ma anche tante gioie e soddisfazioni.
Abbiamo avuto due figli, Elena e Francesco e abbiamo accolto come figlie Aliona e Tania. Quando Piero era già in pensione e io ci sarei andata a breve, la nostra vita si è arricchita della nascita del nostro primo nipotino.
Finalmente sarebbero arrivati gli anni della sudata serenità: il mutuo pagato, i figli sistemati… Ci siamo ripromessi che appena io fossi stata in pensione avremmo fatto tutte quelle cose che avevamo sempre rimandato. Il 30 giugno del 2008 ho avuto la conferma dell’accettazione della domanda di pensione e il 3 luglio ho saputo che Piero era afflitto da un mesotelioma da amianto, un tumore che non lascia speranze. L’ho visto morire giorno dopo giorno durante quei lunghi, ma contemporaneamente troppo brevi, sette mesi. Si può morire di dolore? Sì, si può.
Si muore in una maniera subdola, vigliacca: tutto in te è morto tolto l’involucro. Si può morire e fingere di essere vivi? Sì, si può.
Per due anni, nonostante avessi intorno a me tante persone che mi dimostravano il loro amore e cercavano di scuotermi e farmi uscire dal mio isolamento, io non ho reagito. Sapevo di far soffrire coloro che avevo accanto e mi sforzavo di fingere un po’ di partecipazione, ma i miei tentativi fallivano miseramente.
Io credo che la cosa che mi tradiva di più erano gli occhi: i miei occhi non hanno mai saputo mentire! Io stessa non mi riconoscevo più. Dov’era finita la donna coraggiosa, sicura di sé, che non si era fatta abbattere neppure di fronte al rischio di morire per una grave malattia e aveva affrontato con grinta e coraggio la sofferenza di una lunga e deturpante terapia?
Poi tutt’un tratto, verso la fine dell’estate del 2010, l’atmosfera pesante che si respirava in casa ha cominciato a cambiare, c’era qualcosa di nuovo che però mi sfuggiva: vedevo mia figlia Elena più sorridente, più serena e poi a ruota anche Aliona.
Una mattina, passando davanti alla porta chiusa dello studio, sento le loro voci che ripetono una strana frase, quel suono, anche se incomprensibile, mi colpisce, mi attira. Più tardi chiedo a Elena cosa stesse ripetendo e lei mi spiega che si è avvicinata al Buddismo e che quello che avevo sentito era la recitazione di “Nam-myoho-renge-kyo” che è il cuore di questa religione. A sentire questa frase mi sono un po’ irrigidita, ma lei sorridendo mi ha detto: «Tranquilla, il Buddismo non riconosce un potere divino superiore, solo noi possiamo cambiare la nostra vita e tutti possiamo raggiungere la felicità, l’importante è cambiare atteggiamento!». «Se sei più serena, io sono molto contenta per te», le ho risposto.
Ma le parole di mia figlia mi avevano incuriosito. Avevo improvvisamente riacquisito la capacità di concentrarmi nella lettura, infatti tutto ciò che Elena portava a casa riguardante il Buddismo io lo leggevo ed ero sempre più interessata e affascinata. Nel frattempo la mia casa ha cominciato a riempirsi di giovani, mi piaceva ascoltarli e nutrirmi della loro energia.
A gennaio Elena ha deciso di ricevere il Gohonzon e a casa, durante l’apertura, ho provato un’emozione fortissima: ho sentito tanta energia sprigionarsi e attraversarmi, lasciandomi stordita e tremante. In quegli istanti, inoltre, ho percepito fortemente la presenza di Piero accanto a me. Il giorno dopo ho cominciato a recitare Gongyo e Daimoku.
Detta così sembra semplice, ma non lo è stato e non lo è tuttora. Le resistenze che la mia vita ha messo in campo sono state tante e dolorose, i primi tempi anche fisiche: la voce mi spariva, la gola mi bruciava in maniera insopportabile. Provavo una grande paura ogni qualvolta mi mettevo davanti al Gohonzon: cosa avrei trovato dietro al “muro” che avevo costruito? Avrei avuto la capacità di reinserirmi, avrei potuto affrontare il mio dolore, guardarmi dentro?
Ma la domanda più pesante e che rimandavo era: «Voglio ricominciare a vivere?».
I miei ragazzi erano lì pronti a sostenermi, a incoraggiarmi, in maniera delicata, mai invadente. Nonostante la paura volevo continuare a praticare. Studiavo e recitavo e presi la decisione di frequentare un gruppo.
L’ho fatto con riluttanza, con scetticismo, ma ascoltando le esperienze delle mie compagne e percependo il loro coraggio ho sentito nel profondo che facendomi aiutare da loro potevo farcela, che dovevo lasciarmi andare, dovevo lasciar fluire la rabbia, far uscire la sofferenza a cui mi ero aggrappata per paura di provare qualcosa di simile alla felicità, parola per me ormai impronunciabile.
Un giorno mentre recitavo ho sentito quanta sofferenza stessi procurando a Piero, che aveva vissuto per rendermi felice e gli ho promesso che mi sarei riappropriata del mio coraggio, che avrei guardato avanti per me e per lui. Di colpo è scomparsa la rabbia e si è aperto quel pugno che da due anni mi stringeva il cuore. Ho capito che dovevo fare qualcosa per la mia vita: da lì ho iniziato a pensare di ricevere il Gohonzon.
Ma ecco di nuovo il demone della paura che mi assale: non sono pronta, mi ripeto, non ho il coraggio e la determinazione sufficienti, ho ancora troppe cose da affrontare, devo essere più saggia, devo studiare di più…
Ma il desiderio è lì dentro di me e allora prego perché il maestro mi prenda per mano e mi faccia sentire quando è il momento.
Betty, una delle mie due responsabili mi consiglia di leggere in Buddismo e Società lo speciale “La rotta… della pratica corretta” di Tamotsu Nakajima il quale mi dice: «La prima cosa che serve alla pratica è il Gohonzon. Con o senza è molto diverso. Quindi, la prima condizione è avere il Gohonzon, oltre al desiderio di praticare» (147, 12).
Ho detto “mi” dice perché è proprio la sensazione che ho provato: quelle parole erano per me! In quell’istante ho deciso di ricevere il Gohonzon e da lì la mia vita è ripartita.

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