Basandosi sulla nuova serie di lezioni di Daisaku Ikeda che saranno pubblicate nel numero di novembre-dicembre di Buddismo e società e sulla spiegazione che ne ha dato al recente corso europeo di Trets il responsabile del Dipartimento di studio della SGI, Katsuji Saito, Franco Malusardi, vice direttore dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, e Anna Conti, vice responsabile nazionale della Divisione donne, hanno commentato alcuni brani del Gosho Il raggiungimento della Buddità in questa esistenza
Lo scopo fondamentale del Buddismo, come spiega la frase d’apertura di questo Gosho è dare alle persone la possibilità di «liberarsi dalle sofferenze di nascita e morte» e, per far questo, spiega Nichiren, è indispensabile «cogliere la mistica verità che è connaturata alla vita degli esseri viventi». Il punto fondamentale dunque, ha esordito Franco Malusardi, è come far sì che ognuno riesca a percepire questa mistica verità – la natura di Budda – che esiste dentro ogni persona. L’aspetto veramente rivoluzionario di Nichiren Daishonin nella storia del Buddismo è che non si è limitato a rivelare teoricamente che «questa verità è Myoho-renge-kyo» ma ha utilizzato concretamente ogni istante della sua vita per dimostrare che la Legge mistica esiste nella vita delle persone e c’è un mezzo, accessibile a tutti, che permette di rivelarla: «recitare Myoho-renge-kyo».
A proposito della recitazione del Daimoku, la pratica fondamentale nel Buddismo di Nichiren Daishonin, scrive Daisaku Ikeda nella prima puntata delle sue Lezioni: «Nel Buddismo di Nichiren Daishonin vi sono due aspetti del Daimoku: il Daimoku della fede e il Daimoku della pratica. Il primo riguarda l’aspetto spirituale della nostra pratica e consiste essenzialmente nella battaglia che ha luogo nei nostri cuori per contrastare la nostra condizione interiore illusa o “oscurità”, una battaglia contro le forze negative e distruttive dentro di noi per far emergere la condizione vitale di Buddità grazie al potere della fede. Il Daimoku della pratica riguarda invece l’azione specifica di recitare Nam-myoho-renge-kyo e di insegnarlo agli altri, gli sforzi che compiamo, con le parole e con le azioni, per la nostra felicità e per quella degli altri, che sono la dimostrazione tangibile della nostra battaglia interiore contro l’illusione e la negatività interne». Leggendo questa spiegazione, ha osservato Malusardi, ho capito che qualcosa nella mia pratica non andava. In sintesi, il fatto che essere “mendicanti di benefici” non ci permette di rivelare la nostra natura di Budda. Così ho cominciato a recitare per essere felice in quel preciso momento, per trasformare il mio stato vitale.
Nichiren ci dice che anzitutto dobbiamo riconoscere la nostra “oscurità”, in altre parole, la nostra totale dipendenza dalle circostanze esterne per essere felici o infelici. È questa condizione di totale schiavitù dei propri desideri che differenzia una persona comune da un Budda. Il primo passo è non essere più ciecamente schiavi dell’oscurità fondamentale, che è innata in ogni persona come la Buddità, ed è la tendenza a dubitare che la vera realtà della nostra vita come di quella degli altri sia la natura di Budda e a cadere preda delle nostre tendenze negative che il Buddismo chiama “demoni”.
Perché è così difficile riconoscere quando nella nostra vita è all’opera il “demone”? ha detto Malusardi. Perché intanto anch’esso reca un certo grado di beneficio, come l’apparente benessere che può provare una persona che è sotto gli effetti dell’alcool e, d’altro canto, il demone è “intelligente”, non si annuncia certo come tale ma cerca di apparirci come l’unica vera realtà della nostra vita. Come possiamo allora riconoscere questa natura oscurata? Non certo pensando che un giorno, in virtù dei nostri sforzi nella pratica buddista, “raggiungeremo la Buddità”, ci sveglieremo una mattina senza più dubbi e da allora in poi ne saremo liberi per sempre. Ne La Saggezza del Sutra del Loto si legge: «Spesso le persone ritengono che la Buddità sia uno “stato da raggiungere” e che, raggiungendolo, si diventi una persona completamente diversa. […] Nichiren, tuttavia, insegna che conseguire la Buddità non significa diventare un Budda, bensì rivelare il Budda che è in noi, cioè coltivare nella nostra vita il mondo di Buddità» (vol. 2, pag. 7).
Sensei ci spiega che un’altra definizione di fede è coraggio; non afferma che non sentiremo più l’oscurità fondamentale – che non dubiteremo o non ci scoraggeremo più di fronte a difficoltà o sofferenze – ma che dobbiamo imparare a vederla e riconoscerla. È vero che si fatica a manifestare la fede davanti alle difficoltà, ma questo non significa che sia impossibile. Nichiren ci esorta a “non avere paura di nulla”, svincolando così la nostra felicità dalle circostanze immediate. Diventare un “saggio che si rallegra davanti alle difficoltà” (vedi SND, 4, 128) non significa diventare un “flagellante della fede”, insomma una sorta di martire masochista che gode nell’andare a cercarsi la sofferenza, bensì significa non avere paura di nulla, cioè affrontare ogni cosa che la vita ci mette davanti e diventare ogni giorno un po’ più felice del giorno prima.
Come spiega Ikeda nel brano citato, la naturale conseguenza di questa nostra lotta interiore è il Daimoku della pratica per gli altri. Riconoscere la propria Buddità significa riconoscere anche quella degli altri e in questo senso non c’è alcuna distinzione fra pratica per sè e pratica per gli altri, un tema che è stato più volte ribadito durante il corso. Parlando della sua personale esperienza, Malusardi ha detto che comprendere profondamente questo punto, attraverso le parole di Ikeda, gli ha permesso non solo di cambiare il suo modo di recitare ma anche di vivere più serenamente ogni giorno.
Kosen-rufu è una battaglia contro l’oscurità fondamentale che esiste nell’ambiente ma sarà impossibile da realizzare se per prima cosa non riconosciamo questa stessa oscurità dentro di noi. Un grande aiuto è l’esempio del maestro che, con le parole, lo stato vitale e le azioni, ci fa percepire l’esistenza della Buddità nella sua vita come nella nostra, la possibilità di manifestarla concretamente e di farla conoscere alle persone che incontriamo. Proprio come fa lui. Perché il vero significato della relazione fra maestro e discepolo, così cruciale nel Buddismo, non consiste nel “seguire” la strada del maestro ma nell’aprire la stessa strada al suo fianco.
Malusardi ha concluso con l’incoraggiamento a smettere di “tentare di non essere comuni mortali” e vivere con la consapevolezza che proprio i nostri dubbi, illusioni e sofferenze ci permettono di rivelare la Buddità. L’unico metro di misura è «diventare ogni giorno un po’ più felici del giorno prima».
Anna Conti, che ha commentato la seconda parte del Gosho, è ritornata sul concetto fondamentale di non ricercare la Buddità e la felicità fuori di sé, osservando che “cercare fuori” è proprio la tendenza della civiltà moderna e per questo è ancor più vitale condividere la nostra fede col maggior numero di persone. E ha ricordato quanto quest’atteggiamento faccia tutta la differenza: «Quando recitiamo Daimoku non dobbiamo farlo “chiedendo” benefici, ma per farli emergere da dentro la nostra vita. Quando recitiamo con il desiderio di manifestare la Legge mistica che c’è nella nostra vita si sente una gioia profonda anche se le circostanze esterne non sono ancora cambiate». La chiave è dunque recitare con quello spirito “attivo e combattivo” sul quale Daisaku Ikeda pone tanto l’accento, di tirare fuori la Legge dalla nostra vita; allora il cambiamento è immediato e la Buddità si manifesta nel modo più appropriato per ognuno di noi.
Infine ha elencato cinque atteggiamenti sintomatici del “cercare la Legge fuori di sé” che, se alimentati, ci impediscono di manifestare la Buddità nella nostra vita, vanificando tutti i nostri sforzi nella pratica buddista.
Il primo è “dare la responsabilità agli altri di ciò che ci succede”, la cui naturale conseguenza è fuggire dalla propria realtà e cercare di evitare i problemi invece di affrontarli in prima persona.
Il secondo è “avere una fede dipendente da ciò che ci succede” che conduce naturalmente al terzo e cioè alla “sfiducia”: un atteggiamento che va costantemente contrastato dentro di noi perché produce una preghiera debole e vaga che, pur praticando tutti i giorni, non ci permette di vedere grandi cambiamenti.
Il quarto è “lamentarsi”, una tendenza fortissima in tutte le persone, che ci viene spontanea ma che possiamo controllare recitando Daimoku. A questo proposito Anna Conti ha citato una metafora calzante che può essere utile ricordare: «Se recitiamo tanto Daimoku e poi ci lamentiamo subito dopo, questo non produrrà alcun beneficio, sarà come “gettare acqua in uno scolapasta”».
Il quinto è “offendere i propri compagni di fede” perché offendere gli altri significa rinnegarne la natura di Budda, ma questo equivale a rinnegare anche la nostra natura di Budda e ci spinge nuovamente a ricercare la Legge fuori di noi.
«Siamo tutti Bodhisattva della Terra!» ha concluso Conti «e siamo nati in quest’epoca per realizzare kosen-rufu tutti insieme. L’importante è focalizzarsi su questo e non sulle reciproche differenze. Non criticarsi ma lodarsi a vicenda».
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Per approfondire:
- Daisaku Ikeda, Lezioni sul Gosho: Il raggiungimento della Buddità in questa esistenza, in Buddismo e società, nov/dic 2006 (di prossima pubblicazione)
- Daisaku Ikeda, La saggezza del Sutra del Loto, Mondadori 2005, vol. 1, cap. 2, 3, 4, 5. vol. 2, cap.1 e 2.