Deborah Papisca, mamma di Camilla e autrice del libro Di materno avevo solo il latte, racconta come da una lunga e dolorosa esperienza di depressione post parto sia riuscita a realizzare due sogni in uno: vedere pubblicato un suo romanzo e, tramite questo, aiutare altre donne afflitte dallo stesso problema
L’incapacità di sentirti madre ti ha portato a fare la scrittrice. Come è accaduto?
Quando ho partorito mia figlia ero al settimo cielo. Caspita, ero diventata mamma! Ed ero sicura che sarei stata una buona mamma, equilibrata e indipendente, che avrebbe cresciuto la propria bambina con le sue forze, chiedendo poco aiuto ai familiari. Ci tenevo moltissimo a creare una mia intimità con Camilla. Ma niente è andato secondo le aspettative, che durante i nove mesi di gravidanza erano cresciute in modo esponenziale.
Una volta tornata a casa, dopo i classici tre giorni d’ospedale, sono piombata in un profondo malessere interiore, non ero affatto felice, non provavo nessun sentimento professato dalle numerose pubblicità dedicate alla maternità. Altroché mamma con il look perfetto e sorriso stampato in faccia, io ero una specie di anima in pena che vagava per casa con la sua bimba in braccio in cerca di pace. Poi ho capito dopo una settimana di delirio che c’era qualcosa che non andava, non era affatto normale il mio comportamento, così ho provato a cercare qualcosa in merito su internet poiché nessuno della mia famiglia o i miei amici riuscivano a capire cosa mi stesse succedendo. E ho scoperto di soffrire di depressione post parto di cui mai avevo sentito parlare. Si tratta di un disturbo serio che colpisce almeno il quindici per cento delle neomamme e se trascurato può sfociare in forme molto più acute che richiedono addirittura il ricovero ospedaliero.
Come hai fatto a uscire da questa situazione?
Non ho perso tempo: ho chiesto subito un aiuto massiccio a mia madre, ai miei suoceri e ovviamente a mio marito. Ho confessato apertamente, malgrado l’ orgoglio e l’amara sensazione della sconfitta, di non essere in grado di restare sola con la bimba né di affrontare la quotidianità. Per fortuna mi sono stati tutti vicini dandomi una grossa mano a livello pratico. Ma io ho dovuto convivere per oltre un anno con un demone più grande di me: quello che mi sussurrava ogni giorno il mio fallimento e la mia inadeguatezza a crescere un figlio. È stato terribile, spesso mi svegliavo in piena notte con la convinzione che non ce l’avrei fatta a uscire dal mio inferno. Ma ho tenuto duro, l’istinto di sopravvivenza e l’amore per Camilla mi hanno spinto a intraprendere un viaggio interiore per ricercare me stessa e trovare un “posto” in cui potermi sentire del tutto a mio agio, come fossi a casa mia, e l’ho trovato nel recitare Nam-myoho-renge-kyo.
La prima volta che ho sperimentato la pratica ho avuto l’impressione di incamerare aria pulita a pieni polmoni dopo un tempo indefinito in cui ero sopravvissuta senza ossigeno. Solo allora sono riuscita a vedermi, a scrutare la mia intera vita e delineare ciò che desideravo davvero per me. E ho visto una donna che ha vissuto, sì, intensamente, ma solo in modo parziale, soprattutto nella sfera lavorativa.
Recitare Daimoku mi ha permesso di mettere in luce tanti lati oscuri, di vedere più chiaramente di cosa avessi davvero bisogno. Ho iniziato a scrivere la mia esperienza, mi serviva come valvola di sfogo, riuscivo in qualche modo a esorcizzare una situazione che aveva dell’assurdo: come si può essere infelici dopo l’arrivo di un bambino tanto desiderato? Lentamente la nebbia si è diradata e a un tratto ho visto che cosa avrei voluto fare “da grande”: io volevo scrivere. Una mia antica passione!
Gli argomenti da trattare li avevo, poiché essere diventata mamma mi ha fornito un pozzo infinito di vicende che non potevo tenere solo per me stessa. Così, da una necessità personale è nato il mio romanzo che è poi diventato la storia di migliaia di donne. E dire che credevo di essere l’unica al mondo a sentirmi così inadatta e incapace a ricoprire uno dei ruoli più ambiti dall’universo femminile…
Questo perché si crede che il senso materno sia qualcosa di strettamente connaturato con l’essere donna, invece non è assolutamente così. Tu, per esempio cosa hai scoperto nel diventare mamma?
Come dice il titolo del mio libro io, di materno, avevo solo il latte. Il ritorno a casa subito dopo il parto, mi ha presentato una dimensione del tutto estranea e molto diversa da quella che viene dipinta a tinte rosa dal mondo. Una condizione spiacevole che implica un distacco doloroso dalla tua vita precedente. La nascita di un figlio è un cambiamento forte e inaspettato ed è anche sinonimo di sacrificio e rinuncia di se stessi. A quel punto a me è accaduto che la vita precedente l’avrei rivoluta indietro, senza nemmeno pensarci due volte. Poi ho scoperto una cosa fondamentale: che quel distacco dalla “vecchia me” così tormentato, fatto di lacrime disperate e desiderio impossibile di poter tornare sulla strada precedente è stato quanto di più necessario potessi vivere. Solo attraverso un viaggio così faticoso ho conquistato l’equilibrio che cercavo da sempre e la mia bambina è stata lo strumento meraviglioso che mi ha dato questa possibilità.
Facendo un bilancio di questi ultimi sei anni in cui ho subìto una lenta e indispensabile metamorfosi posso assolutamente confermare che quelle che Oscar Wilde definisce “percosse di dolore nella nostra esistenza” sono occasioni importanti di crescita malgrado ti facciano pensare che tu da una situazione così nera non potrai più uscirne. Ma non è così, se riuscissimo a essere consapevoli che i picchi massimi di sofferenza a cui la vita ci sottopone sono le più grandi possibilità di riscatto, quelle preziose occasioni che permettono di rafforzarci, vedremmo il dolore sotto una luce molto diversa.
E il Daimoku mi ha assicurato tutto questo. Attraverso la recitazione ho acquisito la capacità di vedere la mia malattia come lo strumento che mi ha permesso di realizzare il sogno di una vita: vedere pubblicato un mio romanzo. Che è andato oltre il semplice libro disponibile in libreria, trasformandosi in un piccolo grande veicolo che sostiene le donne che soffrono di depressione post parto.
La depressione post parto è ancora troppo poco conosciuta, purtroppo. Il tuo impegno nell’aiutare le neomamme ad affrontare il cambiamento è lodevole, ma qual è stato il ruolo del Buddismo?
La depressione post parto non va sottovaluta. Occorre darle la giusta valenza e conoscerla a fondo per poterla classificare ufficialmente come una malattia vera e propria perché se trascurata si acutizza al punto di poter annullare la donna e sfociare in tragedia.
Perciò è necessaria una forte campagna di sensibilizzazione che scalzi l’ignoranza dilagante nella nostra società. Noi siamo molto più ricettivi verso le malattie visibili piuttosto che quelle psichiche che, a mio avviso, sono le più subdole e pericolose.
La depressione post parto per me è stata una spinta a cercare me stessa, a ristrutturare una mia interiorità che vacillava da troppo tempo. E quando mi sono avvicinata al Buddismo di Nichiren ho percepito la sensazione di essere stata accolta in un luogo confortevole, amorevole e pieno di premure nei miei confronti. Attenzioni che desideravo più di ogni altra cosa. Non che mi mancassero nella mia vita, visto che sono sempre stata molto amata da tutti. Ma c’era una persona piuttosto restìa a dimostrarmi il suo affetto: io stessa.
E il Daimoku per me ha significato un diritto che sentivo di meritarmi. Ogni volta che recito davanti al Gohonzon è come se ricevessi un abbraccio stretto e una tenera carezza sulla guancia dalla mia stessa vita. Credo di essermi fatta un bellissimo regalo. E, infine, la pratica mi ha aiutata a capirmi e a vedermi finalmente come una buona madre che ama in modo assoluto sua figlia, malgrado io sia piena zeppa di limiti e ogni giorno mi metta in discussione…
Il Daimoku mi ha aiutata a realizzare obiettivi più concreti come la pubblicazione del romanzo, ma soprattutto a vedere oltre le prospettive materiali del successo o di tutto ciò che è legato alla figura di chi “ce l’ha fatta”.
Il mio grande, grandissimo successo sono le mamme che mi scrivono quotidianamente e che mi dicono grazie; leggendo la mia storia hanno potuto vedere e sentire che c’è speranza, si identificano e condividono con me gioie, difficoltà e dolori della maternità, scalzando in primis la paura di essere giudicate. Loro sono la mia energia e il mio punto di riferimento. Ne è la prova il blog (www.oasidellemamme.it), che gestisco da un anno con due bravissime blogger, Barbara ed Enrica, tutto dedicato alle mamme e al loro benessere, che sta spopolando e ottenendo dei riscontri inaspettati. Questa è la mia grande missione!
Qualche parola per definire il tuo percorso e incoraggiare le mamme che ci leggono.
Coraggio per guardarsi ogni giorno allo specchio, rinnovare ogni volta la propria fede anche se spesso ci si sente stanche psicologicamente o si coltivano dubbi sulla possibile riuscita di ciò che vorremmo realizzare. Capaci di essere un prezioso sostegno per se stesse e per i propri bambini. Non dimentichiamo che i figli sono felici e potranno godere di una bella esistenza se i genitori sono felici.
Determinazione per vivere al meglio.
Darsi sempre una possibilità, mettersi in gioco ed educare i figli a non mollare mai e a rialzarsi ogni volta dopo una caduta. Mai coltivare dubbi su ciò che siamo e su ciò che vogliamo. Amiamoci appassionatamente fino alla radice del nostro animo e viviamo i minuti e le ore delle nostre giornate con infinita gratitudine per ciò che siamo e ciò che saremo.