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Mi metto in gioco - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 10:27

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Mi metto in gioco

Lucilla Tommasi, Roma

«Arrivata al culmine della mia frustrazione capii che per quanto ciò mi costasse fatica, l’unica soluzione era sostenere Pino poiché altrimenti non sarebbe mai stato felice»

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«Arrivata al culmine della mia frustrazione capii che per quanto ciò mi costasse fatica, l’unica soluzione era sostenere Pino poiché altrimenti non sarebbe mai stato felice»

Ho conosciuto il Buddismo all’età di ventun’anni, nel ’90. Ero alla fine del burrascoso periodo adolescenziale quando il mio migliore amico mi fece conoscere il Buddismo. Ma io non ne volli sapere. Ero nel bel mezzo di un esaurimento nervoso e non ne potevo più di discoteche londinesi e di stranezze varie. Ciò che desideravo era un po’ di normalità e finalmente trovare un compagno dopo parecchi anni di vita mondana ma da single! Ero arrogante e allo stesso tempo insicura e non riuscivo a trovare un ragazzo. Avevo un atteggiamento cerebrale e dimostrativo, sicuramente in linea con la tendenza della mia famiglia. Sul lavoro apparivo sicura, capace e brillante, ma dato che mi sembrava sempre di dover dimostrare qualcosa che poi intimamente non mi apparteneva, non mi sentivo mai all’altezza della situazione e non riuscivo a incanalare quel potenziale che tutti vedevano. Così decisi di lavorare in modo indipendente come traduttrice. La stessa tendenza si manifestava ogni qual volta dovevo mettermi in gioco. Quindi evitavo sempre il confronto. Ciò mi causava incomprensioni anche con mia madre, che riponeva in me grandi aspettative e non si spiegava tante mie stranezze. Inoltre, avendo avuto una vita privilegiata, mi sembrava sempre di camminare un gradino sopra agli altri e questo però mi faceva sentire distaccata dal mio ambiente, creandomi non poca sofferenza.
A venticinque anni andai a vivere da sola e, a causa di un’ennesima sofferenza sentimentale, mi tornò in mente la pratica buddista. Spinta dal desiderio di risolvere cominciai a praticare. Per una serie di circostanze tornai a casa dei miei genitori. Continuavo a praticare seriamente, col desiderio di “attirare” il compagno della mia vita. Vivendo con i miei “da praticante” ebbi modo di sciogliere tanti risentimenti nei loro confronti e riconoscere che non erano loro la causa delle mie sofferenze. Provai un grande amore, perdono e gratitudine verso la mia famiglia. Le mie tendenze di fondo però erano ancora tutte lì e, benché praticassi regolarmente, non partecipavo alle riunioni perché mi terrorizzavano. Significavano appunto mettermi in gioco e quindi facevo di tutto pur di non andarci. Dopo un periodo di pratica solitaria, cominciai a desiderare di praticare davanti a un Gohonzon vicino casa e così, forte del mio Daimoku, andai a una riunione. In quell’occasione conobbi Pino, responsabile di capitolo. Mi colpì immediatamente anche se non era il tipo ironico e cerebrale che ritenevo il mio “ideale di uomo”. Decisi di non giudicarlo subito e di affidarmi al Gohonzon. Cominciammo a frequentarci e di lì a due mesi stavamo insieme. Finalmente avevo trovato una persona davvero umana e piena di compassione che rideva di cuore del mio atteggiamento dimostrativo. Nell’arco di pochissimo tempo andai a vivere da lui. Spesso facevo le pulizie e preparavo tutto per la riunione di discussione per poi chiudermi in camera e non partecipare! Al piano di sotto abitavano i suoi genitori, persone molto semplici ma calorose e fui subito catturata da questo clima di famiglia così diverso dal mio anche per estrazione sociale. Grazie a loro ho potuto vedere molte cose da un altro punto di vista e trovare una dimensione mia, a metà strada tra le due realtà familiari.
In breve tempo ricevetti il Gohonzon, cominciai a partecipare alle riunioni e cambiai radicalmente amicizie.
Pino è un pittore e pertanto non si poteva contare granché sulle sue entrate. Allora decisi che era tempo di mettermi in gioco anche sul piano lavorativo e trovai un posto fisso in un grande ufficio, con grande gioia anche da parte di mia madre. In quell’ufficio ho fatto tantissime esperienze e, dato che tutti sapevano che ero buddista, nessuna di queste passava inosservata. Moltissimi colleghi hanno creato un legame con la pratica, hanno partecipato alle riunioni e una mia collega, non solo grazie a me, ha iniziato a recitare e ha ricevuto il Gohonzon.
Poi io e Pino ci sposammo. Mio padre mi regalò un anticipo per fare un investimento e io comprai un monolocale nel centro di Roma. Sentivo che la mia nuova strada era stata determinata esclusivamente dalla pratica buddista e che mai avrei potuto operare un cambiamento interiore del genere senza l’“occhio del Budda”.
Col passare del tempo però emergeva sempre di più un problema di coppia. Pino tra i venti e i trent’anni si era dedicato seriamente alla pittura e all’attività buddista e non aveva seminato nulla di concreto sul piano professionale. Anche se si dava da fare, per diversi anni fui solo io a portare a casa uno stipendio e questa cosa cominciava a pesarmi. Non accettavo che non riuscisse a sfondare questo muro. Lui faceva due ore di Daimoku al giorno e cominciò a mettere le mani sul computer. Il mondo dei videogiochi lo appassionava e studiava giorno e notte per poter lavorare in quel settore come artista. Io ero arrabbiatissima perché in Italia non c’è mercato in quel settore e quindi reputavo il suo atteggiamento immaturo, irresponsabile, nonché irrispettoso nei miei confronti. Ero stanca e preoccupata e il mio Daimoku si era notevolmente affievolito. Anche se avevamo una casa di proprietà (la sua!) e quell’immobile in centro, non avevamo soldi liquidi. Desideravamo avere un bambino e con un atto di fede decidemmo di averlo comunque, convinti che così facendo le cose poi si sarebbero dovute sistemare per forza. A gennaio del 2001 è nata nostra figlia Barbara. È nata di sette mesi, pesava solo 1.250 kg ma era sana come un pesce.
Intanto nonostante la mia disapprovazione, Pino continuava a studiare, a recitare tanto Daimoku e a mandare curriculum in giro per il mondo. Il fatto che non parlasse una parola di inglese rendeva il tutto ancora più improbabile. Arrivata al culmine della mia frustrazione capii che per quanto ciò mi costasse fatica, l’unica soluzione era sostenere Pino poiché altrimenti non sarebbe mai stato felice. Gli dissi quindi che questo problema dell’inglese era solo un limite della sua mente. Di nuovo in itai doshin, cioè uniti verso uno stesso scopo, di lì a poco ricevemmo una telefonata dalla Germania. Era una società emergente di videogiochi che gli offriva un prestigioso lavoro e lo voleva in sede al di là del problema della lingua. Gioia e panico. Si era davvero realizzato uno scopo impossibile. Questa casa di videogiochi, benché emergente, stava producendo un gioco che prometteva un grande successo e infatti ora che sta per uscire ha già superato il record di prevendite, ha ricevuto vari premi e sarà uno dei videogiochi più venduti a livello mondiale di tutto il 2004! Ma all’epoca non lo sapevamo e ci affidammo al Gohonzon. Io ho sempre amato i paesi del nord e quindi, con una bambina di un anno, coraggiosamente mi licenziai dal lavoro e ci trasferimmo a Coburg, in Baviera. Ora la situazione era ribaltata. Pino lavorava e guadagnava bene e io stavo a casa con la bimba. Avevo tanto tempo libero e ricominciai a recitare Daimoku con grande determinazione. Quando siamo partiti Pino aveva le idee chiare. Un paio d’anni in Germania e poi si torna a Roma. Ma io pensavo: «Come ci torniamo a Roma se per lui non c’è nessuna possibilità di lavoro?» Io invece ero già proiettata sul fatto di vivere in Germania e avevo già deciso tanti scopi fra cui una bella casa in un bel quartiere. Mentre Pino lavorava, io mi dedicavo all’attività buddista, cosa molto rivoluzionaria per me. Il luogo di riunione più vicino era a cento chilometri, così, con i tre praticanti della cittadina, inaugurammo il primo gruppo di Coburg a casa nostra! Mi resi conto di quanto ogni piccola frase o riunione alla quale avessi partecipato mi tornasse ora utile e mi rammaricai di non avere mai partecipato molto all’attività buddista. Veder crescere le persone era una gioia immensa, ben maggiore di avere la bella casa in centro che ormai era passata in secondo piano.
Ma dopo circa un annetto, la permanenza in Germania cominciava a farsi pesante. Non avevo prospettive di lavoro e passavo troppo tempo in casa con mia figlia. La cittadina mi stava stretta e una forma di esaurimento mi costrinse a rientrare a Roma. Io e Pino passammo diversi mesi separati e fu molto dura. Decidemmo che non volevamo più vivere lì ed eravamo anche disposti a rinunciare alla sua tanto sudata e prestigiosa carriera, anche se il vero desiderio era tornare a Roma e mantenere il rapporto di lavoro via Internet, cosa che l’ufficio aveva già categoricamente escluso nel contratto. Il mio rientro forzato a Roma fu un demone che di trasformò in alleato perché ci spinse a determinare fino in fondo come volevamo che fosse il nostro ritorno definitivo. Pino si era reso indispensabile in ufficio e i suoi capi gli accordarono, con grande scalpore dei colleghi, di lavorare a distanza via Internet. Addirittura ci chiesero che tipo di contratto e di soluzione specifica volevamo! La mia esperienza “da pioniera” in Germania ha fatto sì che tornassi a Roma con una fede cresciuta e rafforzata e finalmente ho accettato la responsabilità di un gruppo. Ora ho un bellissimo rapporto con mia madre, di rispetto reciproco, profonda comprensione e complicità e passiamo molto tempo insieme. Ringrazio di cuore tutti coloro che mi sono stati accanto in questo percorso di fede.

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