Una storia lontana nel tempo, che si svolge a cavallo fra gli anni ’50 e ’60, quella di Choji e Chie Horiyama, di professione pescatori nell’isola giapponese di Rishiri. Lontana ma molto attuale: una famiglia resa poverissima dalla crisi economica diventa il faro di speranza nella propria zona di residenza. Il tutto attraverso grandi difficoltà, non ultima quella di venir giudicati in base all’umiltà del proprio lavoro. Grazie al loro esempio i due coniugi riescono a superare non solo le proprie difficoltà personali, ma anche a fare comprendere agli altri la forza del Buddismo, stabilendo nella loro isola «una solida base per kosen-rufu», come spiega Daisaku Ikeda che li incontra nel 1968
La nuova rivoluzione umana, vol. 13, pagg. 117-121
di Daisaku Ikeda
Choji Horyama era un pescatore. L’isola Rishiri era stata un importante centro per la pesca delle aringhe, ma dal 1955 il pesce era praticamente scomparso dalla zona. Col perdurare della scarsità del pescato, Choji si era dato al gioco d’azzardo. […] Ma perdeva spesso e i suoi debiti aumentavano.
La natura caparbia di sua moglie Chie peggiorava la situazione, perché la donna si rifiutava di abbassarsi a pregare suo marito di smettere di giocare. Ogni volta che Choji tornava a casa dopo aver nuovamente perso, ella non lo rimproverava; in silenzio andava a prendere uno dei suoi kimono e lo portava al banco dei pegni per venderlo. Poi consegnava a Choji il poco denaro che era stata in grado di racimolare dicendogli: «Ecco, tieni, e vai a rivincerlo». Man mano che i debiti di Choji aumentavano, la famiglia precipitava nella miseria più nera. I coniugi Horiyama non erano più in grado di sfamare i loro otto figli […].
Nel 1957 gli Horiyama ricevettero la visita di un estraneo, un membro della Soka Gakkai di Otaru che si trovava temporaneamente sull’isola. Passando per caso davanti alla loro casa e vedendola così mal ridotta, quell’uomo si era sentito spinto a parlare a quella famiglia del Buddismo e aveva bussato alla porta. Dopo aver ascoltato la coppia descrivergli la loro penosa situazione, l’uomo dichiarò con ferma convinzione: «Con questa pratica, nessuna preghiera rimane mai senza risposta. Sarete sicuramente in grado di pagare i vostri debiti!».
Ciò era bastato a convincere Chie a provare. Choji, invece, si rifiutò. Non aveva nessuna ragione specifica per farlo, tranne la vaga sensazione che unirsi alla Soka Gakkai avrebbe significato perdere la faccia. Tuttavia, in aggiunta alle sue difficoltà finanziarie, Choji era tormentato anche da una nevralgia. Non credeva che la fede potesse realmente curare la sua malattia, ma non avendo altre alternative un giorno decise di mettere alla prova il Gohonzon. Dopo aver recitato per un certo tempo, sentì che il dolore si calmava. Continuando a recitare, gradualmente cominciò a sentirsi bene.
Da allora in poi, lui e la moglie praticarono insieme con serietà. Alcuni dei loro vicini sparlavano di loro alle spalle dicendo: «Ora si sono dati alla “religione d’azzardo”!». Ma essi persistettero imperturbati e ben presto furono ricompensati da una pesca abbondante che includeva seppie, calamari e ricci. Nell’arco di un anno furono in grado di pagare tutti i debiti.
Gli Horiyama erano stupefatti, un sentimento che si trasformò subito in gioia, in gratitudine e in una forte convinzione. Si accinsero coraggiosamente a condividere la loro fede con gli altri abitanti dell’isola. Nelle notti fredde e tempestose Choji, usando un asciugamano come sciarpa, si metteva in cammino insieme a sua moglie, precedendola di qualche passo per proteggerla dal vento. I loro sforzi diedero presto frutti e una persona dopo l’altra cominciò a praticare. Alla fine nell’isola fu formato un gruppo della Soka Gakkai del quale Choji e Chie furono nominati responsabili. Gli Horiyama erano sempre disponibili ad ascoltare i problemi e le difficoltà dei loro compagni di fede e offrire semplici ma sinceri incoraggiamenti. Adorati da tutti, si guadagnarono il soprannome di Mamma e Papà.
Ma la pesca a Rishiri fu nuovamente messa in crisi dalla scarsità di pesci e gli Horiyama riuscivano a malapena a sbarcare il lunario. Ciò li costrinse a cercare lavoro in una città costiera dello Hokkaido, le cui acque erano famose per l’abbondanza di pesci. Affidando i loro figli alla cura dei vicini, affittarono la casa e si trasferirono a Esashi, sul mare di Ohotsk. Tuttavia non riuscivano a non essere preoccupati per i membri del loro gruppo. A Esashi la pesca era abbondante e la coppia lavorava instancabilmente. Ma quando si sedevano insieme alla fine della giornata, il loro discorso inevitabilmente cadeva sui loro compagni di fede di Rishiri, alcuni dei quali stavano lottando contro le ristrettezze economiche mentre altri non potevano partecipare alle attività a causa delle loro condizioni di salute. Nessuno di loro stava praticando da molto e tuttavia avevano già sviluppato una fede salda.
«A chi si rivolgeranno quando avranno bisogno di sostegno o di consigli?» si tormentavano gli Horiyama. La loro preoccupazione aumentava di giorno in giorno e a un certo punto Chie si rivolse al marito: «Papà, torniamo a casa! In fondo che bisogno abbiamo di tanto denaro?».
Entrambi convennero: «A casa ci sono membri che hanno bisogno di noi. Cosa importa se dobbiamo lottare per sopravvivere! Torniamo a Rishiri e dedichiamo la nostra vita a kosen-rufu e ai nostri compagni di fede. Questa è la nostra missione».
Gli Horiyama perciò ritornarono nella loro isola e non ripartirono mai più in cerca di lavoro. Se la crisi della pesca fosse continuata, sarebbero stati costretti a tirare avanti con un guadagno al di sotto della sussistenza. Chie perciò iniziò a lavorare svuotando fosse settiche e, con la sua magra paga, la coppia in qualche modo riusciva a tirare avanti.
Ogni volta che Chie parlava agli altri di Buddismo veniva zittita con osservazioni del tipo: «Di cosa sta parlando? Davvero una grande religione. Ma si guardi!».
Sorridendo allegramente, lei rispondeva con semplicità: «Se lei sa valutare le persone solo dalle apparenze, non potrà percepirne la vera natura e non sperimenterà mai il meraviglioso beneficio di questa pratica». Era fermamente decisa: «Qualunque cosa gli altri possano dire, parlerò a tutti di questo Buddismo e trasformerò quest’isola in un paradiso di grande fortuna!».
L’impegno di sostenere i compagni di fede e di lavorare per la prosperità dell’isola di Rishiri dava agli Horiyama un’enorme soddisfazione e serviva come forza motrice delle loro attività. Non appena venivano a sapere che qualcuno si trovava in difficoltà, immediatamente si precipitavano a trovare quella persona, per quanto lontana vivesse. Immedesimandosi nella sua situazione, la incoraggiavano calorosamente. E quando i membri risolvevano i loro problemi, gli Horiyama gioivano con loro della vittoria ottenuta.
Gli Horiyama erano persone comuni di mezzi modesti, ma per il loro senso di responsabilità e la loro determinazione di sostenere e proteggere gli altri isolani non erano secondi a nessuno. Di conseguenza, la loro casa divenne una sorta di Centro culturale, frequentato non solo dai membri della Soka Gakkai, ma anche da molti abitanti dell’isola che avevano fiducia in loro e li ammiravano.
«Siediti a mangiare» diceva Chie a chiunque arrivasse all’ora dei pasti. E quando non c’era abbastanza cibo per tutti, lei si privava della sua porzione per servire l’ospite. La sua forte decisione interiore di aiutare tutti a diventare felici si manifestava nel modo in cui si prendeva cura degli altri.
Ormai erano passati undici anni da quando gli Horiyama avevano iniziato a praticare. Grazie agli sforzi sinceri e altruistici dei primi membri dell’isola di Rishiri era stata costruita una solida base per kosen-rufu.