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Quella frase impronunciabile - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 14:51

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Quella frase impronunciabile

Franca Pergolizzi, Castrovillari (CS)

Mi chiedevo come una frase così “impronunciabile” potesse cambiare la mia vita. Mi sentivo stupida, ma con mio stupore le cose iniziarono a migliorare tanto che smisi di prendere gli antidepressivi. Dopo tanto tempo non avevo più attacchi di panico, iniziavo a uscire, a relazionarmi con la gente, a lavorare, a rimettere insieme i cocci della mia vita

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Mi chiedevo come una frase così “impronunciabile” potesse cambiare la mia vita. Mi sentivo stupida, ma con mio stupore le cose iniziarono a migliorare tanto che smisi di prendere gli antidepressivi. Dopo tanto tempo non avevo più attacchi di panico, iniziavo a uscire, a relazionarmi con la gente, a lavorare, a rimettere insieme i cocci della mia vita

Com’ero prima di incontrare il Buddismo di Nichiren? Beh… non mi amavo, non mi rispettavo, anzi, mi disprezzavo profondamente, ma questo l’ho scoperto solo recitando Daimoku.
Dieci anni fa caddi in una profonda depressione. Il mio pensiero costante era come potere mettere fine a quella vita inutile e infatti ho tentato di uccidermi varie volte.
Quando mia figlia aveva dieci anni, in un momento in cui stavo dicendo addio alla vita, mi disse: «Ti prego mamma, non mi lasciare!». Quelle parole mi costrinsero a vivere, ma mi ammalai: avevo tutti i linfonodi ingrossati, la febbre e vomitavo tutto quello che mangiavo. Così iniziò il mio peregrinare in tutta Italia da uno specialista all’altro. Mi furono diagnosticate tutta una serie di patologie e tutte gravi: una volta un tumore al seno, un’altra allo stomaco, poi passarono alle varie intolleranze alimentari e a tutte le allergie possibili ma intanto peggioravo sempre di più.
Dopo tre anni scoprirono che il mio sistema immunitario era compromesso: quando mangiavo i miei anticorpi non riconoscevano il cibo come tale ma come una minaccia al mio corpo, e quindi lo attaccavano. Finalmente i miei sintomi avevano un nome: depressione cronica, ipertiroidismo, asma allergica e gastrite autoimmune, malattie dalle quali non si può guarire ma solo conviverci, anche se, senza mangiare non sarei vissuta a lungo. Dovevo solo aspettare che il mio corpo si consumasse lentamente e in quelle condizioni sono sopravvissuta per altri quattro anni.
Un giorno incontrai una cara amica che mi disse di essere diventata buddista. Le chiesi di portarmi con sé alla riunione seguente e subito iniziai a recitare Nam-myoho-renge-kyo.
Mi chiedevo come una frase così “impronunciabile” potesse cambiare la mia vita. Mi sentivo stupida, ma con mio stupore le cose iniziarono a migliorare tanto che smisi di prendere gli antidepressivi. Dopo tanto tempo non avevo più attacchi di panico, iniziavo a uscire, a relazionarmi con la gente, a lavorare, a rimettere insieme i cocci della mia vita. Ma in seguito ricominciai a stare male: mi si bloccarono gli arti, le mani si gonfiarono e non avevo più energie per muovermi.
Consultai un famoso immunologo, che mi diagnosticò una connettivite indifferenziata e un sospetto di artrite reumatoide, malattie incurabili, i cui effetti possono essere tamponati solo dai farmaci, ma non ero in grado di assumerli perché il mio stomaco rifiutava tutto. Questa volta la prospettiva era quella di diventare un vegetale, paralizzata in un letto.
Ma invece di abbattermi, intensificai il Daimoku e nel 2007 ricevetti il Gohonzon. In quell’occasione incontrai una ragazza con la mia stessa malattia che mi parlò di una cura biologica che facevano in un ospedale a Roma, e mi dette il nome del suo medico. Ero felicissima, avevo una nuova speranza, una nuova cura, ma invece di approfondire la mia fede smisi di recitare Nam-myoho-renge-kyo e ricaddi in depressione. Fortunatamente il mio responsabile fece di tutto per farmi riprendere a praticare e a frequentare il gruppo, che nel frattempo si era arricchito di nuove persone. Legai molto con la mia responsabile e con il suo sostegno iniziai davvero la mia rivoluzione umana. Lavorando su me stessa compresi che la causa delle malattie era solo mia e risiedeva nel sentimento di profonda sfiducia e di disamore verso la mia vita. Iniziai prima di tutto ad amarmi e a rispettarmi come persona, vincendo su quel “piccolo io” che mi aveva rovinato tutta l’esistenza: volevo diventare una donna di infinito valore. Concentrai le mie preghiere e le mie azioni cercando di migliorare tutti gli aspetti della mia vita: ho messo in discussione la mia relazione sentimentale, perché priva di rispetto, quella lavorativa perché mancava il riconoscimento del mio valore, il rapporto con la famiglia d’origine, perché provavo rancore verso mia madre e mio fratello. Avevo capito che mi ero ammalata perché non avevo avuto il coraggio di affrontare queste cose, mi servivo di una corazza dietro a cui rifugiarmi e ispirare pietà, visto che non riuscivo a farmi amare.
Per realizzare i miei obiettivi fissai come data il 16 marzo, giorno di kosen-rufu: ricominciare a mangiare e partire per l’ospedale di Roma, dove avrei iniziato la cura biologica per la connettivite. Intanto portavo avanti lo studio del Buddismo e lo shakubuku. Agli inizi di marzo avevo sviluppato una determinazione fortissima, ero una leonessa, avrei abbattuto qualunque ostacolo, tanto è che in quel periodo una volta decisi di recitare Daimoku tutta la notte e tutta la mattina. Dentro di me cambiò qualcosa e uscii dalla stanza dicendo a mia figlia: «Oggi la mamma mangia!». Dopo dieci anni ho apparecchiato anche per me, mi sono seduta e ho iniziato a mangiare.
Intanto il 16 marzo era arrivato e io non ero ancora partita per Roma. Decisi di passare un’altra notte recitando Daimoku davanti al Gohonzon, con tanta fede e soprattutto con il cuore; la mattina preparai la valigia e richiamai l’ospedale sicura di partire. E così fu. Il 19 marzo fui ricoverata in ospedale, dove mi vennero riconfermate le malattie diagnosticate in precedenza e mi fu detto di ritornare a gennaio, per fare altri accertamenti. Ma io non volevo questo, ero andata lì per fare tutti gli esami e adesso non volevo più la cura giusta per la connettivite, ma la guarigione. Volevo provare a me stessa e agli altri che davvero l’impossibile può diventare possibile.
Mi incoraggiava una frase del Gosho Il tamburo alla Porta del Tuono: «Una donna che abbraccia il re leone del Sutra del Loto, non deve temere le belve dell’Inferno, del regno degli spiriti affamati e degli animali. Tutte le colpe commesse da una donna nella sua vita sono come erba secca; […]. Quando si accosta una fiammella a una distesa d’erba, non solo tutta l’erba, ma anche grandi alberi e grandi pietre saranno consumate dalle fiamme» (RSND, 1, 843).
Passai altre notti a recitare Daimoku, e ogni mattina, con sorpresa degli infermieri, andavo a fare gli esami che avrei dovuto fare a gennaio. Misteriosamente si liberava sempre un posto, così rimasi in ospedale venti giorni facendo tutte le analisi necessarie. Alla fine mi riconfermarono la gastrite autoimmune con necrosi di metà dello stomaco, che nel frattempo si era ridotto di volume, mentre l’altra metà era priva di succhi gastrici e di conseguenza potevo ingerire solo liquidi. Alla mia domanda: «Dottore, se mangio un pezzo di pizza che succede?», mi rispose che sarebbe rimasto a vita nello stomaco. Beh, oggi la pizza la mangio eccome, e la digerisco!
Il giorno prima delle dimissioni mi rifecero tutti gli esami perché secondo il primario c’era qualcosa di insolito, infatti l’indomani mi comunicò con mia grande gioia che la connettivite non c’era più.
La verità è che noi abbiamo un’arma molto potente in grado di trasformare l’impossibile in possibile. Quest’arma è la nostra profonda fede, è quella frase che all’inizio per me era “impronunciabile” e che ha fatto di me una persona nuova, sconfiggendo le sue malattie, rafforzandosi e volendosi bene e di conseguenza riuscendo a cambiare tutto quello che la circonda. Non ho più muri o barriere, li ho abbattuti con la forza del Daimoku, non mi nascondo più, affronto le mie paure e sono felice perché amo me stessa e finalmente posso dire: «Che bello è vivere!».

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