Tutti questi sforzi sono stati avvertiti dai genitori: mi hanno dimostrato fiducia, hanno percepito che stavo facendo un buon lavoro con i loro figli e abbiamo iniziato a comunicare anche in italiano, grazie soprattutto ai bambini che in pochi mesi hanno familiarizzato bene con la nostra lingua
Ho incontrato il Buddismo nel 1994 grazie alla mia amica Marilena; all’epoca studiavo a Salerno.
Sono un’insegnante precaria della scuola dell’infanzia iscritta nella graduatoria interminabile del Comune di Bologna in terza fascia.
Nel 2013 ho ricevuto l’incarico in una sezione del quartiere San Donato, in periferia, costituita da venti bambini stranieri con conoscenza quasi nulla dell’italiano e cinque bambini italiani, tutti dai tre ai cinque anni. Data la complessità della situazione ho pensato che questa volta il mio karma mi stesse mettendo davanti a una situazione impossibile. Ho anche chiesto al pedagogista che mi aveva assegnato la classe: «Mi ha inserito qui per fulminarmi la carriera?» ma lui ha riso, senza rispondermi. Forte delle guide di Daisaku Ikeda, del Gosho, del Daimoku e della mia fede, mi sono data da fare. All’inizio mi adagiavo sul fatto che, essendo precaria e l’ultima arrivata, non avrei potuto fare molto per cambiare la mia condizione; sensei però ci dice che, nel nostro ambiente, noi possiamo fare la differenza. Anche Nichiren Daishonin ci ricorda che: «È solamente il cuore che conta» perciò decisi con coraggio di risolvere la situazione. Ogni mattina recitavo due ore di Daimoku con lo scopo di creare relazioni di fiducia con i bambini e i genitori, rassicurandoli e mettendoli a proprio agio. La situazione era comunque molto difficile, perché la comunicazione verbale era impossibile; alcune mamme neanche venivano e parlavamo a gesti perché era l’unico linguaggio utile date le tredici nazionalità diverse. Inoltre avevo molte difficoltà con le mie colleghe: essendo l’ultima arrivata e per di più precaria, non avevo voce in capitolo in merito alla gestione delle classi e percepivo pregiudizi sia nei miei confronti che verso i bimbi.
Grazie alla frase del Daishonin: «Considera il servizio al tuo signore come la pratica del Sutra del Loto» (RSND, 1, 804) ho dissipato dalla mia vita la lamentela trovando così l’atteggiamento più giusto. Tutti questi sforzi sono stati avvertiti dai genitori: mi hanno dimostrato fiducia, hanno percepito con il cuore che stavo facendo un buon lavoro con i loro figli e abbiamo iniziato a comunicare anche in italiano, grazie soprattutto ai bambini che in pochi mesi hanno familiarizzato bene con la nostra lingua.
A mia insaputa, in questi mesi, i genitori dei bimbi della mia classe, all’unanimità, hanno scritto due lettere al pedagogista e alla coordinatrice pedagogica per ringraziarli per il lavoro che avevo svolto e chiedendo loro di mantenermi come insegnante nella classe per farmi continuare il lavoro iniziato.
Un giorno, mentre mi recavo al lavoro mi telefonarono da scuola affinché arrivassi il prima possibile perché qualcuno del Comune mi stava aspettando. Mille pensieri negativi mi attraversarono la mente. Arrivata a scuola mi sentii chiamare per nome da persone che non conoscevo e che mi facevano i complimenti per come avevo svolto il mio lavoro e per come avevo creato valore con tutte le famiglie. Grata di quelle lusinghe e basita per tutta quella gentilezza, chiesi con chi avevo il piacere di parlare. La signora del gruppo si presentò per prima: era la coordinatrice pedagogica, che fino ad allora non avevo mai incontrato, l’uomo al suo fianco il sindaco di Bologna e infine il presidente di quartiere. In pratica i miei datori di lavoro, senza annunciarsi, erano venuti per complimentarsi personalmente con me per come avevo operato in una sezione così difficile. Immaginate il subbuglio che si è creato a scuola! Questa esperienza mi ha insegnato che quando si decide per kosen-rufu di contribuire a migliorare la vita di tante persone, di bambini in particolare, non ci sono ostacoli che tengono.