Il titolo è stato scelto da Jacopo, sette anni che, con la freschezza della sua età, è andato dritto al cuore di questa famiglia. Dalle storie raccontate emerge il desiderio comune di migliorarsi e di essere maggiormente d’aiuto agli altri
Redazione: Chi di voi ha cominciato a praticare questo Buddismo per primo?
ANDREA: Ho iniziato nel 1993: allora sentivo di non avere alcuna influenza sulla mia esistenza. Avevo provato molte strade prima del Buddismo, questa volta percepii subito che questa pratica comportava il mettersi in discussione. Volevo che fosse una cosa solo mia, che non avrei mai condiviso con la mia famiglia. Tanto è vero che recitavo Gongyo e Daimoku di nascosto in camera. È lì che, recitando Daimoku, provai una gioia incredibile, assolutamente indipendente da quello che vivevo allora, una gioia irrazionale che poi è stato l’incentivo a perseverare nella pratica anche nei momenti più duri.
Redazione: Che cosa è successo dopo? Quali cambiamenti ci sono stati?
ANDREA: Ero dubbioso, mi domandavo il perché tutti quei buddisti si preoccupassero così tanto della mia felicità: ma avevo bisogno di stare bene in quel preciso momento… Il primo grande cambiamento fu il crescente rispetto che le persone, con naturalezza, inziarono a nutrire nei miei confronti e una sensazione di costante leggerezza, che non avevo sperimentato neanche nelle precedenti esperienze diverse dal Buddismo. Fu così che parlai ai miei familiari della pratica. Al fratello più piccolo, Matteo, promisi una macchinina se fosse venuto alla riunione di discussione. L’unico che proprio non ne volle sapere fu Francesco.
FRANCESCO: Sono l’osso duro della famiglia…
GRAZIA: Dopo che Andrea aveva iniziato a praticare, io e mio marito notammo subito dei cambiamenti. Era il dicembre del ’93 quando Andrea ci parlò del Buddismo. Io non ne avevo mai sentito parlare e inizialmente ero piena di pregiudizi. Ma cambiai idea quando, entrando nella casa dove partecipai alla mia prima riunione, vidi che avevano un albero di Natale e pensai: «È una casa normale».
Quella sera una persona provò a farmi leggere il libretto di Gongyo e il mio primo pensiero fu che questo fosse troppo: «Come si permettevano…». Decisi di praticare solo più tardi, nel maggio del 1995.
Redazione: Francesco, quando hai percepito un’aria nuova in famiglia?
FRANCESCO: Io non ho visto cambiamenti repentini, né in Andrea né nei miei genitori. In realtà avevo messo una barriera tra me e il mondo, che mi faceva da armatura e mi proteggeva. Apparivo forte ma in realtà ero fragile. Verso la pratica e i praticanti provavo repulsione, anzi mi parevano tutti dei poveracci. Neanche quando iniziarono a praticare tutti, uno dopo l’altro, compresa la zia Maria, vidi le loro trasformazioni… Mi barricavo dietro questo muro che faceva rimbalzare le cose, mi sentivo bravo e forte, ma di fatto avevo molta paura di cambiare ed ero vulnerabile. Nel ’97 cominciai anch’io grazie a una serie di circostanze: un datore di lavoro che praticava, un’amica di famiglia che mi stava vicina e altri input esterni… La vita alle volte ha più fantasia di noi e ti porta a fare percorsi profondi: in pochi mesi mi resi conto delle mie enormi difficoltà e mi accorsi che in casa, pur essendoci sempre problemi, si respirava un’aria diversa. Una sera mi “tesero una trappola” e la responsabile del gruppo dove praticava mio padre parlò con me e la mia fidanzata di allora: eravamo a casa sua e per la prima volta “guardai il Gohonzon” nel vero senso della parola. In quel momento decisi sul serio: se mi avessero detto che per vedere se funzionava dovevo andare a piedi tutte le mattine in cima al Monte Morello e tornare indietro, l’avrei fatto!
Redazione: Quanto hai impiegato a vedere dei cambiamenti su di te dopo avere iniziato a praticare?
FRANCESCO: In realtà è successo subito qualcosa. La mattina, in motorino, invece di stare col grugno, fischiettavo. Guardavo il sole, sentivo la primavera… il muro si era incrinato. In quel periodo la mamma era andata a un corso al Centro culturale europeo a Trets e al ritorno accadde un evento impensabile: un litigio tale che mi portò a fare le valigie e lasciare la casa e la famiglia. Fu un evento mai successo prima: presi le mie cose e me ne andai a convivere con la mia ragazza. Ci fu un allontanamento e una rottura apparentemente incolmabile: loro mi cercavano, volevano farmi tornare, ma io non ne avevo l’intenzione.
Redazione: Come reagiste a questa rottura nei rapporti?
GRAZIA: Mi crollò il mondo addosso. La sera del litigio avevo una riunione: vincendo sulla mia tendenza a chiudermi in me e a piangermi addosso, ci andai lo stesso. Ne ricevetti un grande incoraggiamento. Un ulteriore, decisivo incitamento venne dal parlarne con mia sorella Maria: non ci frequentavamo molto ed eravamo profondamente diverse, ma di fondo c’era il desiderio di volersi aiutare e desiderare il bene l’una dell’altra. Decisi di chiedere un consiglio nella fede e lei mi accompagnò. In quell’occasione mi fu suggerito di recitare Daimoku per la felicità di Francesco, ma ciò non voleva dire che lui tornasse a casa, tutt’altro. Quei momenti cambiarono il mio modo di recitare.
CLAUDIO: Stavo partecipando a una serie di incontri per futuri responsabili, così, in quel particolare frangente, mi alzai in piedi e domandai: «Che ci sto a fare qui? Non sono neanche responsabile della mia vita, mio figlio ha sbattuto la porta di casa e se ne è andato…». Mi fu risposto che tramite quella sofferenza avrei fatto una grande esperienza. Cominciai a recitare Nam-myoho-renge-kyo per essere felice e diventare una persona di valore.
ANDREA: Dal canto mio fu in quel periodo che cominciai a recitare assiduamente per la felicità dei miei genitori.
MARIA: Quando ho iniziato a praticare vivevo con le mie due figlie, da mia madre Bruna. Era sempre stata una presenza di amore, forse eccessivo, che mi aveva educata a vedere tutto in rosa, tutto sempre a posto: non riuscivo a vedere i problemi di mia sorella Grazia e della sua famiglia, loro erano per me solo un modello da seguire. Un primo segnale di cambiamento lo avvertii nel luglio del 1995: Grazia stava recitando intensamente per me e al ritorno dalle vacanze mi regalò un libretto di Gongyo. Mi colpì quando mi disse che stava pregando per la mia felicità.
Redazione: Questo fatto di dichiararsi reciprocamente l’obiettivo della felicità altrui è stato decisivo?
GRAZIA: Sicuramente è stato importante.
FRANCESCO: Fu una cosa che colpì anche me, quando mia madre mi disse che aveva recitato Daimoku per me.
Redazione: È bello che parliate di queste cose con serenità, spesso quando accadono delle spaccature di questo tipo non ci si parla più o le persone si guardano in cagnesco. Vorrei sentire l’opinione di Matteo, che all’epoca era piccolo.
MATTEO: In effetti io ero piccolo e le persone che venivano in casa per recitare un po’ mi scocciavano, vivevo questa cosa fra l’indifferenza e l’ostilità. Fu solo a diciassette anni che mi avvicinai a questo Buddismo sul serio, con tutti i problemi che ha un adolescente… spesso mi sono sentito dire: «Sei fortunato perché pratichi e hai solo diciassette anni». Ma credo che pensare così sia frutto di un luogo comune perché ogni persona, relativamente alla sua età, ha problemi che sono più o meno intensi. Solo che io non riuscivo a parlare, a esprimermi, per cui sembrava che stessi sempre bene.
Redazione: Ma cos’era che non ti piaceva della tua famiglia?
MATTEO: La manifestazione, in modo violento e imprevedibile dei loro sentimenti, soprattutto da parte di Andrea (nella foto sopra col cappello) e della mamma. Anche dopo che avevano iniziato a praticare ci furono molti alti e bassi, ma oggi è tutto più stabile. Un altro aspetto su cui ho dovuto lavorare è stato il fatto di considerare perfette le persone. Avevo un rapporto di questo tipo con Francesco, che per un periodo fu anche mio responsabile di gruppo. Per me era sempre perfetto e quando lo nominarono responsabile di capitolo, ebbi grosse difficoltà ad accettare il nuovo responsabile di gruppo che, secondo me, non avrebbe mai potuto essere alla sua altezza. Il vero colpo arrivò quando Francesco andò a vivere con Elisabetta. Ma quando, poco dopo, cominciarono ad avere grossi problemi e si lasciarono, questo incrinò l’immagine perfetta che mi ero costruito di mio fratello.
ELISABETTA: Io adesso non faccio “formalmente” parte della famiglia perché con Francesco ci siamo lasciati da diverso tempo, però ho “gravitato” intorno a tutta la situazione. La mia orbita è iniziata nel ’99 quando frequentavo Grazia come responsabile di settore, poi come amica, e infine nel 2000 quando conobbi Francesco a un corso a Trets e ci mettemmo insieme. La difficoltà fu che quando ci lasciammo io ero incinta.
Redazione: Come avete reagito di fronte a questa situazione?
GRAZIA: Io ho recitato profondamente perché quel nipotino (che oggi è qui) fosse assolutamente felice, comunque fosse finita la storia fra loro.
ELISABETTA: Ci siamo sostenuti reciprocamente, anche facendo Daimoku insieme.
Redazione: C’è qualche momento in cui il fatto di praticare tutti è stato particolarmente significativo?
MARIA: La mamma è stata determinante per farci stare uniti fino alla sua morte, avvenuta tre anni fa. Allora emersero difficoltà e incomprensioni, i nodi irrisolti dei rapporti tra me e mia sorella vennero al pettine uno dopo l’altro. Dalle premesse, la scomparsa di nostra madre sarebbe potuta diventare l’evento che ci avrebbe allontanate e invece… fu l’occasione per un riavvicinamento.
FRANCESCO: Ci siamo detti molte cose, alcune non proprio piacevoli.
GRAZIA: In quella circostanza è cambiato ulteriormente il mio modo di praticare. Uscì molto rancore fra di noi: capii che il rancore non è un sentimento verso gli altri ma verso se stessi. Un esempio chiaro del mio stato d’animo esplose una mattina, mentre mi trovavo nel ripostiglio a pulire le scarpe di tutti: mi chiesi perché questo compito dovesse toccare sempre a me. Mi resi conto che non era scritto da nessuna parte, ognuno poteva benissimo farlo da solo.
MARIA: Tornando a nostra madre posso dire, a nome di tutti, che con la sua morte ci ha lasciato una grossa eredità: ci ha trasmesso la forza e il coraggio di accettarci, così come siamo.
Redazione: Che sensazione si prova a sapere che tutti sotto lo stesso tetto recitano Gongyo e Daimoku?
ANDREA: Oggi posso dire di avere una grande fortuna ad avere vicino a me una famiglia come questa.
CLAUDIO: Prima di praticare ero il tipo di persona che faceva un percorso mentale su ogni cosa, e lo esternava soltanto con un “mah” finale. Praticando il Buddismo ho imparato a trasformare quel “mah” in qualcosa di positivo, tipo: “va bene”. Me lo hanno fatto notare loro.
MARIA: Si impara a guardare la realtà per quella che è, ognuno ha i suoi tempi, le sue caratteristiche; è utile e bello così com’è.
FRANCESCO: Dopo dieci anni di pratica, ho capito di non aver capito niente. Nella SGI l’occasione di avere una responsabilità mi ha permesso di imparare ad assumermi la responsabilità anche nella mia vita e la mia famiglia mi ha fatto approfondire il principio di “diversi corpi, stessa mente” (itai doshin).
CLAUDIO: Io e mia moglie stiamo insieme da quando lei aveva diciassette anni e io ventuno. Oggi ne abbiamo più di sessanta a testa. C’è stato un momento in cui eravamo sul punto di interrompere la nostra relazione. Nel ’99 durante un corso a Trets ricevetti un consiglio sulla fede su questo problema e fui incoraggiato a recitare per la sua felicità. La cosa stupefacente fu che provavo gioia a farlo, qualunque fosse stato l’esito di quella preghiera. E le cose cambiarono.
ALBERTO: Come convivente di Maria non frequento da molto tempo questa famiglia e quindi non ho vissuto la fase delle macerie di cui parlavano prima. Posso solo dire che qui ho trovato una bella unità, entrare a far parte di questo gruppo familiare è una sensazione molto bella, ho imparato a ricevere e dare affetto. Mi sembra di aver conosciuto meglio il senso della famiglia proprio grazie a loro.
ANDREA: Aggiungo solo che ringrazio profondamente il presidente Ikeda, per lo sforzo che ha fatto di far progredire la Soka Gakkai in tutto il mondo e di far conoscere il Buddismo. Lo ha fatto credendo nei propri sogni e portando avanti il desiderio di far conoscere il Gohonzon, a dispetto delle difficoltà che ha incontrato. Senza questo impegno, oggi, noi non saremmo qui.
GRAZIA E ALTRI: Jacopo vuoi dire qualcosa? (Jacopo è il bambino di Francesco e Elisabetta). Secondo me Jacopo è un bambino felice…
JACOPO: Questa famiglia mi sembra molto contenta e molto bella. Questa è una famiglia gentile… (le due cose sono state dette sottovoce in via privata… ma Jacopo ci autorizza a pubblicarle lo stesso).