Guerra e dispotismo portano distruzione della vita e annientamento dei valori umani. Ma queste piaghe possono essere arrestate tramite l’empatia e la forza dell’indignazione, valori che si affermano e si rafforzano generazione dopo generazione, in una prospettiva a lungo termine
Andando oltre
la tragica storia del passato,
creiamo le fondamenta
per una brillante
era di pace.
Sono passati sessantadue anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, durante la quale circa sessanta milioni di persone persero la vita. Ogni anno il 15 agosto, data in cui viene commemorata la fine della guerra in Giappone, mia moglie e io recitiamo un sincero Daimoku per il riposo di coloro che perirono nel conflitto, in Giappone come nel resto del mondo. Alla sede centrale della Soka Gakkai, i membri della Divisione giovani hanno guidato una cerimonia speciale di Gongyo per pregare per la pace mondiale e per commemorare la fine della guerra. Un evento solenne che si rinnova ogni anno, da quando nel 1973 lo proposi la prima volta. La Divisione giovani sta tenacemente portando avanti questa tradizione, offrendo preghiere e rinnovando il nostro impegno per la pace mondiale.
Mio fratello maggiore Kiichi morì in battaglia in Birmania (oggi Myanmar) durante la Seconda guerra mondiale. Aveva solo ventinove anni. Era un giovane serio e sincero di dodici anni più grande di me e gli volevo molto bene. Kiichi fu chiamato alle armi nella primavera del 1937, più o meno all’epoca in cui mio padre si stava riprendendo da un attacco reumatico invalidante. Fu un grande choc per tutti noi che il figlio maggiore, il giovane appoggio della nostra famiglia, ci fosse improvvisamente sottratto dall’esercito.
Nella primavera dell’anno seguente vennero richiamati l’uno dopo l’altro il mio secondo e il mio terzo fratello maggiore, Masuo e Kaizo. Io allora frequentavo la quinta classe e aiutavo la mia famiglia nella produzione e nel commercio delle alghe marine commestibili. Quando passai in sesta classe, cominciai a consegnare i giornali per guadagnare un po’ di soldi in più per la famiglia. Nel 1944 anche Kiyonobu, il quarto fratello maggiore nato poco prima di me, fu richiamato dall’esercito. Lo andai a salutare alla stazione Shinagawa di Tokyo mentre veniva portato via su un treno militare. Mentre l’inno patriottico Giovani aquile suonava in sottofondo a tutto volume, gli ripetei il desiderio sincero dei nostri genitori: «Prenditi cura di te, e torna a casa vivo».
Mia madre, avendo contribuito alla guerra con quattro figli, fu lodata come “madre militare”, e la nostra famiglia fu elogiata come una famiglia che aveva mandato soldati al fronte. Ma nonostante questi onori, i nostri cuori erano consumati da un’angoscia indescrivibile, dall’incertezza e dalla tristezza.
Nel luglio del 1941, mio fratello maggiore ricevette una licenza temporanea e tornò a casa, sembrava felice e rilassato. Aveva un portamento dignitoso. Dopo che venne richiamato di nuovo, mi disse in tono preoccupato: «Sembra che tu sia il solo rimasto a casa per occuparti dei nostri genitori. Conto su di te, prenditi cura di mamma e papà e anche dei tuoi fratelli e sorella minori».
Per me era molto triste avere i quattro fratelli maggiori lontani a combattere in guerra, ma facevo del mio meglio per aiutare mio padre sofferente e per proteggere la mia anziana madre e i miei fratelli e sorella minori. Dopo aver terminato le scuole dell’obbligo, ottenni un lavoro presso le acciaierie Niigata a Kamata (attuale quartiere Ota), dove mio fratello Kaizo aveva lavorato in passato. Era una fabbrica militare che produceva motori diesel.
Il coraggio di ricominciare
La mia salute cagionevole era sempre una preoccupazione. Soffrendo di tubercolosi, spesso avevo la febbre e sputavo sangue. Ricordo ancora con profonda gratitudine l’infermiera della fabbrica che si prese così tanta cura di me in quei tempi duri. All’inizio del 1945 – l’ultimo anno di guerra – un dottore mi raccomandò seriamente di ricoverarmi in un sanatorio per tubercolotici a Kashima, nella prefettura di Ibaraki, per una cura di due anni. Sfortunatamente non c’erano letti disponibili, e mentre aspettavo un posto letto, Tokyo venne bombardata, mettendo fine a qualsiasi ulteriore prospettiva di ricovero.
La mia famiglia viveva originariamente in una casa su due piani a Kojina, nel quartiere Kamata di Tokyo. Avevamo un ampio giardino con un grande stagno dove tenevamo le carpe. Nel giardino cresceva una grande varietà di alberi, inclusi aceri giapponesi, olmi e ciliegi, e anche fichi e melograni. Ho tanti ricordi affettuosi della mia infanzia in quella casa, mentre correvo dietro alle libellule e facevo altri innocenti giochi da bambini; però nel 1938, all’incirca quando i miei fratelli vennero arruolati, fummo costretti a dar via quella casa, che poco tempo dopo venne trasformata in una fabbrica militare.
Durante una massiccia incursione aerea su Tokyo nel marzo del 1945, circa centomila civili persero la vita solo nel quartiere Koto e nelle aree circostanti. Era una notte fredda.
Un altro assalto aereo fu lanciato sulla parte meridionale di Tokyo in aprile, e riuscimmo a malapena a metterci in salvo. Non dimenticherò mai in quella notte, nel bel mezzo dei bombardamenti, la ricerca disperata di un riparo da parte di coppie anziane che vagavano per le strade stordite dal terrore.
Dopo quegli attacchi aerei fummo costretti a lasciare la bella casa nella quale ci eravamo trasferiti in un’altra zona di Kojiva. Quella casa venne abbattuta dal governo per creare una barriera antincendio che prevenisse la diffusione di conflagrazioni causate da futuri bombardamenti. In seguito ci spostammo in un rifugio, costruito frettolosamente accanto alla casa di mia zia nella comunità rurale di Magome nel quartiere Omori (attuale quartiere Ota).
Il 24 maggio, il nuovo edificio venne completato, e noi trasportammo lì tutti i nostri averi con un carretto, in modo di poterci trasferire la mattina seguente. Quella notte però vi fu una nuova incursione aerea. Le persone che erano con noi nel rifugio sotterraneo cominciarono a gridare: «Ci hanno colpito! Ci hanno colpito!». Una bomba incendiaria aveva centrato la nostra casa appena costruita, incendiandola fino alle fondamenta. I miei genitori avevano rischiato la vita per costruire una casa sicura per noi, e ora vedevano i frutti del loro lavoro distrutti dalla guerra in pochi secondi.
Insieme a mio fratello riuscimmo a salvare dalle fiamme solo una cassa di legno. Quando la aprimmo, scoprimmo che tutto quello che conteneva erano le bambole del “Giorno delle ragazze” della mia sorellina. Ricordo le parole di mia madre che, in uno slancio pieno di coraggio, in quel momento illuminarono la nostra famiglia con una calda luce di speranza: «Un giorno vivremo di nuovo in una bella casa dove potremo esporre queste bambole in modo appropriato».
Vivevamo in un rozzo tugurio che avevamo ricostruito sul terreno bruciato dalle fiamme quando, il 15 agosto, ricevemmo la notizia che la guerra era finita. Era una calda giornata d’estate, il cielo era limpido e luminoso. La trasmissione radio che annunciava la fine della guerra era talmente disturbata che non riuscimmo a capire cosa dicesse, neppure se il Giappone avesse vinto o perso. Ma mio fratello minore, che aveva sentito la notizia altrove, tornò a casa in lacrime gridando: «Il Giappone ha perso, il Giappone ha perso la guerra!».
La sofferenza inflitta dalla guerra
La mia sincera reazione alla fine della guerra fu di sollievo, anche perché ero totalmente logorato dalla lotta contro la mia malattia. Finalmente non dovevamo più preoccuparci del rumore degli aerei che venivano a bombardarci dall’alto. «Com’è tutto calmo» pensavo, e il mio cuore era finalmente sollevato. Anche le interruzioni di corrente forzate erano finite, e potevamo avere la luce di notte. Mia madre era gioiosa come una ragazzina mentre preparava la cena, ed esclamava: «Quanta luce! Possiamo tenere le lampade accese! Come è tutto bello e luminoso!».
Quando il Giappone si arrese quell’estate, mio padre aveva cinquantasette anni e mia madre quarantanove. Io ne avevo diciassette. Il viso di mio padre era diventato rosso per l’agitazione mentre, chiamando uno a uno per nome i miei fratelli maggiori, con un’espressione felice dichiarava tra le lacrime: «Adesso torneranno a casa – uno dalla Birmania e tre dalla Cina, torneranno tutti a casa».
Ma mentre altri soldati cominciavano a rientrare dal fronte, i miei fratelli tardavano a tornare. Kaizo, il terzogenito, arrivò a casa il 10 gennaio 1946. Kiyonobu, il quarto, rientrò il 17 agosto, emaciato dalla terribile malnutrizione. Aveva combattuto in Cina. Un mese dopo, il 20 settembre, il secondo fratello maggiore Masuo tornò, sempre dalla Cina. Tutta la famiglia attendeva impazientemente il ritorno del fratello maggiore, Kiichi. Ci chiedevamo con crescente trepidazione quando sarebbe arrivato. Il 30 maggio 1947, con l’approssimarsi della seconda estate dal termine della guerra, ricevemmo alla fine la comunicazione ufficiale. Kiichi era morto in Birmania l’11 gennaio del 1945. Non dimenticherò mai l’immagine di mia madre, girata di schiena verso di noi, che stringeva la lettera in mano, singhiozzando e tremando di dolore.
La nostra non fu l’unica famiglia a sperimentare una tale tragedia – innumerevoli altre soffrirono allo stesso modo. Dal profondo del mio essere odiavo la natura demoniaca delle autorità per aver privato questi giovani uomini della loro vita e inflitto tale sofferenza alle loro madri. Divenni assolutamente contrario alla guerra. Gridavo a gran voce che i fautori della guerra avrebbero dovuto essere puniti con la morte.
Tre mesi più tardi incontrai Josei Toda e iniziai a praticare questa grande filosofia buddista di pace e giustizia.
La morte al fronte di Yozo Makiguchi
Quando la gioventù di oggi
crescerà,
un secolo di umanità
e di pace
sboccerà.
È stata un gioia assistere alla entusiasmante esibizione della squadra di baseball della Scuola superiore Soka di Tokyo nel corso del Campionato nazionale di baseball delle scuole superiori tenutosi questa estate allo stadio Koshien, nel Kansai. Come fondatore della scuola, provo un’infinita gratitudine per il caloroso sostegno offerto ai nostri giovani atleti dai cittadini di Tokyo, del Kansai e delle regioni di tutto il Giappone, e sono certo che Tsunesaburo Makiguchi, il fondatore dell’educazione Soka, sarebbe particolarmente felice.
Anche Yozo, terzo figlio di Makiguchi, partecipò a tre tornei a Koshien quando era studente alla scuola superiore professionale Waseda. Prolifico battitore con una velocità eccezionale, fu prima base della squadra. La sua scuola arrivò seconda ai tornei estivi nel 1925, e vinse la prima partita sia nei tornei primaverili che in quelli estivi nel 1926. I giornali accennarono alla potente formazione, citando proprio Yozo. Makiguchi, che a quel tempo prestava servizio come preside nella scuola elementare di Shirokane di Tokyo, mormorò malinconicamente: «Mi piacerebbe andare allo stadio Koshien per incitare la squadra di mio figlio, ma i miei doveri come dipendente pubblico lo rendono impossibile».
Il giornale di baseball Yakyu Kai (Il mondo del baseball) scrisse di Yozo, e i lettori lo elessero membro onorario della squadra di baseball della Scuola superiore su scala nazionale, che includeva i giocatori che avevano partecipato al torneo di Koshien. Lo stesso giornale pubblicò un caratteristico articolo nell’edizione del gennaio 1927 intitolato Gli straordinari giocatori di baseball della Scuola superiore, nel quale venne citata una frase di Yozo: «Poiché sono così concentrato quando mi alleno, dimentico le fatiche che affronto. Ora che ho sopportato un allenamento talmente intenso, lo considero un’esperienza preziosissima». Le sue parole esprimono in modo adatto lo spirito dei giovani atleti Soka.
In seguito, Yozo cominciò a lavorare in banca. Durante i primi tempi della Soka Kyoiku Gakkai (precursore dell’attuale Soka Gakkai), egli fu responsabile del capitolo Mejiro a Tokyo, dove si sforzò energicamente per introdurre altre persone al Buddismo di Nichiren Daishonin. Diresse anche un giornale per gli studenti della scuola elementare che fu pubblicato da Josei Toda, contribuendo anche con un articolo nel quale scrisse delle sue esperienze di baseball offrendo consigli ai giovani lettori.
Quando ebbe inizio la guerra nel Pacifico, Yozo fu arruolato. Al suo secondo turno di servizio venne inviato in Cina per un anno e mezzo. Mentre era al fronte propagò coraggiosamente il Buddismo del Daishonin, e introdusse diversi suoi compagni soldati alla pratica – un fatto questo che raccontava orgogliosamente nelle lettere a suo padre. Ma in Cina contrasse la dissenteria e morì il 31 agosto del 1944, alla giovane età di trentasette anni.
Mentre Yozo era al fronte, Makiguchi, che si era opposto al militarismo, era in prigione a intraprendere una battaglia contro le autorità militaristiche giapponesi che lo avevano incarcerato. Egli parlò coraggiosamente ai suoi carcerieri e a chi lo interrogava degli insegnamenti di Nichiren Daishonin. La trascrizione ufficiale di una sessione di interrogatorio riporta chiaramente una sua citazione del trattato del Daishonin Adottare la dottrina corretta per la pace nel paese, e la sua spiegazione a chi lo stava interrogando: «Se in Giappone ognuno accettasse e praticasse la Legge mistica, non solo la nostra nazione sarebbe libera dalle sofferenze di guerra, carestia, epidemie e disastri naturali, ma la vita di ogni individuo sarebbe sicura e felice. Questa è la mia speranza più grande».
Se Yozo fosse tornato vivo dalla guerra, non c’è alcun dubbio che avrebbe portato avanti l’eredità spirituale di suo padre e si sarebbe unito a Toda nella coraggiosa battaglia di concretizzare il grande voto di “adottare la dottrina corretta per la pace nel paese” – cioè kosen-rufu – realizzando grandi cose.
L’ultima lettera di Makiguchi
Makiguchi seppe della morte di Yozo l’11 ottobre 1944, circa sei mesi dopo. Per evitargli preoccupazioni, Makiguchi non gli aveva mai parlato della propria reclusione. In una lettera datata 13 ottobre, Makiguchi scrisse a proposito del suo dolore per la morte dell’amato figlio, e tentò di dare conforto ai membri sopravvissuti della sua famiglia. Questa è l’ultima lettera di cui siamo a conoscenza scritta da Makiguchi, che morì in prigione appena un mese più tardi.
In quella lettera egli dichiara: «Ero costernato e pieno di sgomento. Ma ancor più ero preoccupato di quanto tutto ciò potesse essere doloroso per voi due [sua moglie Kuma e la moglie di Yozo, Sadako], e sono molto confortato dalla vostra splendida decisione come mi avete comunicato nella vostra lettera».
Le autorità militariste giapponesi arrestarono Makiguchi – un eminente educatore che in realtà doveva essere considerato un tesoro nazionale – trattandolo come un criminale e un traditore, e inoltre derubarono suo figlio della vita.
Nella stessa lettera Makiguchi scrisse parole che possono essere considerate come la sua ultima volontà e testamento: «Sto bene. Sto leggendo avidamente gli scritti filosofici di Kant. Quando rifletto su come io sia stato capace di produrre la teoria del valore – una teoria che studiosi dei secoli passati hanno ricercato invano – e inoltre di collegarla alla fede nel Sutra del Loto, permettendo a diverse migliaia di persone di ottenere una prova concreta, sono sorpreso di me stesso. Quindi era naturale che i tre ostacoli e i quattro demoni mi avrebbero assalito; è esattamente ciò che afferma il sutra».
Costruiamo una pace
forte e duratura,
e apriamo il grande sentiero
di verità e giustizia
del Buddismo.
Incontrai Josei Toda per la prima volta il 14 agosto del 1947. Era la sera precedente il secondo anniversario della fine della guerra. A una riunione di discussione, mentre si teneva una lezione sul trattato del Daishonin Adottare la dottrina corretta per la pace nel paese, Toda dichiarò: «Sebbene questo testo risalga a circa settecento anni fa, sembra sia stato scritto per questa epoca lacerata dalla guerra. Se noi non risolviamo i nostri problemi basandoci sul Buddismo del Daishonin – a livello individuale, familiare e nazionale – non saremo capaci di costruire la nostra felicità. […] Dobbiamo pensare alle nostre famiglie, al nostro paese e al mondo del ventesimo secolo, che è al centro di un grande sconvolgimento. Il nostro desiderio è bandire dalla terra ogni tragedia e disgrazia. Questo è l’obiettivo del nostro movimento di kosen-rufu. Facciamolo insieme».
Trovai questo appello di Toda assolutamente convincente. A quel tempo avevo un criterio inflessibile attraverso il quale giudicavo i leader della società. L’unica cosa che mi interessava era se si fossero opposti o meno al militarismo. E lì davanti a me c’era una guida alla quale potevo dare fiducia e dedicare la mia vita senza rimpianti. Percepii intuitivamente di aver trovato il mirabile e torreggiante albero che avevo a lungo cercato.
Questi campioni
sostenendo il valore prezioso
della vita
sono filosofi
di pace mondiale.
L’ex presidente dell’Unione Sovietica Mikhail Gorbaciov, che ricoprì un ruolo cruciale nel porre fine alla Guerra Fredda, una volta mi disse: «Noi, bambini del tempo di guerra, dobbiamo denunciare la stupidità, la disumanità e l’assurdità della guerra». Le persone della mia età sono i “fratelli maggiori” di questa generazione di bambini del tempo di guerra. Veramente troppi giovani di poco più grandi di me persero la vita sul campo di battaglia.
Una volta andai a far visita a un amico che aveva qualche anno più di me, un giovane cadetto, nel suo campo di addestramento, nella prefettura di Ibaraki. A quei tempi i ragazzi della mia età sognavano di divenire giovani cadetti. Ma questo amico insistette che uno fisicamente debole come me non avrebbe mai dovuto prendere in considerazione l’idea di arruolarsi. Proseguì dicendo che essere un cadetto non era neanche una cosa così bella come la gente pensava.
Costruire un mondo di pace
Fui abbastanza fortunato da sopravvivere alla guerra. Per questo decisi di sostenere e portare avanti la responsabilità di costruire un mondo senza guerre, un mondo di pace, per il bene delle generazioni a venire. E il mio mentore Josei Toda mi insegnò i sani princìpi e i mezzi per realizzare questa missione.
Quando durante la guerra Kiichi tornò dalla Cina per una licenza temporanea, ricordo che mi disse: «La crudeltà dell’esercito giapponese è indescrivibile. Ciò che stiamo facendo ai cinesi è un orrore che non si può raccontare». Considero queste parole come il testamento finale di mio fratello, la cui gioventù – arruolato a ventun anni e morto a ventinove – fu consumata dalla guerra.
E mio padre, che più di trent’anni prima era stato con l’esercito per due anni nella Seul occupata dai giapponesi, una volta mi disse con voce tremante di rabbia: «Perché i giapponesi sono così orribilmente prepotenti e arroganti? È una disgrazia che il Giappone tormenti e perseguiti gente così buona e onesta!».
Durante gli ultimi mesi di guerra, quando gli americani stavano lanciando feroci attacchi aerei su Tokyo, un giovane aviatore americano si paracadutò dal suo aereo e atterrò nel quartiere di Magome. Appena toccò terra un gruppo di persone accorse e cominciò a prenderlo a calci e a colpirlo con bastoni. Alla fine fu bendato e portato via dalla polizia militare. Quando tornai a casa e raccontai a mia madre ciò che era accaduto, lei disse: «È terribile! Sua madre deve essere così in pena per lui!». Queste parole risuonano ancora nelle mie orecchie.
Serbando nel cuore l’indignazione di mio fratello e di mio padre, e l’empatia di mia madre, mi sono sforzato strenuamente per costruire ponti di pace, amicizia e fiducia reciproca, raggiungendo le persone di Cina, Corea e Stati Uniti, e in verità del mondo intero. Oggi persone attente e consapevoli attorno al globo stanno esprimendo profonda approvazione per queste azioni.
Lo storico britannico Arnold Toynbee (1889-1975) scrisse nella sua introduzione alla traduzione inglese del mio romanzo La nuova rivoluzione umana: «La Soka Gakkai ha realizzato […] una sorprendente resurrezione postbellica – un’impresa spirituale che eguaglia la conquista materiale del popolo giapponese in campo economico». Anche l’emerito professore Stuart Rees, direttore della Fondazione Sydney per la pace presso l’Università di Sydney, ha espresso grandi speranze per il nostro movimento.
La presenza di
una madre sorridente
è come un sole splendido
che illumina
la cittadella della pace.
Il 15 agosto è anche la data della morte della madre di Nichiren Daishonin, Myoren (anno 1267, nome laico Umegiku-nyo). Il Daishonin afferma: «Ho concluso che questo sutra è l’unico che permette di ripagare il debito di gratitudine per la bontà di una madre. Mi auguro che tutte le donne recitino il Daimoku di questo sutra per ripagare questo debito» (Il sutra della vera riconoscenza, SND, 8, 110). Penso che sia davvero appropriato fare del 15 agosto una data nella quale pregare e rinnovare il nostro impegno per la felicità di tutte le donne del mondo e per la pace, che è il loro desiderio più caro.
Senza paura
mettendosi alla guida
con coraggio e decisione,
la nostra vera via è
una rivoluzione di pace.
Nichiren Daishonin scrive: «Il re demone del sesto cielo ha destato i suoi dieci eserciti e nel mezzo del mare delle profonde sofferenze di nascita e morte, è in guerra con il devoto del Sutra del Loto per fermarlo dal prendere possesso di questa terra impura dove sia le persone comuni sia i saggi dimorano e portargliela via. Sono trascorsi venti o più anni da quando mi sono trovato in tale situazione e ho cominciato la grande battaglia. Neanche una volta ho pensato di ritirarmi» (WND, 2, 465) [Il re demone è la personificazione della tendenza negativa di piegare gli altri alla propria volontà a ogni costo, n.d.r. – vedi anche DB, 656]. Questo nostro mondo attuale è un campo di battaglia tra il Budda e le funzioni demoniache. Le forze del Budda – che cercano di condurre l’umanità alla pace, alla felicità e alla speranza – devono prevalere sul re demone del sesto cielo, che incarna le forze distruttive che tentano di trascinare le persone nelle profondità della miseria e dell’infelicità.
Eliminare tutte le guerre
Josei Toda disse: «Nella grande battaglia di kosen-rufu non possiamo permetterci di essere sconfitti. Non ci possiamo permettere di essere intimiditi. Se saremo battuti, l’umanità verrà avvolta per sempre nell’oscurità. La Soka Gakkai, con la sua nobile missione di condurre le persone alla felicità, non deve mai essere sconfitta!». E disse anche: «Per porre fine alla guerra non basta semplicemente trasformare i nostri sistemi politici o sociali. La radice sta negli esseri umani, sono loro che devono cambiare. Le persone devono divenire forti e sagge. Le genti del mondo devono unire insieme i propri cuori».
Molti passaggi del grande scrittore russo Lev Tolstoj (1828-1910) letti tanto tempo fa mi hanno profondamente entusiasmato e sono rimasti impressi nella mia memoria per tutti questi anni. Mi piacerebbe condividerne tre con voi: «La vita è l’espansione di un’anima, e il bene non dipende da che genere di anima sia, ma da quanto un essere umano l’ha ampliata, espansa e migliorata». Questa è una descrizione appropriata di ciò che noi chiamiamo rivoluzione umana. La guerra è il prodotto del dispotismo. Se non ci fosse dispotismo non ci sarebbe guerra. […] Il dispotismo produce la guerra, e la guerra sostiene il dispotismo». Come è vero! Combattere contro la repressione dei diritti umani e proteggere la libertà di credo religioso è fondamentale nella lotta per la pace. E infine: «Un’anima immortale richiede un lavoro tanto immortale quanto se stessa. Le viene assegnato soltanto questo compito: di sforzarsi in modo infinito, verso la perfezione di sé e del mondo».
Vorrei terminare questo saggio presentando un’altra poesia ai nostri membri che combattono come campioni per la pace e come fonte di luce e di speranza per il mondo intero.
Miei meravigliosi compagni,
rischiarate questo secolo
e questa società
immersa nell’oscurità
e nell’inquietudine
senza fine.