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Per me, per gli altri - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 13:26

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Per me, per gli altri

Andrea Donati, Bologna

Un giorno con una chiarezza travolgente emerge in me la risposta che cercavo: dato che la malattia nasceva da me, solo io potevo sconfiggerla con il Daimoku, facendo una grande esperienza per incoraggiare gli altri. Con questa consapevolezza il mio stato vitale è completamente cambiato

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Un giorno con una chiarezza travolgente emerge in me la risposta che cercavo: dato che la malattia nasceva da me, solo io potevo sconfiggerla con il Daimoku, facendo una grande esperienza per incoraggiare gli altri. Con questa consapevolezza il mio stato vitale è completamente cambiato

Ho quarantaset­te anni e ho co­minciato a praticare nel febbraio del ’95, subito con grande entusiasmo, convinzione e con la voglia di cambiare molte cose nella vita. La mia pratica è sempre stata decisa, costante, impegnata, eppure in tutti questi anni era accaduto spesso che all’intensificarsi del mio impegno nella Soka Gakkai corrispondesse in me un senso di insoddisfazione, di fallimento, che alla fine mi faceva sempre sentire come se mancasse qualcosa. Il mio darmi da fare in questi anni di pratica mi ha portato ad assumere una serie di incarichi: prima la responsabilità di gruppo, poi quella di capitolo e infine quella di area del gruppo Prometeo, che si occupa della protezione dei Centri culturali. Responsabilità che ho sempre accettato con gioia e con il desiderio di dare il massimo ma che, nonostante i risultati positivi che mi sembrava di ottenere, non mi aiutavano a sconfiggere il mio senso di frustrazione.
Ero comunque sempre riuscito ad andare avanti, recitando per riuscire ad arrivare al cuore delle persone e gli obiettivi personali che avevo realizzato erano veramente tanti. Ero uscito da un matrimonio finito (motivo che mi aveva spinto a praticare questo Buddismo) e solo un paio di anni dopo avevo conosciuto quella che sarebbe diventata la mia attuale moglie. Avevamo acquistato la casa che faceva per noi, avevo risolto alla grande precedenti problemi di lavoro, insomma tutto andava bene. Anche nell’attività, come referente della squadra dello staff di protezione, il mio obiettivo era che il numero dei membri del gruppo Prometeo raddoppiasse. Obiettivo raggiunto in un anno. E allora? Cosa c’era che non andava? Sentivo che avevo bisogno di uno scatto in più, che qualcosa mancava nella profondità, che c’era molto da aggiungere nella mia pratica e non in termini di numeri.
Ora lo so. E per arrivarci sono passato da un evento traumatico come la malattia, che alla fine si è trasformata in beneficio. Ma andiamo con ordine. Tutto ha avuto inizio nei primi mesi del 2008 quando una mattina, guardandomi allo specchio, ho notato un consistente rigonfiamento sotto l’occhio sinistro. I primi esami di rito, che naturalmente non rie­scono a stabilire con precisione di cosa si tratta, portano però a una conclusione: bisogna asportare quella massa e farlo anche in fretta. Insomma, altro che cisti! Si trattava di una massa vascolarizzata, la cui natura avremmo scoperto solo dopo l’esame istologico che sarebbe seguito all’asportazione.
Quando sono andato a prenotare il ricovero (8 maggio) non avrei mai pensato che il chirurgo mi dicesse: «La operiamo martedì prossimo». Cominciai a convincermi che doveva essere qualcosa di grave e sperimentai che cos’è il panico. Avevo solo cinque giorni davanti a me e solo una cosa da fare in attesa dell’intervento: recitare Daimoku concentrando tutta la mia attenzione sull’occhio sinistro. Durante l’operazione mia moglie continuò a recitare Daimoku perché tutto andasse bene. La prima notizia che ci dettero, fu incoraggiante: non ero diventato strabico, cosa che invece sarebbe potuta accadere perché insieme alla massa mi erano stati asportati parte dei muscoli. La seconda, invece, mi buttò a terra: si trattava di una massa tumorale maligna. «Allora a cosa sono serviti tredici anni di attività di protezione? Tutto quello che ho fatto per il gruppo e gli altri? Per cosa ho praticato se non riesco neanche a proteggere me stesso?».
Sì, ero molto impaurito e forse anche un po’ arrabbiato e quello che pensavo dimostrava che ancora non avevo capito il senso di ciò che mi stava accadendo. Il lato positivo è che tutto l’allenamento fatto negli anni comunque è stato utile, e quando mi hanno dimesso, anche se debole, ho ripreso a fare attività come potevo.
Intanto, dopo tre accertamenti, arriva l’esito definitivo: linfoma NOH del tipo non aggressivo ma che comunque richiedeva la chemioterapia. Quest’ultima mi ha molto debilitato: le mie difese immunitarie erano bassissime, eppure non ho mollato e ho continuato a lottare convinto che alla fine avrei vinto. Finché un giorno con una chiarezza travolgente emerge in me la risposta che cercavo: dato che la malattia nasceva da me solo io potevo sconfiggerla con il Daimoku, facendo una grande esperienza per incoraggiare gli altri. Con questa consapevolezza il mio stato vitale è completamente cambiato.
Qualche settimana fa ho letto uno scritto in cui sensei dice che spesso parla con Toda come se fosse ancora vivo. Ecco, anch’io da quel momento ho cominciato a parlare con il presidente Ikeda, a comunicare con lui come se mi stesse al fianco. La lettura dei suoi scritti assumeva ora un significato molto diverso e anche la mia lotta per guarire al cento per cento era diventata una lotta gioiosa. Nell’istante in cui ho sentito che la mia mente si è aperta e che potevo e dovevo davvero essere in unità con il mio maestro, ho fatto il mio voto: «Questo io affermo. Che gli dèi mi abbandonino. Che tutte le persecuzioni mi assalgano. Io continuerò a dare la mia vita per la Legge!» (L’apertura degli occhi, RSND, 1, 253). Credo che sia stato quello il momento in cui ho cominciato davvero a far mia la missione del maestro, a mettere profondamente in pratica i suoi insegnamenti, a imparare la strada per essere felice. E più andavo avanti recitando Daimoku con questo nuovo spirito, più sentivo in maniera diversa la vita degli altri, proprio perché cominciavo a percepire in modo diverso la mia. Sentivo il senso di frustrazione che mi aveva silenziosamente accompagnato per tanti anni abbandonarmi man mano che lasciavo emergere la consapevolezza di avere un enorme valore. Un valore che volevo dimostrare sconfiggendo la malattia ed essendo un buon discepolo.
La felicità delle persone è diventata così il mio più grande desiderio e il presidente Ikeda il mio navigatore satellitare per indirizzare sempre nella direzione giusta questa determinazione. Toda diceva: «Vi dovete innamorare del Gohonzon», spero di non essere arrogante se oggi dico che penso di capire cosa volesse dire.
Il 19 dicembre del 2008 ho fatto un accertamento finale dopo la cura, il 30 dicembre il medico mi ha detto che sono guarito e il 26 gennaio 2009 sono stato ufficialmente dimesso. So che questo tipo di tumore potrebbe ripresentarsi, ma non sono per niente preoccupato. Ora non ho più la sensazione di essere un perdente, di aver fallito. E non ho paura di quello che potrà accadere in futuro. Ho abbandonato qualunque sensazione di stress, perché so che l’importante è dare.
Vorrei concludere dicendo che tanti anni dedicati all’attività di protezione sono stati un grande tesoro: prendersi cura degli altri è veramente la più grande esperienza perché significa proteggere kosen-rufu ed essere sempre il primo davanti al Gohonzon. Chi fa attività di protezione finisce per farla per tutta la vita, anche sul posto di lavoro, aprendo la porta agli altri e dicendo per primo: «Buongiorno!».

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