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Perché il mondo non mi fa felice? - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 13:48

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Perché il mondo non mi fa felice?

Sotto sotto ciò che ci fa soffrire in ogni situazione è il senso di impotenza a cambiare una dolorosa circostanza che dipende sempre da “quelli là fuori”. Nel suo percorso personale Matilda Buck offre una chiave per trasformare e guarire ferite nuove e antiche, per non permettere al dolore e alle illusioni di paralizzare la nostra vita

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Sotto sotto ciò che ci fa soffrire in ogni situazione è il senso di impotenza a cambiare una dolorosa circostanza che dipende sempre da “quelli là fuori”. Nel suo percorso personale Matilda Buck offre una chiave per trasformare e guarire ferite nuove e antiche, per non permettere al dolore e alle illusioni di paralizzare la nostra vita

Il primo marito di mia madre, Kenny, era una persona stupenda. Il mio vero padre era morto quando ero molto giovane e Kenny veniva spesso a trovarci per vedere se avevamo bisogno di aiuto, anche dopo che si era trasferito in Messico con la sua seconda moglie, Maggie.
Trent’anni dopo, lui e Maggie si stabilirono a Carpinteria, una località di mare a due ore da Los Angeles; quando Kenny morì all’inizio degli anni ’90, Maggie rimase completamente sola e io mi presi l’impegno di andare a trovarla regolarmente finché, diversi mesi fa, mi resi conto che non poteva più vivere da sola e così la feci trasferire in una casa di riposo vicino a casa mia. Andavo ogni giorno a trovarla, all’inizio per facilitarle l’inserimento, poi per accompagnarla in vari posti come il dottore, l’oculista o il parrucchiere. Era la cosa giusta da fare, ma mi sentivo gravata di un peso, sfiancata e risentita. «Dopotutto Maggie non ha alcun rapporto di parentela con me – pensavo – e io ho già troppo da fare». Sapevo che qualcosa nel mio atteggiamento era sbagliato e alla fine, non sapendo più che pesci prendere, una mattina recitai molto Daimoku per capire questa situazione dal punto di vista di un Bodhisattva della Terra che aiuta il prossimo, consapevole della Buddità insita nella propria vita e in quella degli altri.
Quando andai da Maggie quella mattina, lei mi fece un sorriso birichino e mi diede un pacchetto. Erano mie vecchie fotografie, molte delle quali con Kenny, che non avevo mai visto. Era come una finestra sulla mia vita dai tre anni in poi e dietro l’obiettivo c’era Maggie.
Capii due cose: primo, anche se avevo sempre apprezzato il fatto di poter contare su Kenny nonostante la sua lontananza, quella mattina realizzai per la prima volta che il mio debito di gratitudine era più profondo: ero cresciuta senza padre, ma avevo avuto Kenny. Secondo, ciò era stato possibile grazie a Maggie, che non si era mai intromessa nell’affetto del marito verso la figlia della prima moglie, né mai se n’era lamentata. Avevo perso di vista una semplice verità buddista, che ogni cosa che succede nella mia vita è per aiutarmi a diventare più forte, saggia e felice. Avevo lasciato che l’ipocrisia, il risentimento e la lamentela offuscassero il mio senso di gratitudine.
Adesso continuo a far visita a Maggie ogni giorno, ma con uno spirito rinnovato, sentendomi interiormente più arricchita invece che spogliata di forze.
L’anno scorso, in un messaggio alle donne della SGI-USA, la responsabile onoraria della Divisione donne della SGI, Kaneko Ikeda, parlando della sua esperienza di pratica ha detto: «”Il lamento cancella la fortuna. Una preghiera piena di gratitudine crea felicità per tutta l’eternita”. Una volta mio marito mi ha detto queste parole e io le ho profondamente impresse nel cuore come una guida per la vita».
Molti di noi vivono un’esistenza fatta di lamenti quotidiani, come se dovessero sopportare una ferita che non guarirà mai. Ma, in quanto seguaci di Nichiren portiamo avanti una pratica positiva: recitiamo Nam-myoho-renge-kyo mattina e sera; decidiamo di tirare fuori la sostanziale bontà o Buddità che è dentro di noi; preghiamo e ci adoperiamo per i nostri amici e la nostra famiglia; studiamo gli insegnamenti buddisti e aiutiamo gli altri nella pratica. Queste sono cause determinanti per far emergere la nostra natura illuminata.
Ma qualche volta, perfino durante la recitazione di Nam-myoho-renge-kyo, rimuginiamo sulle ferite del passato, finendo per incolpare e giudicare, e il fardello dei nostri lamenti fa sì che non ci sentiamo né capaci di amare né degni di essere amati. È come se tutte le nostre buone azioni venissero neutralizzate dal fatto che siamo profondamente e fermamente convinti che la causa della nostra sofferenza sia una persona o una situazione che non cambierà mai.
Questo è il punto, secondo me: crediamo di soffrire per qualcosa di immutabile, qualcosa su cui non abbiamo alcun potere.
Nel Gosho Il raggiungimento della Buddità in questa esistenza, Nichiren Daishonin ci dice che finché non percepiamo la “vera natura”, cioè la Legge mistica della nostra vita e di quella di tutti gli esseri viventi, non saremo mai liberi. Non solo, se non si percepisce la natura della propria vita, la pratica «[…] sarà un’infinita e dolorosa austerità» (SND, 4, 4).
Ho sempre letto questa frase come se significasse che dovevo vedere tutti i miei difetti in modo da poterli correggere. Anche questo può succedere, ma non è l’intento di queste parole. In un discorso del 1990, il presidente Ikeda spiegò che osservare la propria vita vuol dire percepire che la propria esistenza contiene i dieci mondi e in particolare il mondo di Buddità.
Inoltre, Nichiren dice: «Non ci sono terre pure o terre impure di per sé: la differenza sta unicamente nella bontà o malvagità della nostra mente» (SND, 4, 5).
La cosa più importante quindi è recitare davanti al Gohonzon e credere, come dice Nichiren, che il nucleo della nostra vita è Nam-myoho-renge-kyo. Questo significa che noi possiamo fare appello ai poteri del Budda: possiamo attingere alle immense riserve di compassione che sono in noi per comprendere la nostra complessa realtà e trovare la saggezza per capire che i nostri problemi possono effettivamente essere un catalizzatore per la nostra crescita e infine per la nostra felicità. Possiamo scegliere di rendere “pura” la nostra terra. Possiamo tirare fuori il coraggio per “trasformare il veleno in medicina” per la nostra Illuminazione.
Se però permettiamo al dolore passato o presente di paralizzarci nel giudizio, nel lamento o nella paura, si rafforzerà la nostra convinzione che stiamo soffrendo e continueremo a soffrire per colpa di “quelli là fuori”. Se crediamo che la radice del nostro problema o la sua soluzione sia indipendente dalla nostra volontà e dalla nostra determinazione nella pratica, ricercheremo per sempre la Legge all’esterno, eternamente concentrati a lamentarci della “terra impura”.
Nichiren sapeva questo quando scrisse: «[…] l’inferno è nel cuore di chi interiormente disprezza suo padre e trascura sua madre» (SND, 4, 271).
Questa citazione per molti di noi che sono stati feriti o traumatizzati da bambini può essere particolarmente pregnante. Lo psicologo Robert Karen sostiene: «Perdonare i nostri genitori è un punto nodale dell’essere adulti e la più importante forma di perdono, perché si riflette su tutta la nostra vita psichica. Noi vediamo i nostri genitori nei compagni, negli amici, nei datori di lavoro, perfino nei figli. Quando non siamo stati accettati da un genitore rimaniamo con questo senso di rifiuto e inevitabilmente non ci sentiremo accettati anche dalle altre persone che sono importanti per noi».
Come si crea quest’alchimia, questo balzo che trasforma l’autocommiserazione o il risentimento in gratitudine?
Anzitutto e soprattutto dobbiamo volere il cambiamento. Potremmo pensare: «Se fare questo passo significa che devo avere compassione per quella persona, allora scordatelo. Quella persona non merita compassione!». Questo passo però non ha niente a che fare con il giustificare le azioni di un altro, mentre riguarda in maniera essenziale la nostra autoguarigione profonda. Vivere senza compassione significa rimanere attaccati alla parte negativa della persona che ci ha ferito.
Questo non vuol dire che dobbiamo scendere a compromessi o rassegnarci passivamente a quella che pensiamo sia la causa della nostra sofferenza; al contrario essa deve diventare la causa che ci consentirà di avanzare liberi da freni e impedimenti. Il nostro obiettivo deve essere quello di trovare significato in tutte le esperienze che abbiamo vissuto e usarle per costruire un forte io e una grande e coraggiosa compassione per gli altri.
Inoltre possiamo scegliere di vedere le cose in modo molto differente quando viviamo come Bodhisattva della Terra. Come tali, la nostra missione è alleviare la sofferenza e infondere la speranza. Con lo stesso spirito di Nichiren, i Bodhisattva della Terra nutrono il grande desiderio della felicità degli esseri umani. Quando affrontiamo coraggiosamente le prove della vita con questa convinzione, troveremo la saggezza e la compassione per creare valore in ogni situazione.
Il presidente Ikeda spiega questa trasformazione nella Rivoluzione umana: «Quando gli individui si risvegliano alla loro missione innata di Bodhisattva della Terra, la loro vita acquista un significato profondo e fondamentale. Questa consapevolezza è il perno sul quale ruota la rivoluzione umana, ossia, trasformare la vita delle persone, conducendole e creare valore e a trasformare il karma più doloroso nella più splendida delle missioni. Quando gli individui si sforzano per adempiere la loro straordinaria missione, essi portano a compimento una rivoluzione umana sublime, in grado di trasformare sostanzialmente il destino di una intera nazione».
Gli eventi dolorosi del passato, il nostro carattere, la nostra situazione – in altre parole, il nostro karma individuale – sono strumenti preziosi che possiamo usare per vivere come Bodhisattva della Terra. Ecco perché la preghiera sincera davanti al Gohonzon, la pratica per gli altri e lo studio per approfondire la fede sono così importanti. Questo è ciò che ci permette di tirare fuori sempre di più i poteri dei Bodhisattva della Terra. Forse uno dei più importanti è la compassione grazie alla quale possiamo attuare la più grande delle trasformazioni: liberarci dal biasimo e dal rancore. La compassione buddista ha le sue radici nel rispettare e credere nella nostra innata bontà e quando lo facciamo arriveremo in modo naturale a riconoscere il Budda che c’è potenzialmente negli altri.
Con questo cambio di percezione, iniziamo a sentire più fortemente la nostra missione e il potere di cambiare noi stessi. Troviamo una riconciliazione proprio comprendendo che, poiché possiamo veramente aiutare l’umanità, ci è possibile apprezzare, e sostenere con il Daimoku, gli aspetti positivi della persona che ci ha fatto del male.
In conclusione, è importante vedere la nostra vita come “il luogo” in cui avviene il cambiamento; la fonte e la soluzione della sofferenza è dentro di noi. Quando comprendo profondamente la mia identità e la missione come Bodhisattva della Terra, posso affrontare qualsiasi cosa. Questa missione non è solo un sentimento, ma comporta azioni concrete per aiutare un altro essere umano. Mi sento fortunata perché, anche quando il mio senso di missione sembra sepolto, posso ancora agire come Bodhisattva della Terra per alleviare le sofferenze altrui. In questo modo riacquisto convinzione nella mia natura di Budda e in quella degli altri.
Naturalmente, alcune volte ci sentiamo negativi e incontriamo situazioni difficili e dolorose. Dovremmo allora sforzarci di credere che il sole primordiale della nostra Buddità splende sempre e che il dubbio, l’insicurezza e i rancori sono come nuvole che oscurano il sole. Il presidente Ikeda ha detto che non c’è Buddità senza battaglia spirituale, per noi stessi e per gli altri. Questo è il grande balzo, la prodigiosa alchimia di trasformare il dolore in Illuminazione, costruendo felicità per l’eternità.

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