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Qualcosa da dirci - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 10:26

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Qualcosa da dirci

Fabiola Camuti, Roma

Una volta messi da parte orgoglio e rabbia che tenevano distanti madre e figlia, sono emersi sentimenti di rispetto e gratitudine. Insieme all’agognata indipendenza, arrivata per tutt’e due

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Una volta messi da parte orgoglio e rabbia che tenevano distanti madre e figlia, sono emersi sentimenti di rispetto e gratitudine. Insieme all’agognata indipendenza, arrivata per tutt’e due

Ho iniziato a recitare Daimoku otto anni fa, prima di partecipare alle riunioni, in linea con ciò che mi era stato insegnato dalla mia mamma: fai da sola, non hai bisogno di nessuno e soprattutto… non chiedere!
Non avevo cose particolari da risolvere, o per lo meno così pensavo, fino a quando la pratica buddista mi ha messo davanti alla meravigliosa e temibile opportunità di guardare dentro me stessa, ascoltare i miei bisogni e decidere liberamente se voler affrontare o meno la mia vita indipendentemente da quella che ero. Nessuno mi aveva insegnato che io sono un Budda e come tale “perfettamente dotata”.
Ho fatto esperienze meravigliose cercando di mettere ogni giorno in pratica questo insegnamento, a volte con fatica, attraverso le parole del Gosho: «Quelli che credono nel Sutra del Loto sono come l’inverno che si trasforma sempre in primavera. Non si è mai visto né udito, sin dai tempi antichi, di un inverno che si sia trasformato in autunno» (RSND, 1, 477).
Ho capito che chiedere aiuto è un segno di forza e non di debolezza, così l’ho fatto con i miei compagni di fede, i quali mi hanno sempre sostenuta. Per quella bambina abituata a non chiedere è stata una grande rivoluzione.
Ho due genitori che mi amano e una sorella adorabile, con la quale ho condiviso diciotto anni di vita, prima di andar via dalla Sicilia per trasferirmi a Roma, ma più recitavo Daimoku più mi accorgevo di una sofferenza radicata che spesso non mi permetteva di godere delle mie vittorie: la relazione con mia madre.
Era lei che, nel tentativo di rendermi forte e indipendente, mi aveva insegnato inconsciamente che aver bisogno degli altri è sinonimo di debolezza, creando in me una dipendenza nei suoi confronti, e io non volevo, in nessun modo, deluderla.
E così è iniziato il mio viaggio, fatto di Daimoku e di azioni concrete, concentrato sul mio modo di relazionarmi e dialogare con lei. E quindi: «Mamma, sono buddista!». Questa, per lei, è stata la prima delusione. E poi: «Mamma ricordi quell’esaurimento nervoso a tredici anni? Ha cambiato forma ma è ancora qui. Soffro di attacchi di panico, ma non preoccuparti, me ne sto prendendo cura con la mia terapeuta». Risposta: «Ma non ti serve una terapeuta. Tu non sei mica malata!». E ancora: «Mamma, mi sono innamorata di una donna». Una tragedia, vissuta nello stile di mia madre, senza strepiti o litigate furenti, bensì un lunghissimo silenzio, durato tre mesi.
Un giorno mi ha detto: «Quando deciderai di vivere la tua vita come si deve, io e te avremo qualcosa da dirci!». Se fino a quel momento avevo fatto tutto per renderla fiera di me, le sue parole furono come un pugno in pieno viso; tuttavia avevo strumenti molto più potenti della mia mente: il Daimoku e il Gohonzon.
Ho messo da parte l’orgoglio, la rabbia e ho portato avanti la gratitudine e il rispetto, parlandole delle mie esperienze, regalandole libri e frasi del presidente Ikeda.
Fino a quando, due anni fa, accade l’inaspettato: mia mamma perse il lavoro.
Dopo oltre trent’anni si è ritrovata disoccupata, e insieme sono crollate le sue certezze e la sua indipendenza economica. Mi si è presentata una donna spaventata dal rischio di fallimento, impaurita e frustrata per se stessa e per noi figlie; mi rivedevo in lei e pensavo che in fondo non siamo poi così diverse.
Decido di incoraggiarla ogni giorno, di sostenerla tornando più spesso in Sicilia, anche solo per farle sentire che io per lei ci sono sempre stata e per dirle: recito Daimoku anche per te. Immediatamente i primi benefici: vinco il dottorato di ricerca con relativa borsa di studio, per cui non gravo più sul bilancio familiare.
Questa era la risposta al mio desiderio di volerla finalmente “ritrovare”.
Dopo poco, mia mamma, decide di prendere un’iniziativa e si inventa dal nulla un’attività, realizzando il suo più grande desiderio: mettersi in proprio. E non scorderò mai la sua soddisfazione nel dirmi che aveva guadagnato più di papà. Ha conosciuto la mia compagna, abbiamo nuovamente affrontato l’argomento ma questa volta con serenità, ridendo e scherzando.
Ha conosciuto i miei compagni di fede e ora è felice per me perché “ho trovato veramente una famiglia”, e sono io, oggi, a poterle finalmente dire: «Mamma, sono fiera di te!».

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