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L'origine dipendente - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 09:30

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L’origine dipendente

Il Buddismo è una pratica dinamica che porta le persone ad affrontare le sofferenze e le conduce verso la felicità. In questa sezione affrontiamo i princìpi fondamentali della filosofia buddista, raccontiamo attraverso testimonianze i cambiamenti che le persone hanno sperimentato nella loro vita, percorriamo le tappe principali della storia del Buddismo, rispondiamo ad alcune domande e presentiamo alcuni scritti di Nichiren avvertendo i lettori che gli articoli che compongono queste pagine non sono sempre legati fra loro

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Il Buddismo è una pratica dinamica che porta le persone ad affrontare le sofferenze e le conduce verso la felicità. In questa sezione affrontiamo i princìpi fondamentali della filosofia buddista, raccontiamo attraverso testimonianze i cambiamenti che le persone hanno sperimentato nella loro vita, percorriamo le tappe principali della storia del Buddismo, rispondiamo ad alcune domande e presentiamo alcuni scritti di Nichiren avvertendo i lettori che gli articoli che compongono queste pagine non sono sempre legati fra loro

Con il termine “origine dipendente” nel Buddismo si vuole esprimere il concetto che nessun essere o fenomeno esiste in sé, ma solo in relazione ad altri esseri o fenomeni. Ogni cosa viene a esistere in risposta a cause e condizioni, cioè niente esiste indipendentemente da altre cose, né può manifestarsi in completo isolamento (DB, 535). Il termine usato in giapponese è engi, letteralmente “sorgere in relazione”. Tutti gli esseri e i fenomeni esistono o accadono a causa della loro relazione con altri esseri o fenomeni e ogni cosa nel mondo viene a esistere in risposta a cause e condizioni.
Per spiegare l’origine dipendente, Shakyamuni usò l’immagine di due fasci di canne che si inclinano l’uno contro l’altro per stare eretti: se uno dei due viene rimosso, allora anche l’altro cadrà. Nel Samyutta-nikaya, un testo classico del Buddismo antico, si legge: «Poiché vi è questo, quello viene a esistere. Dall’apparire di questo viene quello; se questo è assente, quello non è; cessato quello, questo cessa». Questa affermazione è una delle più antiche formulazioni del concetto di interdipendenza di tutti i fenomeni. In senso più specifico, questo significa che le nostre vite sono in costante sviluppo dinamico, con una sinergia tra le cause interne della nostra vita (la personalità, l’esperienza, la visione della vita ecc.), le condizioni esterne e le relazioni intorno a noi. Ogni esistenza individuale contribuisce a creare l’ambiente che sostiene tutte le altre esistenze. Tutte le cose si supportano e si relazionano a vicenda, creando un unico universo vivente.
Esiste una bella parabola che parla di questa splendida coesistenza armoniosa: «Sospesa sopra la reggia del dio Indra, simbolo delle forze naturali che nutrono e proteggono la vita, vi è una vastissima rete. A ognuno dei suoi nodi è legato un gioiello. Ogni gioiello riflette in sé l’immagine di tutti gli altri, rendendo la rete meravigliosamente luminosa» (cfr D. Ikeda, Proposta di pace 1997, DU, 61, 12). Percepire l’esistenza delle miriadi di interconnessioni che ci legano alle altre vite aiuta a comprendere che l’esistenza può divenire piena di significato proprio attraverso le relazioni con gli altri, e che la nostra identità si può così sviluppare e migliorare. Come nella rete di Indra, dove ogni gioiello diventa più luminoso riflettendo la luce degli altri, anche la nostra vita può arricchirsi e diventare luminosa comprendendo e rispettando le altre esistenze.
A questo proposito Nichiren scrive: «Ciò che dai a un altro diverrà il tuo stesso nutrimento, se accendi una lanterna a un’altra persona, la sua luce illuminerà anche il tuo cammino» (Le tre virtù dei cibi, GZ, 1598); lavorando per la felicità e il benessere degli altri intraprendiamo un cammino che fa risplendere d’immensa lucentezza la nostra vita. Nello stesso modo, impegnarsi per la propria rivoluzione umana arreca beneficio a tutto il nostro ambiente. Questa reciproca interconnessione esiste nella natura, nelle relazioni tra esseri umani e ambiente, tra l’individuo e la società, genitori e figli, marito e moglie. Se si guardano le situazioni pratiche dal punto di vista di “a causa di questo, quello esiste” o, in altre parole, a “causa di questa persona, io posso svilupparmi”, diventa naturale superare i punti di conflitto nelle relazioni umane. Nel caso di una giovane donna sposata, per esempio, la sua esistenza presente è in relazione con suo marito e sua suocera, non importa che tipi di persone essi possano essere. Comprendendo questo principio è possibile trasformare tutto, sia il buono che il cattivo, in un impulso per la crescita e lo sviluppo personale.
A un livello profondo non siamo collegati solo con le cose fisicamente vicine a noi, ma con ogni essere vivente e ogni nostra azione ha immancabilmente un effetto nell’ambiente e sugli altri esseri viventi, così come ogni azione compiuta dagli altri, anche apparentemente lontana, in qualche modo influenza la nostra esistenza. La comprensione delle interconnessioni delle vite può portare a un mondo più pacifico: con la consapevolezza di essere uniti da un profondo legame e di far tutti parte di un unico universo vivente, possiamo smettere di litigare e di ingannarci l’un l’altro e trovare insieme la strada per la risoluzione dei conflitti.

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la Storia (2) / La trasmissione dell’insegnamento

Shakyamuni aveva predicato la Legge senza lasciare testimonianze scritte. Il problema che si presentò alla sua morte fu quindi quello della definizione e trasmissione dell’insegnamento, e a tale scopo tutti i discepoli si riunirono in vari concili. Il primo concilio si tenne intorno all’anno 480 a.C., subito dopo la morte di Shakyamuni, presso la Grotta delle Sette Foglie a Rajagaha, allo scopo di riordinare le testimonianze delle sue predicazioni e poter così preservare la Legge. Durante questo primo Concilio i sutra furono recitati in gruppo affinché ognuno potesse memorizzarli e stabilire quando tutti fossero d’accordo sulla versione definitiva. Nel 386 o 376 a.C. circa si tenne il secondo concilio a Vaisali, città in cui i monaci avevano da tempo adottato delle pratiche discutibili: questi monaci furono messi a confronto con altri provenienti da tutta l’India e alla fine venne deciso da tutti i presenti un codice di comportamento. Il terzo concilio fu organizzato a Pataliputra nel 350 a.C. per discutere alcune tesi di un monaco (Mahadeva), giudicate scorrette. L’assemblea si pronunciò a favore del monaco e prese atto dell’avvenuta scissione tra gli anziani (thera) e il grande gruppo (mahasamghika). La posizione di Mahadeva, senza entrare nel merito delle questioni, dava maggior risalto ai laici e, da queste premesse, si svilupperà poi la corrente mahayana.
Il quarto concilio fu convocato da Ashoka il Grande nel 250 a.C., perché era preoccupato dall’approfondirsi degli scismi in seno alla comunità. Ashoka, conosciuto nei primi anni di regno per la sua crudeltà, fu, nel suo tempo, un re di straordinaria importanza perché, dopo essersi convertito al Buddismo, adottò una serie di misure di governo fondate sui princìpi buddisti. Proibì di uccidere e sacrificare animali, costruì ospedali sia per gli umani che per gli animali, fece piantare alberi, costruire pozzi, produrre erbe medicinali, ordinò la scarcerazione dei prigionieri. Le sue volontà venivano incise in editti rupestri, molti dei quali sono rimasti fino ai nostri giorni. Sotto il suo governo il regno mantenne la pace per trentasette anni.
Nel quarto concilio si cercò di frenare le tendenze scismatiche che cominciavano a differenziare l’insegnamento e che un paio di secoli più tardi daranno origine a due scuole fondamentali: la scuola del cosiddetto piccolo veicolo o Hinayana e quella del grande veicolo o Mahayana.

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Gli scritti di Nichiren Daishonin
Il mezzo meraviglioso per superare gli ostacoli (WND, 1, 849 – cfr. SND, 9, 119)

«Se esaminiamo l’insegnamento originale e transitorio del Sutra del Loto, vediamo che quest’ultimo continua a sostenere, come [gli insegnamenti che sono venuti] prima, che il Budda conseguì per la prima volta l’Illuminazione nella sua vita presente; perciò è un insegnamento ancora ingombro di ostacoli. L’insegnamento originale è libero da tali ostacoli, tuttavia, paragonato ai cinque caratteri del Daimoku, è una dottrina non adatta alla capacità delle persone nell’Ultimo giorno della Legge. Il mezzo meraviglioso per porre veramente fine agli ostacoli fisici e spirituali di tutti gli esseri viventi non è altro che Nam-myoho-renge-kyo.
Nichiren

Risposta a Shijo Kingo»

CENNI STORICI – In questa lettera, di cui non si conosce la data, il Daishonin spiega che, poiché l’insegnamento transitorio (prima metà) del Sutra del Loto non rivela l’eternità della Buddità, la visione della vita che esso offre è superficiale e non ha il potere di aiutare le persone a superare gli ostacoli e gli impedimenti che derivano dall’oscurità fondamentale della vita. L’insegnamento originale (seconda metà) del Sutra del Loto rivela invece che il Budda Shakyamuni ottenne l’Illuminazione innumerevoli eoni fa, ma non è comunque in grado di salvare le persone dell’Ultimo giorno della Legge che non hanno la capacità di trarre beneficio da esso. Solo i cinque caratteri di Nam-myoho-renge-kyo, conclude il Daishonin, possono condurle alla Buddità.

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