Il terremoto di magnitudo 8,8 che ha devastato il Cile il 27 febbraio è stato vissuto anche da alcuni membri italiani. Clara Salina, trasferita a Santiago del Cile da quattro anni e collaboratrice della rivista buddista Fortuna de Chile, racconta quei drammatici momenti
Santiago del Cile, 9 marzo. Quando il terremoto ha scosso il Cile, non avendo nessuna esperienza precedente, non ne ho capito la gravità. Alejandro, il mio compagno, che sapeva bene di cosa si trattasse, mi ha svegliata e mi ha detto: «Questa volta è forte!». È uscito dalla stanza pensando che l’avrei seguito. Invece io, mezza addormentata, vedendo l’enorme tv piatta che aveva appena comprato e alla quale tiene tanto, mi sono fermata a sorreggerla. Poi l’intensità è aumentata. A quel punto era impossibile muoversi, facevo Daimoku e non avevo paura. Alla fine della scossa di oltre due minuti Alejandro è tornato e mi ha detto di avermi chiamato tanto perché lo raggiungessi. Dovevamo andarcene, mi sono messa addosso qualcosa, ho arrotolato il Gohonzon e siamo usciti.
Siamo scesi per strada, le notizie erano già drammatiche. Nel tragitto verso la casa dei suoi genitori novantenni, ho cominciato a chiamare amici e membri, alcuni mi hanno risposto e stavano bene. Come i miei suoceri che erano solo molto spaventati. Tornati a casa abbiamo potuto valutare i danni: alcune piccole crepe nei muri, un busto di Schiller che ci piaceva tanto rotto, ma neppure un bicchiere frantumato. Incredibile: un appartamento antisismico e ben calcolato! Abbiamo fatto Gongyo, per ricominciare la giornata.
La Soka Gakkai cilena si è messa immediatamente in contatto con tutti i membri, e si è saputo prestissimo che, anche se alcuni hanno subìto grossi danni, stavano tutti bene. Si è attivata una rete intensa di scambi di informazioni e anche di visite ovunque fosse possibile. Il direttore della Soka Gakkai cilena, Fumio Imai, ha invitato i membri del nord a riunirsi per recitare Daimoku per il resto del paese. Anche se le attività ufficiali sono state sospese, molti settori si sono organizzati per recitare insieme.
Noi del Fortuna de Chile, periodico della Soka Gakkai, ci siamo attivati per poter aggiungere un messaggio di incoraggiamento del direttore a tutti i membri.
Santiago è una città strutturalmente forte, i cileni convivono psicologicamente con il terremoto ma non si può dire che non lo temano. Pur in mezzo a ovvie polemiche e ritardi tutto si è subito rimesso in moto e già dopo pochi giorni nella capitale c’erano le normali code dell’ora di punta.
Purtroppo non si può dire lo stesso per il sud dove la sola parola che è possibile utilizzare è catastrofe, umana e materiale. Cosimo Rossiello che vive per lavoro a Conception e con il quale sono riuscita a parlare solo il giorno dopo molto tardi, mi ha scritto: «La terra tremava forte forte (anche in questo momento trema). Non ho mai pensato di morire. Ho invece pensato alla vita, alla vita dei miei colleghi, delle persone che a frotte venivano verso la collina per timore dello tsunami e alla vita dei miei compagni di fede. Poi ho pensato ai miei familiari in Italia, a come avrebbero appreso la notizia e a quale preoccupazione avrebbero avuto. Ho raccolto tre colleghi in difficoltá e li ho portati a casa mia, perché si sentissero al sicuro per quanto possibile, comunque non soli. Questo mi ha dato tanta forza. Ho con loro condiviso le emozioni, i cuori si sono aperti e l’uno proteggeva l’altro».
Clara Salina
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La vita mantiene il proprio valore
Per la prima volta si sono dati appuntamento a Firenze tutti i gruppi che promuovono iniziative negli istituti di pena
«Far emergere il sole nella nostra vita: questa è la chiave per sbloccare qualunque momento difficile»: così Andrea Bottai ha introdotto il primo incontro nazionale di scambio tra i gruppi buddisti che fanno attività in carcere, tenutosi al Centro culturale di Firenze domenica 28 febbraio.
Già, facile a dirsi, ma come mettere in pratica queste parole quando la sofferenza oscura qualunque percezione, non si vede via d’uscita, e si sente dentro un dolore vasto e profondo, e che parla magari dell’irreparabilità di un gesto senza ritorno?
È stata una giornata intensa e molto emozionante, a tu per tu con il carcere e con un vissuto raccontato soprattutto attraverso le parole di detenuti ed ex detenuti: «Un mondo di Inferno, Avidità e Animalità, fatto di violenza, depravazioni e sopraffazioni». Un mondo di chi poi, dopo aver incontrato Nam-myoho-renge-kyo, rovistando tra le macerie, inizia a trovare un barlume di speranza. Fino a sentire che il desiderio di diventare una persona onesta non è più il punto di arrivo, ma un punto di partenza, ovvero la condizione base da cui partire per costruire una nuova vita.
Sono queste le parole di detenuti dei carceri di Torino, Voghera, Milano, Firenze, Fossombrone, Roma, Brescia, Bologna, quei detenuti cioè di carceri in cui l’attività buddista si è inserita, incontrando in alcuni casi una certa rigidità e in altri invece, anche quando si tratti di un carcere di Alta Sorveglianza (cioè specifico per reati di criminalità organizzata, mafia, ‘ndrangheta, camorra, spaccio di stupefacenti ad alto livello), l’apertura di un direttore che, seppure non praticante, al primo incontro già affermava: «Sono molto curioso, ci credo, e penso che andrà bene!».
Lo shakubuku in carcere è fondamentale, anche per chi vi lavora – dicono gli addetti del settore. Al punto che, in quegli Istituti di pena in cui è stata predisposta una saletta appositamente dedicata alla preghiera, c’è persino chi rinuncia all’ora d’aria per l’ora di Daimoku.
Ma cosa vuol dire fare la propria rivoluzione umana restando in carcere?
Si raccontano i benefici più evidenti, come riuscire a dormire, smettere di usare psicofarmaci, migliorare le relazioni con i propri compagni di cella e con le guardie, ricevere lettere da una famiglia che non li contattava da anni. Fino ad arrivare ai benefici meno visibili, ma molto più importanti.
Invece che «guardare attraverso occhi di arroganza e giustificarmi dicendomi che la vita era stata ingiusta con me, ho iniziato a prendere in mano le mie responsabilità, decidendo istante per istante di amare, di sognare, e soprattutto di guardare il mondo con occhi diversi».
Sì, è vero, l’approccio alla vita è mutato – dicono i detenuti – come muta la pelle di un serpente.
«Solo ora, in carcere, sono diventata profondamente libera, perché ho finalmente imparato a nutrire la mia anima e ad amare me stessa». «Ho voglia di vivere la vita, adesso, sotto qualunque forma essa si presenti». «Ho imparato a lottare per creare valore ogni giorno».
Sentono che la Soka Gakkai è una meravigliosa famiglia, e che loro non sono più soltanto un numero di matricola, delinquenti qualsiasi che affollano le patrie galere, ma esseri umani: «Anche io sono un membro della Soka Gakkai, vero?» chiede un ergastolano del carcere di Opera, dopo aver ricevuto l’omamori Gohonzon.
A chi non crede di poter meritare di più, a chi è schiacciato dal senso di colpa e dal tormento e non osa porsi alcun traguardo, la pratica buddista ha dato la consapevolezza «che si può sempre cambiare il corso della propria esistenza».
Già, e questo vale anche per chi vive dall’altra parte della barricata, vero? Per chi in carcere non è? E magari è stato pure vittima di un reato?
La Costituzione italiana, all’art. 2, “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”: giustizia è dunque riconoscimento dell’altro nella sua dignità; e chi compie un reato non decade in dignità umana. Del resto, è scritto anche nel Sutra del Loto che “la vita non perde di valore”, a prescindere dalle azioni commesse. Non esclusione sociale, dunque, ma integrazione sociale. Come pure afferma Ikeda: «Se una persona è affamata, dovremmo darle del pane. Quando non c’è pane, potremmo almeno offrirle parole che rinfrancano. Con una persona che pare fragile o malata possiamo parlare di qualche argomento che le sollevi il morale, infondendo in lei speranza e determinazione di guarire. Diamo qualcosa a ogni individuo che incontriamo: gioia, coraggio, speranza, fiducia, filosofia, saggezza, prospettiva per il futuro. Diamo sempre qualcosa» (D. Ikeda, Giorno per giorno, Esperia, 25 dicembre).
Wilma Massucco
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Salerno. Donne e giovani donne della Campania in fermento il 27 e 28 febbraio. Per trasmettere e confrontarsi sui recenti incoraggiamenti del presidente Ikeda, si sono incontrate tutte le responsabili con l’obiettivo di rilanciare con gioia l’impegno nelle riunioni di discussione, costruire un autentico dialogo con il maestro, chiave per sperimentare totalmente il potere del Gohonzon nella propria vita.
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Verso l’ottantesimo anniversario della fondazione della Soka Gakkai / 4
Uno sviluppo fenomenale
1947-1960: tredici anni fondamentali al termine dei quali il secondo presidente della Soka Gakkai, Josei Toda, passa il testimone al suo giovane discepolo Daisaku Ikeda
Il 24 agosto 1947, a una riunione di discussione, Toda conobbe Daisaku Ikeda, allora diciannovenne, che partecipava per la prima volta a una riunione buddista: da quel momento il giovane rimase sempre al suo fianco, pronto a realizzare i desideri del maestro.
Nei dieci anni che seguirono, l’organizzazione ebbe una grande espansione. Il 3 maggio 1951 Toda divenne il secondo presidente della Soka Gakkai, e decise di convertire 750.000 famiglie prima della sua morte. Dedicò il resto della vita al raggiungimento di questo obiettivo: nel 1957 alla Soka Gakkai avevano aderito 765.000 famiglie. In quello stesso anno, in piena Guerra Fredda, durante una riunione con migliaia di giovani, Toda pronunciò una storica dichiarazione contro le armi nucleari, contro la «creazione di questo assurdo e mostruoso strumento di morte» (cfr. DuemilaUno, n. 50, pag. 35). Da allora le iniziative per la pace avrebbero costituito una delle attività principali della Soka Gakkai.
Poco tempo dopo Toda morì, il 2 aprile 1958. Il 3 maggio 1960 Daisaku Ikeda diventerà il terzo presidente della Soka Gakkai, a soli trentadue anni. Sotto la sua guida il movimento per la pace della Soka Gakkai si espanderà sempre di più, spingendosi oltre i confini del Giappone.
(tratto da Buddismo e Società, n. 116, pag. 42)