Pratico il Buddismo da circa un anno.
Non avrei mai iniziato se non mi fossi trovata in una situazione di dolore così profondo e di disperazione. Non avevo più niente da perdere perché il verdetto peggiore era stato emesso senza possibilità di appello. Tuttavia respingevo l’idea di caricare la mia mente e il mio corpo di una fatica ulteriore, il Daimoku. Lo feci solo per incoraggiare Maurizio, il mio compagno da sedici anni.
I primi mesi che seguirono alla diagnosi di tumore maligno incurabile furono devastanti. Mi fu consigliato di mentirgli, di raccontargli una storia ben confezionata che motivasse validamente la sua lotta tenace contro la malattia. Non potevo piangere perché lo avrei insospettito e per non destare dubbi nei miei figli. Il pianto represso mi soffocava, sarei voluta scappare lontano e dimenticare questa vita che ci portava via Maurizio. Io non sono una persona coraggiosa. Eppure sono dovuta passare attraverso tutte le tappe, che con un ritmo continuo e incessante mi mettevano a sempre più dura prova. Avrei voluto che fosse stato un brutto sogno.
Forse fu un caso, ma durante il primo capodanno successivo alla diagnosi recitammo insieme a dei cari amici e facemmo Gongyo. Ma ci volle un anno perché decidessi di continuare. Sono scettica e diffidente. Ci misero in contatto con una ragazza buddista della nostra zona. Alle prime riunioni Maurizio andò da solo, io non avevo neanche molta voglia, poi cominciai ad accompagnarlo perché i suoi problemi fisici si facevano più evidenti. Il calore delle persone del gruppo mi dette forza e, anzi trovavo imbarazzante l’incalzare delle telefonate di coloro che facevano il nostro numero e si interessavano a noi.
Gli ultimi mesi di vita di Maurizio li ho passati per lo più con lui in ospedale. C’era una bella atmosfera. Lui amava scherzare e giocare con tutti. Una sagace e irriducibile ironia era la sua forza. Io recitavo durante i viaggi e quanto più possibile accanto a lui. La pratica mi ha dato la forza di tenere la testa alta di fronte a lui e di alzarmi ogni mattina con ottimismo.
Ho fatto molta strada, rispetto ai pianti disperati dei primi mesi che mi svuotavano soltanto di ogni energia e mi prostravano di fronte al destino. Fino all’ultimo soffio del suo respiro ho sperato sinceramente e con tutta me stessa che si realizzasse il primo desiderio che mi era posta all’inizio dell’anno, la sua guarigione. L’ho sperato anche per egoismo, perché non potevo immaginare di riuscire a vivere dignitosamente sciogliendo il nodo della mia e la sua esistenza.
L’ultima parola che ha detto è stato il mio nome. Quando il suo cuore si è fermato, si è fermato tutto, tutto è rimasto immobile, cristallizzato. Niente aveva più senso. Le sue mani che tante volte si erano posate su di me erano ora immobili, gelide. Maurizio congedandosi da me ha voluto ancora porgermi la mano e mi ha lasciato in eredità anche il Buddismo. Il suo profondo laicismo era permeato da una profonda religiosità per la sacralità della vita e un grandissimo rispetto per ogni essere. Non c’è niente di più banale e scontato che l’apologetico panegirico di chi non c’è più, ma non è quello che voglio fare.
Maurizio era un uomo semplice che ribadiva quanto fosse importante avere uno scopo da dover perseguire e per il quale dover lottare. Questo perché pretendessi dalla mia vita la realizzazione dei miei sogni, senza fretta ma con metodo, e perché non mi limitassi a condurre un’esistenza marginale. Per questo e non solo penso a volte che la sua anima era buddista ancor prima che lo fosse anche verbalmente. Anche se io credo che ciò che conta è ciò che creiamo intorno a noi e le visite numerosissime e continue per tutti i mesi della sua degenza ne sono state la dimostrazione.
La sua morte mi ha dato una visibilità che altrimenti non avrei mai avuto, mi ha reso coprotagonista di una storia di un karma immutabile e mi ha obbligato ancora una volta a confrontarmi con la necessità di rendermi protagonista assoluta della mia vita. Trasformare il veleno in medicina.
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