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Quello che la vita ti mette di fronte - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 09:29

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Quello che la vita ti mette di fronte

Chiunque reciti Nam-myoho-renge-kyo nutrendo il desiderio della felicità di tutte le persone è uno dei Bodhisattva della Terra. Nella rete della vita ognuno di noi ha una funzione unica e preziosa, che nessun altro può svolgere

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Chiunque reciti Nam-myoho-renge-kyo nutrendo il desiderio della felicità di tutte le persone è uno dei Bodhisattva della Terra. Nella rete della vita ognuno di noi ha una funzione unica e preziosa, che nessun altro può svolgere

Proviamo a parlare di concetti non proprio semplici, di Bodhisattva della Terra e della loro cosiddetta “missione”. Concetti che di norma non si intuiscono al volo dato che, come vedremo, hanno a che fare con il significato stesso dell’esistenza ma che, proprio per questo, forse meritano davvero di essere approfonditi. Chi siano i Bodhisattva della Terra si trova nel quindicesimo capitolo del Sutra del Loto, che nella sua tipica maniera, poetica e grandiosa, descrive l’apparizione di questi esseri aurei e splendenti, che emergono dal vuoto e sembrano “spuntare” dalla terra per partecipare alla Cerimonia dell’Aria, in una schiera di dimensioni incalcolabili, guidando chi “un milione di miriadi di seguaci”, chi “una miriade di seguaci”, chi “tre, due o un solo discepolo” e anche “quelli che vennero da soli”. E il loro numero aumenta… aumenta… aumenta a dismisura, pari ai granelli di sabbia di innumerevoli fiumi Gange: tutti ricercano unanimi la via del Budda.
Gli altri bodhisattva che già erano presenti sono perplessi davanti alla moltitudine di nuovi arrivati e uno di loro, Maitreya, interroga il Budda Shakyamuni chiedendogli, (in forma molto più estesa e poetica ovviamente): «Chi sono tutti questi bodhisattva, da dove vengono, chi li ha istruiti e convertiti, quale Legge praticano?» Shakyamuni risponde che questi suoi discepoli sono stati da lui istruiti fin dall’infinito passato, ma a quel punto i dubbi e la confusione di Maitreya aumentano più che mai. Tanto che occorre un intero capitolo per rispondere alla sua domanda, il sedicesimo, di cui leggiamo ogni giorno in Gongyo la parte in versi, che si intitola appunto Durata della vita del Tahatagata, ovvero del Budda e che spiega la visione buddista del tempo e dell’eternità.
La domanda di Maitreya è importante anche per chi pratica oggi il Buddismo di Nichiren, visto che Nichiren formula un’equazione molto chiara: chi recita Nam-myoho-renge-kyo è un Bodhisattva della Terra e letteralmente dice: «Se hai la stessa mente di Nichiren [o cuore, atteggiamento, spirito, fede secondo le traduzioni più recenti] devi essere un Bodhisattva della Terra». E aggiunge: «Non possono esserci discriminazioni fra coloro che propagano i cinque caratteri di Myoho-renge-kyo nell’Ultimo giorno della Legge, siano essi uomini o donne: se non fossero Bodhisattva della Terra non potrebbero recitare il Daimoku» (SND, 4, 233).
Dunque, se recito Nam-myoho-renge-kyo sono un Bodhisattva della Terra. Allora cosa ho di speciale? Secondo il Sutra del Loto, a differenza dei bodhisattva precedenti questi ultimi arrivati non hanno condotto pratiche ascetiche per lunghissimi eoni, né meditazioni particolari. Ma proprio come nei film di James Bond o di Tom Cruise, come Mata Hari o Nikita (diversi per sesso e per età), proprio a loro Shakyamuni affida la precisa “missione” di propagare il Sutra del Loto, cioè salvare dall’infelicità tutti coloro che vivono nell’epoca di conflitti chiamata Ultimo giorno della Legge e che, in breve, è proprio l’epoca in cui viviamo adesso. E come il mitico James Bond, loro sono pronti ad andare fino in fondo, a qualunque costo. A differenza dei bodhisattva precedenti. Non tanto perché sono più bravi o più decisi, ma intanto perché è giunto il loro tempo, mentre quello dei bodhisattva precedenti è terminato, e poi perché hanno scelto di fare questo giuramento fin dal tempo senza inizio (in giapponese kuon ganjo).
Parlare di tempo senza inizio, di schiere incalcolabili e di cifre che fanno girare la testa, magari può sembrare molto astruso. Ma Nichiren, negli Insegnamenti orali, sintetizza così: «Kuon è Nam-myoho-renge-kyo». Altrove kuon è definito “il momento dell’origine della vita” e in sostanza tutto il Buddismo insegna il modo di vivere basato su kuon ganjo, sul tempo senza inizio. Un tempo che non ha inizio, se ci si pensa bene, è un eterno presente, e infatti corrisponde al principio “da ora in avanti” che è scritto anche sulla pergamena del Gohonzon. Dunque Nichiren insegna a vivere su due livelli, quello originale e quello temporaneo, ritornare al momento originale della vita per affrontare la realtà quotidiana con spirito fresco e rivolto al futuro. E questo non è affatto astruso. Nel concreto significa “semplicemente” ritornare a recitare Gongyo e Daimoku, rimettersi in contatto con la parte più profonda di sé per inquadrare quello che stiamo vivendo nella giusta prospettiva (saggezza) e ritrovare l’energia che serve (coraggio e forza) per portare avanti quella missione non da poco di salvare il genere umano dall’infelicità. A partire da noi. Da un sogno o da un problema. Da un genitore assente o viceversa troppo presente, da un compagno o una compagna che ancora dobbiamo incontrare o che avremmo preferito non incontrare, da un figlio che è motivo di preoccupazioni reali o che invece suscita in noi paure che sono solo nostre. E ancora: a partire da un compagno di fede che non riusciamo a apprezzare, magari perché fa da specchio a una nostra debolezza, da un lavoro che ci complica la vita, da una malattia che ci frena, da una mancanza di sicurezza – economica o sociale – che ci avvelena l’esistenza. E l’elenco potrebbe continuare, lungo almeno quanto le descrizioni del sutra.
Eppure, lo sforzo creativo per risolvere queste situazioni concrete e problematiche, insieme alla loro effettiva soluzione, è proprio quella “missione” che abbiamo accettato da sempre di realizzare. La “missione” era unica per tutti i Bodhisattva, salvare il genere umano dall’infelicità. Ma come ogni Bodhisattva della Terra, tutti con pari dignità, nella descrizione fatta dal sutra aveva un numero diverso di seguaci (chi “una miriade” “chi due o uno” chi era “da solo”) e compiti diversi da portare a termine, così ogni persona che pratica oggi, pur non avendo uno status diverso dagli altri, ha un suo compito preciso, che in sostanza è rappresentato da quello che la vita gli mette di fronte. O che le cause karmiche gli mettono di fronte. O che si è scelto di trovarsi di fronte. E che magari è l’elenco completo dei problemi che abbiamo fatto prima, non solo uno o due, ma proprio tutti quanti gli articoli compresi nel listino. O magari è invece mostrare la strada della rivoluzione umana a un numero impressionante di persone, come nel caso di John Marzullo, un responsabile californiano intervistato di recente sulla rivista Buddismo e Società, il quale fino ad oggi ha fatto iniziare a praticare trecentocinquanta persone. E se con gli occhi della mente – provare per credere – si cercano di immaginare trecentocinquanta individui in carne e ossa, trecentocinquanta tutti in fila uno accanto all’altro, questo numero finito sembra proprio l’indefinita “milione di miriade di seguaci” dei versi del Sutra del Loto.
Il Buddismo insegna che la vita è eterna, che chi recita Nam-myoho-renge-kyo ha giurato di rendersi responsabile della felicità del genere umano. Ma non basta leggerlo con gli occhi nel testo del sutra, né tantomeno sentirselo ripetere. Fare in modo che la Cerimonia dell’Aria sia un’esperienza vissuta e non una metafora è il nocciolo di quella missione così difficile e meravigliosa che ci siamo assunti, ovvero sconfiggere i limiti del proprio io interiore per toccare il cuore di quante più persone possibile.
Nei momenti di sconforto, che colpiscono anche i migliori Bodhisattva, può accadere di pensare che forse, tutto sommato, sarebbe stato più facile avere una missione come quella di James Bond e limitarsi a fermare un po’ di cattivoni, invece che vivere tutta la vita fedeli a se stessi, raffinando la propria umanità e cercando di comprendere non solo con la testa ma anche col cuore, i nervi, i muscoli, le ossa e le viscere il principio dell’eternità dell’esistenza. Invece che con i “cattivoni”, noi abbiamo a che fare col Demone del sesto cielo, avversario molto più temibile dato che ce lo portiamo dentro. Eppure, la forza a cui possiamo attingere è grande quanto l’universo, e la pratica di Gongyo, mattina e sera, è appunto un’immersione della vita individuale nel macrocosmo dell’universo. Sono solo espressioni poetiche? No. Chiunque, anche se non ne percepisce tutta quanta la potenza, prova gli effetti a breve termine di una immersione ripetuta, cioè di una pratica corretta così come insegnata da Nichiren.
«Tutti noi siamo figli del Budda originale, non c’è nessuno che non abbia la sua missione, non c’è membro della Soka Gakkai che non sia un Bodhisattva della Terra» scrive il presidente Ikeda senza mezzi termini. Chiunque può manifestare la propria identità di Budda con la fede e divenire consapevole della propria missione, per trasformare al tempo stesso la consapevolezza in azione. Quando si parla di risvegliarsi alla propria missione, di ricordare il giuramento fatto in origine, si parla ancora una volta di manifestare la Buddità, si parla in sostanza di assumere la decisione profonda di diventare felici, secondo quella che per il Buddismo è la felicità, cioè sviluppare lo stato del Budda. Una felicità che passa, lo ripetiamo, attraverso la risoluzione di quei problemi dell’elenco fatto prima e attraverso la volontà personale di costruire un’epoca di pace insieme al maestro che ci siamo scelti.
Rivolgendosi ai giovani, sempre il presidente Ikeda dice testualmente: «Ognuno di voi ha una missione particolare da realizzare: se non aveste avuto una missione precisa da adempiere non sareste mai nati». E per chiarire meglio porta l’esempio di quello che vediamo intorno nel mondo naturale: montagne alte e montagne basse, vulcani e picchi innevati, torrenti vivaci e fiumi immensi come il Rio delle Amazzoni. Ognuno possiede la propria particolare bellezza, proprio come le persone. E quando uno dei giovani gli chiede come fare a scoprire la propria missione Ikeda risponde: «Non lo scoprirete certo restando con le mani in mano. Vi dovete sfidare in qualcosa, non importa cosa. Continuando a sfidarvi costantemente, la direzione da prendere vi si aprirà davanti agli occhi in modo molto naturale. È importante che abbiate il coraggio di chiedervi sempre qual è la cosa più giusta da fare, momento dopo momento. In altri termini, la soluzione è proprio scalare quella montagna che vedete lì, davanti a voi… Recitare Daimoku vi permette di avere la forza vitale per riuscirvi. Una volta raggiunta la sommità nuovi e più ampi orizzonti vi si apriranno davanti. A poco a poco comprenderete la vostra missione. Le persone consapevoli di avere una missione da realizzare sono forti e qualunque problema possono avere non vengono mai sconfitte. Possono trasformare tutti i loro problemi in un futuro pieno di speranza… Vivere è come scalare una montagna dietro l’altra» (Protagonisti, 1, 9).
Avere una missione, un compito da svolgere forse racchiude proprio il senso più singolare e profondo dell’esistenza umana, una forma di esistenza cioè che sia diversa dal lasciarsi vivere degli animali, un compito che non sia solo la semplice riproduzione della specie. E dunque, per certi versi, usare creativamente il proprio tempo. Nichiren ci ha insegnato l’emozione di vivere l’adesso, di ogni attimo in cui è racchiusa l’eternità. Una frase molto bella di uno scrittore francese, Romain Rolland, dice: «Vivi nel presente. Riverisci ciascun giorno. Amalo, rispettalo…».
Ma c’è un modo più creativo di usare il proprio tempo che non sia quello di adoperarsi per gli altri? No, almeno non per i Bodhisattva della Terra, che mettono in atto il desiderio del Budda che tutti siano felici, o neanche per Josei Toda che, all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale, aveva giurato di eliminare la disperazione dalla faccia della terra, dando nuova vita a quel grande movimento di persone che è la Soka Gakkai. E che diceva: mi sembra ieri il tempo in cui vivevamo in quel mondo puro e piacevole… Come abbiamo potuto dimenticare il giuramento che pronunciammo insieme nell’assemblea del Sutra del Loto?
Secondo Ikeda «Josei Toda poteva ricordare come fosse ieri il tempo di kuon ganjo; ma se noi ci risvegliamo a kuon ganjo, questo mondo di saha diventerà un mondo puro, gioioso e luminoso, abitato solo da amici che vivono in armonia. La realtà però è che il nostro mondo è funestato da continue disgrazie e conflitti. Perciò noi che dimoriamo in kuon ganjo dobbiamo impegnarci nella propagazione della mistica Legge per la felicità di tutta la gente e per la pace del mondo» (I capitoli Hoben e Juryo, ed. Esperia, pag. 93).
Possiamo dubitare di avere una missione? Ovviamente, la risposta è no. Da un lato è la vita stessa che ce lo fa capire, buddisti e non, man mano che ci accadono delle cose e che si intravede il dipanarsi di un filo che lega gli avvenimenti della nostra esistenza di individui. Si può chiamarlo destino, se si vuole, o con qualche altro nome. Ma l’esperienza comune e quello che ci viene, per esempio, dalle testimonianze di chi ci ha preceduto, indicano che un filo c’è. Dall’altro, per chi ha fede nel Gohonzon, è il Budda stesso a proclamare nel sutra in modo chiaro e definitivo: «Voi, che siete dotati di saggezza, non dubitate di avere una missione! Abbandonate ogni dubbio, una volta per tutte, poiché le parole del Budda sono vere, non false» (Ibidem, 153).

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