Decisi di risolvere la sofferenza per la malattia di mia mamma e l’imbarazzo che avevo a parlarne agli altri. Il primo passo fu aprirmi con il mio responsabile di gruppo che, con mia sorpresa, aveva vissuto situazioni simili con persone a lui care
Sono nato in una famiglia molto modesta che ha sempre vissuto risparmiando su ogni cosa per cui ho imparato a desiderare poco perché non c’erano mai soldi. Mio padre risparmiava più che poteva pensando al futuro della nostra famiglia dopo la sua morte. L’enorme differenza di età fra i miei genitori aveva creato a mia mamma non pochi problemi con la famiglia d’origine e i primi segnali di una instabilità mentale, che col tempo divenne schizofrenia, si manifestarono subito dopo il parto. Trascorsi la mia infanzia fra la paura della morte di mio padre e quella per il mio futuro. Ero poco più che adolescente quando mio padre morì. Furono anni durissimi, spesi per imparare a stare dritto in piedi e a lottare contro la paura e il dolore di vedere mia mamma stare così male. Non sapevo come aiutarla e non capivo perché era così diversa dalle altre mamme – spesso dovevo farle io da genitore – e sogni e desideri mi sembravano pensieri da stupidi e senza senso. Intanto frequentavo la facoltà di ingegneria elettronica con discreto profitto, se pur senza molta convinzione poiché la scelta era stata determinata dalla speranza di poter cambiare la mia condizione economica. Ero anche convinto di essere molto forte, persino senza problemi, quando a ventidue anni incontrai il Buddismo.
Dopo una settimana, una persona molto vicina alla mia famiglia morì ed ebbi così l’occasione di sperimentare quella “gioia senza confini” – di cui avevo letto e sentito – recitando Daimoku per la sua felicità, e da allora non ho più avuto paura della morte. Forte di quest’esperienza, decisi di risolvere la sofferenza per la malattia di mia mamma e l’imbarazzo che avevo a parlarne agli altri. Il primo passo fu aprirmi con il mio responsabile di gruppo che, con mia sorpresa, aveva vissuto situazioni simili con persone a lui care, e mi parlò della possibilità di guarigione e di un’ottima clinica psichiatrica a Catania.
Col tempo mi resi conto che cresceva la mia gioia nell’essere suo figlio, mentre lei diventava più serena: si sentiva finalmente apprezzata e nasceva in me il desiderio di vederla guarita, anche se non riuscivo nemmeno a immaginarla senza la sua malattia. Lei, però, si rifiutò di andare dal nuovo medico e io, dopo aver toccato l’apice della rabbia, andai davanti al Gohonzon: attraverso il Daimoku compresi che dovevo accettarla così com’era e trovai il coraggio di aprirmi anche con gli amici, scoprendo una solidarietà che da allora non ha più smesso di sostenerci. Da quel momento l’attività per gli altri, lo studio e tanto Daimoku sono diventati la base della mia vita. Tuttavia le condizioni di salute di mia mamma invece di migliorare peggioravano sempre di più. Passarono tre lunghissimi anni durante i quali mi sfidai per vincere sull’oscurità che mi assaliva con dubbi laceranti. Nel Gosho di Capodanno, dove dice «L’inferno è nel cuore di chi interiormente disprezza suo padre e trascura sua madre» (RSND, 1, 1008), ho trovato l’aiuto per affrontare i momenti in cui non la sopportavo.
Mancava poco alla riunione della Divisione giovani del marzo 2003 quando alcuni componenti della famiglia di mia madre, per la prima volta in venticinque anni, vennero a farci visita allo scopo di incoraggiarla a incontrare il nuovo medico. Lei acconsentì. Voleva stare meglio, si era resa conto di quel suo peggioramento di cui solo allora compresi anch’io il senso.
Tutto si mosse velocemente in un paio di settimane: appuntamento dal medico, ricovero in clinica, cambio della cura. Al rientro a casa era già un’altra: niente turpiloqui infiniti e nello sguardo finalmente la luce e non più quegli occhi spenti dai farmaci. Oggi sta molto meglio. È molto autonoma e la sento molto più sicura di sé.
Parallelamente anche il lato economico ha visto diverse fasi di miglioramento. L’ansia e la preoccupazione di quegli anni non mi consentivano più di studiare, e poi non avevamo più soldi. Decisi di andare a lavorare. Dapprima trovai lavoretti saltuari come cameriere, ma non bastava. Lottavo per non essere risucchiato dalla depressione, dal pensiero di non farcela e dal desiderio di morire. Il Daimoku era diventato la mia stessa vita.
Grazie anche a un consiglio nella fede arrivò la svolta. Riuscii a trovare il coraggio di presentarmi in un negozio per un lavoro destinato a un apprendista diciottenne, mentre io avevo già ventiquattro anni. Non fu facile: avevo delle mansioni che, insieme al brutto carattere di alcune persone, mi facevano spesso sentire umiliato, ma col tempo conquistai la fiducia, il rispetto e l’affetto di tutti, migliorando le condizioni lavorative e la mia autostima. Mi “allenai” a fare zaimu: la sfida era notevole, anche pochi euro erano fondamentali per me, ma lo facevo con molta gioia. Grazie alla fortuna accumulata tre anni dopo si presentò un’occasione per un nuovo lavoro che accettai subito per le migliori condizioni di orario, di stipendio e di mansioni, che mi permisero di esprimere molte qualità che nemmeno pensavo di avere.
La maggiore stabilità economica e la rinnovata fiducia in me stesso risvegliarono il desiderio di vivere in una casa diversa da quella fatiscente in cui abitavo. Cominciai a mettere da parte il denaro per il trasloco, ma non bastava, mi rendevo conto che ci sarebbero voluti anni per risparmiare una cifra consistente, e non mi sentivo più di aspettare oltre. Non più. L’ultima spinta arrivò in inverno: per ben due volte piovve dentro la mia stanza, esattamente sul mio cuscino. In una di queste occasioni ero a letto e, svegliandomi nella notte “mezzo annegato”, raccolsi tutto ciò che rimaneva della mia dignità e decisi che sarebbe stato l’ultimo inverno in quella casa. Pensai di chiedere un prestito, idea che fino a quel momento avevo totalmente rifiutato di prendere in considerazione, per avere subito la disponibilità della somma che mi serviva. Pensavo a diecimila euro.
Proprio in quei giorni mi capitò di leggere in un saggio del presidente Ikeda, nel quale descrive il rapporto con il suo maestro: «Quando le forze mi abbandonavano per la salute cagionevole o perché ero esausto, Toda mi diceva: “Stai combattendo contro i tre ostacoli e i quattro demoni. Porta dolore e sofferenza direttamente davanti al Gohonzon e lotta per superare ogni ostacolo”» (NR, 371,10).
Per la prima volta realizzai che Josei Toda aveva affidato il futuro di kosen-rufu a un giovane – Daisaku Ikeda – a cui i medici dicevano che non avrebbe superato i trent’anni, e quindi senza futuro, perché affetto da tubercolosi, malattia molto difficile da curare a quei tempi. Nonostante ciò il presidente Toda ebbe una totale fiducia nel Gohonzon e nel suo discepolo. Questa consapevolezza mi ha fatto voltare pagina nel modo di vivere e di praticare, tanto da sentirmi capace di affrontare pienamente la vita e di andare oltre ogni evidenza. Mi sono detto: «Anch’io posso!».
Due mesi dopo mia mamma vinse diecimila euro con un gioco a premi. Il primo pensiero è stato quello di fare zaimu con gratitudine.
Il presidente Ikeda in Giorno per giorno del 3 luglio, data del mio compleanno, scrive: «Chi ha un maestro nella vita è davvero fortunato. Il cammino di maestro e discepolo porta alla crescita e allo sviluppo personale. Forse chi non ha un mentore può sembrare libero ma, per mancanza di un solido modello su cui basarsi, trascorrerà la propria vita vagando senza un vero e proprio scopo». Naturalmente ho già trovato casa! È molto bella, con una grande stanza per il Gohonzon. Soprattutto pulita, luminosa, comoda, in una bella zona della mia città e con un ottimo affitto.
Oggi provo gratitudine per ogni cosa che mi accade. Mi sento una persona davvero fortunata, anche se altre sfide mi attendono. Sono determinato a realizzare l’obiettivo del mio maestro.