Shigeru Nonoyama, classe 1930, ha affrontato un lungo viaggio per portare la sua testimonianza di sopravvissuto all’esplosione nucleare. Le cicatrici che lo hanno segnato non sono solo fisiche: i suoi racconti narrano anche di discriminazioni subite dagli hibakusha negli anni successivi. Shigeru ha poi incontrato il Buddismo a trent’anni, questa è stata l’occasione di avvicinarsi ancor più al significato profondo della vita
Che cosa accadde il 6 agosto 1945, il giorno dello scoppio della bomba atomica?
Shigeru Nonoyama: Hiroshima ha vissuto una sorte particolare: fino a quel giorno non era mai stata attaccata e quindi noi, i suoi abitanti, non sapevamo nemmeno lontanamente cosa volesse dire subire un bombardamento. Quello che ci è successo è stata un’esperienza spaventosa, oltre l’immaginabile: la bomba atomica è un’arma terrificante. Oltre all’orrore, la cosa che mi è rimasta più impressa è l’importanza dell’amore della famiglia per i propri cari e quanto dolore provi un essere umano alla vista di un familiare che soffre. Per esempio, non posso dimenticare l’amore di mia madre che ha curato le mie terribili ustioni per settimane, giorno e notte.
Essere un sopravvissuto significa aver dovuto sopportare tante discriminazioni in Giappone. Ce ne può parlare?
Nonoyama: Dopo lo scoppio della bomba tante persone sono venute nella città devastata a cercare i propri cari, o notizie di loro: anch’essi sono stati contaminati, molti si sono ammalati e sono morti. Nessuno conosceva le armi atomiche e quello che potevano produrre in seguito. Per esempio, i bambini nati nei giorni successivi allo scoppio della bomba, morivano per l’altissimo tasso di radioattività. Quando le persone rientrate da Hiroshima si ammalarono – in tanti casi anche mortalmente per effetto delle radiazioni che avevano subito andando a cercare i loro cari – si è cominciata a diffondere l’idea che ci si dovesse tenere lontano anche da tutti coloro che avevano sperimentato la bomba. Insomma, iniziò così una discriminazione sociale nei confronti dei sopravvissuti che già vivevano il dolore di quella esperienza e gli effetti delle radiazioni sul loro corpo.
I genitori si preoccupavano non solo dello stato di salute dei propri figli, e dei figli dei loro figli a venire, visto che gli effetti collaterali si manifestano persino nelle generazioni successive, ma anche della possibilità di essere accettati socialmente e di avere una vita normale. C’era addirittura chi pensava che stare vicino a un sopravvissuto volesse dire rischiare la morte.
Ha iniziato a praticare a trent’anni. Che cosa è cambiato nella sua vita dopo l’incontro col Buddismo?
Nonoyama: All’inizio non ne volevo sentir parlare e scappavo. Ma quando ho iniziato a praticare posso dire di aver scoperto la meraviglia della vita. Ovviamente, essendo scampato alla bomba, avevo già considerato quanto fosse preziosa la vita umana, ma solo grazie alla fede l’ho compreso a fondo. Questa fede mi ha spinto ad agire per fare qualcosa. Ero conscio che il mio destino in quanto essere umano era, ed è, quello di morire, ma prima ero in balia del fato. La pratica buddista mi ha dato la capacità di comprendere più profondamente il senso della vita.
Guardando lo scarso impegno da parte della maggior parte dei governi nei confronti del disarmo nucleare, le sarà capitato di provare sentimenti di odio o di rassegnazione verso le grandi potenze. È così?
Nonoyama: No, non provo odio. Piuttosto, guardando i governi che non agiscono concretamente contro le armi nucleari, provo tristezza. Sono molto grato di poter raccontare la mia testimonianza; ma la nostra voce, la voce dei sopravvissuti non è sufficiente. È necessario che i mass media facciano da cassa di risonanza alla voce del popolo.
Pensa che ce la faremo a vedere un mondo libero dalle armi nucleari?
Nonoyama: È importante levare la voce contro le armi atomiche ma soprattutto serve che i politici facciano arrivare questa richiesta di pace nelle stanze della politica. Sono un sopravvissuto e chiedo questo: che la mia voce arrivi dove vengono prese le decisioni.