Il rapporto con i nostri genitori può essere vissuto come una riscoperta continua, fonte di nuove riflessioni e arricchimenti, che ci accompagnano per tutta la vita. Si viene al mondo grazie a loro, poi si cresce e si matura. Si diventa adulti con quello che ci hanno trasmesso oltre a quello che ovviamente abbiamo appreso anche a scuola e nel mondo del lavoro. Ma sicuramente i nostri genitori giocano un ruolo fondamentale con quella che è e sarà la nostra vita. Nel bene e nel male.
Quando si inizia a praticare il Buddismo spesso ci viene spiegata l’importanza di avere dei buoni rapporti con i nostri genitori, in particolar modo se siamo giovani e nella nostra famiglia regna un’atmosfera tutt’altro che paradisiaca. Il Gosho di Capodanno contiene una frase capace di diventare una guida precisa e puntuale in questo percorso che può essere, in alcuni casi, anche molto doloroso ma dagli esiti straordinari se perseguito fino in fondo: «L’inferno è nel cuore di chi interiormente disprezza suo padre e trascura sua madre» (RSND, 1, 1008). Nichiren Daishonin è molto chiaro al riguardo. Non sta tanto a fare la casistica dei genitori manchevoli e non perde neanche tempo ad analizzare quali conseguenze possano verificarsi qualora ai figli venga a mancare in famiglia l’amore, il sostegno e il rispetto. Mira diritto al cuore di chi sta soffrendo, usando parole semplici e concise. E tremendamente difficili da mettere in pratica quando si proviene da situazioni complicate.
Perché i genitori sono una figura così centrale nel Buddismo? Credo sia importante chiarire come si viene a creare la relazione karmica con i nostri genitori, perché si nasce proprio da loro e non da altri, tanto per intendersi. Secondo il Buddismo la nascita non è frutto di una casualità genetica: la vita del nascituro anche nello stato di latenza possiede un karma e “sceglie” due genitori compatibili con il karma che ha immagazzinato nella propria coscienza alaya. Quando si verifica questa corrispondenza tra il karma della vita nello stato di latenza e quello del padre e della madre, abbiamo il concepimento di una vita. Alla luce della visione buddista si comprende allora perché nascere in una famiglia piuttosto che in un’altra è una nostra “libera” scelta, dettata unicamente dal proprio karma.
Premesso questo, il processo che ci porta a essere figli a trecentosessanta gradi dei nostri genitori è un percorso che ci rende migliori, più umani, specialmente nei casi in cui la partenza è stata in salita.
Nelle Linee guida per i giovani di Josei Toda si legge: «La nostra lotta ci richiede di sviluppare compassione per tutti gli esseri viventi. Ci sono ancora tanti giovani che non sono capaci di amare i loro stessi genitori. Come possono pensare di prendersi cura degli altri? Lo sforzo di superare la freddezza e l’indifferenza presenti nella nostra vita e di sviluppare la stessa compassione del Budda è l’essenza della rivoluzione umana» (NR, 487, 5). Afferma Daisaku Ikeda che «l’amore e il desiderio di ripagare il debito di gratitudine sono alla radice dell’essere umano» (Ibidem), sottolineando inoltre: «Le persone con un’elevata condizione spirituale si prendono cura dei propri genitori. Questo è ciò che ho sentito venendo a contatto direttamente con leader e personaggi di spicco di tutto il mondo» (ibidem). Ancora prima di Ikeda, Nichiren Daishonin, fondatore di questo Buddismo, fece il voto di diventare la persona più saggia del Giappone per ripagare il debito di gratitudine nei confronti dei suoi genitori. E «Negli scritti di Nichiren troviamo altresì il brano: “Shakyamuni definì una persona che onorava i suoi genitori un Onorato dal Mondo”. Prendersi cura dei propri genitori è un nobile comportamento degli esseri umani» (D. Ikeda, Il Gosho e la vita quotidiana, Esperia, pag. 65).
Eppure quando ci capita di nascere e crescere con genitori che non corrispondono nemmeno lontanamente a quella che potrebbe essere un’idea di famiglia, tutta questa bella teoria ci risuona vuota, anzi, quasi fastidiosa. «Ma come, dopo tutto quello che mi è successo, dovrei pure provare gratitudine? E pensare addirittura che dipenda da me?». La risposta è solo una: «Sì». Sempre Ikeda afferma che «ripagare il debito di gratitudine verso i genitori significa avanzare lungo la strada del Buddismo» (NR, 487, 5).
Pratico da ventitré anni e ho avuto la fortuna di incontrare il Buddismo già all’università e la prima esperienza importante la feci proprio trasformando l’atmosfera infernale che regnava nella mia famiglia. Mi venne spiegata l’importanza di avere dei buoni rapporti con i miei genitori, e a suon di Daimoku e di azioni mirate realizzai nell’arco di un anno l’impossibile. Quello fu solo l’inizio. Seguì dopo poco la morte di mio padre e da allora volente o nolente mi sono dovuta prendere cura di mia mamma e della malattia psichiatrica di cui era affetta (psicosi), che la portava tra le altre cose a manifestare con estrema difficoltà i suoi sentimenti e le sue emozioni. Quello che ho potuto constatare in tutti questi anni, dove non sono venuti a mancare anche i suoi acciacchi e svariati ricoveri in ospedale, è stato che di volta in volta, grazie a questi tour de force ospedalieri, scioglievo qualcosa dentro di me. Anni fa, dopo un intervento al cuore, mia mamma ha avuto bisogno di una lunga convalescenza, e quando la portavo fuori a camminare mi veniva in mente che lei mi aveva insegnato a fare i primi passi quando ero piccolina e adesso io ricambiavo quel gesto con grande tenerezza. Credo che abbracciare il Buddismo tra le altre cose ci serva anche a questo: a scegliere di volta in volta come vivere una situazione, le situazioni in genere e quindi la nostra vita. Esserle figlia è stato ovviamente complicato, ma sono riuscita alla fine ad amarla infinitamente e a godere pienamente a mia volta del suo amore immenso. La rivoluzione umana di una persona è un’azione talmente profonda che cambia veramente il destino di tutta la sua famiglia.
La mia trasformazione è proseguita: ho capito che possiamo continuare a riscoprire i nostri genitori anche quando loro non ci sono più. Purtroppo mia mamma è morta da poco e recentemente sono andata a casa sua per cercare un documento. Per caso, aprendo un cassetto in camera sua, trovo una busta grande. La apro: lì c’erano tutti i racconti che negli anni avevo scritto, i miei articoli pubblicati sul Nuovo Rinascimento e la foto di quando mi ero laureata. In quel cassetto erano riposte le cose a cui teneva maggiormente, e lì c’ero io. Mia mamma era una divoratrice di libri e quando, anni fa, le feci leggere il mio primo racconto, mi disse qualche giorno dopo: «A questo va trovato un posto diverso (lei intendeva rispetto a tutti gli altri libri stipati in casa)». Negli anni tutti gli altri articoli e racconti che via via le avevo fatto leggere li aveva messi lì, in quel cassetto!
Non solo. Essermi laureata, avere scritto racconti e articoli erano tutte cose di cui ero contenta ma che davo per scontate. Dopo avere aperto quella busta ho capito invece che erano le cose migliori che avessi fatto in vita mia. Ne sono stata incredibilmente orgogliosa: la mamma aveva fatto centro! Quello che è accaduto nei giorni seguenti mi ha fatto comprendere ancora più chiaramente che il rapporto con i nostri genitori è veramente un processo di amore e di scambio importantissimo, che può continuare per tutta la vita, se lo vogliamo. Improvvisamente ho sentito delle basi più forti, come se il suo amore mi fosse arrivato ancora più in profondità.
Trovo che sanare fino in fondo il rapporto con i propri genitori rappresenti una tappa irrinunciabile per la crescita di un individuo, a qualunque età; che poi loro siano sempre in vita o meno è tutto sommato indifferente per la Legge dell’universo: il Daimoku va oltre quelli che sono i limiti spazio-temporali.
Se decidiamo di prenderci cura delle nostre radici saremo in grado di colmare quelle zone dentro noi stessi rimaste scoperte o ancora da rimarginare. È un’azione terapeutica che ha come effetto quello di renderci naturalmente migliori e un po’ più felici. Intraprendendo questa azione a tutto tondo, si arriva a vedere noi stessi per quelli che siamo, cioè perfettamente dotati. Non più zoppicanti o carenti in determinati ambiti. Non più zone oscure o ricordi sfumati ma il desiderio profondo di vedere la bellezza racchiusa in noi, riuscendo a toccare con mano anche l’amore di chi ci ha messo al mondo.
«E se a me tutto questo non interessasse? Qual è l’alternativa?». Quella di non compiere fino in fondo la propria crescita evolutiva ed emotiva, proprio quella che ci porterebbe diritti a toccare senza remore il nucleo più profondo e delicato di ogni essere umano. Ecco, il rischio potrebbe essere quello di rimanere impantanati a vita, pur continuando a praticare. Magari continuando a demandare agli altri il problema irrisolto della nostra felicità. Mentre, la prima cosa che ci è stata spiegata quando abbiamo conosciuto il Buddismo di Nichiren, è stato che la nostra felicità dipende solo da noi stessi, nessun altro ce la può dare.
Crescere ci porta a perdere un po’ dell’insicurezza, paura, rabbia e rancore che serbiamo nel cuore, e ad amplificare la nostra creatività, leggerezza e gioia. E quando si cresce si è in grado di guardare i nostri genitori non più solamente come la mamma e il babbo, ingabbiati quindi dentro quel ruolo e basta. Ma li vediamo anche come persone: Maria Teresa, Giorgio, Marta, Roberto ecc… persone quindi, come lo siamo noi, tutti un po’ giusti e un po’ sbagliati, ma tutti accomunati dallo stato di Buddità presente in tutti gli esseri viventi. Questo è proprio quello che ci stanno chiedendo il presidente Ikeda e Nichiren: guardare gli altri con l’occhio del Budda.
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Con un maestro in famiglia
Abbiamo chiesto a Barbara P. quale sia il segreto della sua famiglia di “guerrieri” che sanno affrontare la vita. La sua risposta? «Più che pensare a cercare strategie per diventare una buona madre e una buona moglie, ho cercato di costruire valore seguendo gli insegnamenti del mio maestro, Daisaku Ikeda»
Nel 1979 erano in pochi a praticare il Buddismo in Italia. Perché hai deciso di iniziare?
Ho avuto la fortuna di incontrare la Soka Gakkai da giovane, per cui ho costruito la mia vita partendo dalla preghiera e dall’attività per gli altri. Allora vivevo alla giornata, cercando di colmare un profondo vuoto interiore. Molti amici si erano persi con l’eroina, altri si erano affiliati a organizzazioni eversive. Mi parlarono di Nam-myoho-renge-kyo, poche parole, che mi affascinarono. Così iniziai e non smisi più.
Ricordo che nel 1981, a Firenze, partecipai a una riunione durante la quale il presidente Ikeda disse: «Ora non ho più paura di niente e di nessuno». Anch’io, che avevo paura di tutto, volevo diventare così.
Ho iniziato a lavorare, mi sono sposata, mi sono laureata pur lavorando, ho avuto tre figli. Ora ho cinquantacinque anni e tutti i miei figli praticano il Buddismo.
Quali ritieni siano i motivi che hanno avvicinato i tuoi figli al Buddismo?
Mi sono sempre sforzata di migliorare nella mia pratica, nel mio rapporto con sensei, nello studio e nel modo di aiutare chi mi sta intorno. Più che pensare a cercare delle strategie per diventare una buona madre o una buona moglie, ho cercato di diventare una buona “discepola del Sutra del Loto” e ripagare il mio debito di gratitudine verso il mio maestro. A volte mi sentivo un po’ pazza, quando andavo a incoraggiare le persone portando con me i bambini o quando andavo ai corsi lasciandoli alla nonna e lottavo con i sensi di colpa, dicendomi: «Sto costruendo qualcosa di più grande, devo fidarmi».
Non deve essere stato facile…
La vita mi ha aiutata a fare tante esperienze. Sono stata a un passo dalla separazione, spesso avevamo pochi soldi, mi sono ammalata di cancro alla tiroide… Ma sono andata avanti, perché l’avevo promesso a me stessa, volevo a tutti i costi credere nel mio valore. Oggi posso dire che ho vinto! Ho rafforzato il mio legame con Bruno, mio marito, dal cancro sono stata dichiarata guarita, i soldi bastano sempre, sul lavoro ultimamente ho ricevuto un’ottima promozione! Non mi sento più un contenitore vuoto, che cambia a seconda dell’ambiente in cui vive, sento il mio “io” rafforzarsi e consolidarsi ogni giorno di più. Non c’è una Barbara mamma, un’altra lavoratrice o un’altra membro della Soka Gakkai. Sono sempre io, investita di una grande responsabilità, quella di rappresentare, ovunque sia, il mio maestro. Sono certa che i miei figli abbiano respirato questa determinazione.
A questo proposito c’è qualche episodio che ti è rimasto impresso?
Una grande esperienza fu quando si ammalò mia madre. Avevo paura che i ragazzi soffrissero troppo. Ma le cose naturalmente non andarono così. Lei entrò in coma e poi morì, accanto a noi. Invece che tutelare i ragazzi dalla sofferenza, sentii che la vita conteneva tutto e che tutto andava vissuto. L’esperienza della morte, al di là della sofferenza emotiva, fu molto profonda, ma nessuno di noi provò disperazione.
A che età hanno iniziato a praticare i tuoi figli?
Tutti e tre hanno iniziato a praticare intorno ai diciassette anni. Erano in una fase difficile della loro crescita e io per aiutarli recitavo molto Daimoku, cercando di dare loro fiducia. C’erano problemi a scuola, con le droghe, “beata adolescenza” e chi più ne ha più ne metta! Con tutti e tre, in sequenza, è bastato dire loro questa semplice frase: «Non so più cosa fare per te, c’è il Gohonzon, puoi farcela». Dopo mi hanno confessato che non si sono sentiti abbandonati, ma incoraggiati a ricercare da soli la via per la loro felicità.
Da allora hanno avuto grandi successi personali, nello studio e nel lavoro, ma quello che mi riempie di orgoglio più di ogni altra cosa è il vederli impegnati per kosen-rufu con molta serietà. Michele è responsabile nazionale della Divisione studenti e di regione dei giovani uomini. Silvia, che ha studiato per tre anni a Venezia, ha contribuito nel suo capitolo a stabilizzare le presenze giovani, portandole a undici giovani donne e quattro giovani uomini. Martina, che ha diciotto anni, si impegna molto nel suo gruppo e nell’attività di protezione come byakuren e in un anno due suoi amici hanno iniziato a praticare.
Come incoraggeresti una giovane madre?
Ho sempre pensato che dedicandomi agli altri non avrei perso niente, anzi! Il Gohonzon e l’organizzazione sono meglio della migliore delle madri. Questo non vuol dire diventare scriteriate, sono una mamma molto protettiva, ma scegliendo sempre, solo e prima di tutto il Gohonzon si esce dall’illusione di voler costruire la “famiglia del Mulino Bianco” e si costruisce una famiglia di guerrieri che sanno affrontare la vita.
Cosa ti ha insegnato questo percorso?
Non esistono situazioni positive o negative, il punto è cercare di creare valore in ogni situazione, e avere pazienza. Facendo attività con ogni genere di persone, ho capito finalmente cosa vuol dire avere fiducia. Mi sono spesso chiesta cosa significasse profondamente questa parola. Il presidente Ikeda ce lo insegna quotidianamente, nutrendo sempre una grande fiducia nei nostri confronti, senza nemmeno conoscerci! Penso che fiducia voglia dire credere fermamente e senza alcun dubbio nelle potenzialità altrui, senza essere influenzati dai difetti o da ciò che non riusciamo a capire degli altri, perché diversi dai nostri modelli o punti di riferimento. Proteggere, non è preservare, che è una parola molto conservatrice. Sensei ci chiede di essere rivoluzionari: proteggere è “sostenere”, spingere a vivere e a lottare, a fare esperienze difficili, convinti che otterremo una vittoria.
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Nati sotto il segno di kosen-rufu
Essere genitori, essere figli: sono state scritte pagine e pagine dedicate a questo rapporto così intenso, così viscerale, così complesso, e sono proprio le voci dei figli di Barbara e Bruno a raccontarsi “dall’altra parte”…
Michele, il primogenito, ventotto anni, pratica il Buddismo da dieci. Ricorda un episodio della sua infanzia che spiega le origini del suo legame con sensei.
«Da bambino mi appassionavano i giochi “un po’ violenti” come dar fuoco a tutto e costruire finti ordigni esplosivi tanto che un giorno, quando avevo circa sei anni, mia madre mi provocò, dicendomi: “Ma cosa gli racconto al presidente Ikeda? Che mio figlio costruisce bombe?”. Questo costante riferimento al maestro mi ha permesso di instaurare un forte legame con lui. Quando ho cominciato a praticare ho semplicemente deciso di seguirlo anche nelle azioni, condividendo con i miei genitori il desiderio di contribuire alla realizzazione di kosen-rufu. L’attività con i ragazzi in Liguria è servita a portare avanti quella promessa: non si faceva nulla di particolare, ma si respirava lo spirito della Soka Gakkai».
Silvia, ventitré anni, praticante da quattro. Ci racconta della sua timidezza, della paura nel confrontarsi con gli altri e della sua tendenza di ricercare una felicità basata sull’approvazione esterna che, durante l’adolescenza, è degenerata in disprezzo verso se stessa e in altre forme di autodistruzione. «Per me la sfida quotidiana è quella di basare le mie scelte sul Gohonzon anziché dipendere dalle opinioni e aspettative dei miei genitori, per me comunque fonte di stimolo nella vita e nella fede, e sul senso di responsabilità nei confronti dell’organizzazione, che sento parte integrante della mia famiglia, oltre che un prezioso tesoro per il cambiamento della società».
Martina, diciannove anni, la minore dei tre fratelli, pratica da circa due. Ci confessa che, se da un lato nascere in una famiglia buddista è un’enorme fortuna, dall’altro non è stata una strada facile e spianata, anzi, piuttosto in salita.
«Mi vergognavo all’idea di diventare buddista… Fin da piccola mi è stato insegnato che ero responsabile in prima persona della mia vita e praticando ho sperimentato cosa significasse assumersi, in pratica, la responsabilità delle proprie azioni e sentirsi liberi nelle scelte. Il legame di unione e di sostegno reciproco che mi lega ai miei fratelli è, senza dubbio, frutto di quel voto indissolubile».