Quelli che credono nel Sutra del Loto sono come l’inverno, che si trasforma sempre in primavera. Non ho mai visto né udito di un inverno che si sia trasformato in autunno, né ho mai sentito di alcun credente del Sutra del Loto che sia rimasto un comune mortale. Un brano del sutra dice: «Fra coloro che ascolteranno questa Legge, non vi è alcuno che non otterrà la Buddità». Tuo marito ha dato la vita per il Sutra del Loto. Il suo intero sostentamento dipendeva da un piccolo feudo che gli fu confiscato a causa della sua fede. Sicuramente ciò equivale a dare la vita per il Sutra del Loto. Sessen Doji offrì la sua vita per conoscere la metà di un insegnamento buddista, il bodhisattva Yakuo si bruciò i gomiti per fare un’offerta al Budda. Erano entrambi santi, perciò potevano sopportare queste austerità con la stessa facilità con cui si getta l’acqua sul fuoco. Tuo marito, però, era un comune mortale in balìa delle sofferenze come la carta nel fuoco. Perciò i benefici che riceverà saranno sicuramente grandi quanto i loro. È possibile che stia osservando giorno e notte sua moglie e i suoi figli negli specchi del sole e della luna. Dal momento che tu e i tuoi figli siete comuni mortali, non potete né vederlo né sentirlo, così come un sordo non può udire il fragore del tuono né un cieco vedere la luce del sole. Siate certi che egli vi è vicino e vi protegge.
L’inverno si trasforma sempre in primavera, SND, 4, 209
Da questo numero le lezioni di Gosho argomento delle riunioni mensili di studio non verranno più ospitate dal Nuovo Rinascimento. Il compito di sostenere lo studio e quindi fornire il materiale per le riunioni viene assunto da Buddismo e Società che già nel numero 116 (maggio-giugno 2006) presenta la spiegazione del Gosho Itai doshin, in programma per giugno. Il Nuovo Rinascimento presenterà periodicamente alcune riflessioni di autori diversi – scelti fra i membri dell’Istituto di maggior esperienza – su brevi brani dal Gosho. Riflessioni legate alla vita quotidiana che, ne siamo certi, hanno tutte le carte in regola per incoraggiare ogni lettore ad approfondire la sua fede.
In questo brano…
La forza di queste parole sta nel ribaltamento del concetto comune che le difficoltà debbano condurre necessariamente alla disperazione. In realtà, secondo il punto di vista del Buddismo, è quest’ultima, e non le difficoltà di per sé, a generare l’inferno nel cuore.
La condizione del mondo di Inferno che le persone vivono è spesso il riflesso della disperazione, della perdita del desiderio e dell’aspettativa di un cambiamento in meglio nella loro stessa vita. Ne L’inverno si trasforma sempre in primavera Nichiren Daishonin insegna a trasformare la disperazione in speranza e le pene dell’inferno in una genuina gioia di vivere.
Nichiren Daishonin scrisse questa lettera dal ritiro sul monte Minobu nel 1275 a Myoichi-ama, la vedova debole e malata di un samurai che, rimasta sola lottava per allevare i suoi due figli, uno dei quali malato.
Myoichi e il marito, discepoli fedeli di Nichiren, erano rimasti al suo fianco anche quando, sotto le persecuzioni dello shogunato, la maggior parte degli altri credenti aveva abiurato alla propria fede. Questa lealtà costò loro la confisca delle terre. Poco tempo dopo il marito morì ma, nonostante questa perdita e le difficoltà finanziarie, la donna continuò a sostenere Nichiren con offerte sia durante l’esilio a Sado che al suo ritorno nell’eremo in cui si era ritirato sul monte Minobu.
L’inverno si trasforma sempre in primavera per i credenti del Sutra del Loto, scrive Nichiren a Myoichi-ama sottolinenando così che la chiave per trasformare la disperazione in speranza è la fede nella Legge mistica. Per chi crede nella Legge di Nam-myoho-renge-kyo e manifesta la Buddità innata, le difficoltà dell’”inverno” della vita cedono sempre il passo alla “primavera” gioiosa. Con lo stesso innegabile ritmo stagionale Nichiren insegna che è possibile trasformare le difficoltà in una fonte di suprema realizzazione attivando dentro di sé la Legge mistica, il ritmo della speranza innato nella vita, con la recitazione di Nam-myoho-renge-kyo.
Dunque la chiave per trasformare la disperazione in speranza è la fede nell’insegnamento fondamentale del Sutra del Loto, ovvero la fede nella capacità di ognuno di creare la propria felicità senza dover cercare la salvezza dall’esterno. Ma la fede nel Buddismo di Nichiren va distinta dal vacuo ottimismo di chi si limita ad attendere che l’inverno si trasformi in primavera senza affrontare le avversità. E non si tratta neanche di mera autoconsolazione. La fede nel Buddismo di Nichiren equivale alla salda fiducia di essere in grado di affrontare e vincere qualsiasi avversità; significa aprirsi a quella verità della vita secondo cui la peggiore delle infelicità si può trasformare nella più grande delle gioie rivelando la Buddità intrinseca. Così come l’universo ha il potere di trasformare l’inverno in primavera, gli esseri umani hanno il potere di trasformare la disperazione in speranza.
A un’analisi superficiale Myoichi-ama aveva dovuto affrontare varie difficoltà a causa della sua fede ma, secondo una prospettiva più profonda, proprio grazie alla fede aveva imparato a trasformare le difficoltà in gioia. Per lei l’inverno divenne la causa della primavera e la sua pratica buddista diede un significato positivo alla sue difficoltà.
Le ho fatto posto nel mio cuore
Nella mia pratica buddista, ho avuto la fortuna di capire molto presto che era assurdo avere un rapporto critico con mia madre. Lei era costretta a letto da una grave e lunga malattia e dal letto guidava l’educazione di mio figlio e l’andamento di casa con un piglio, a mio vedere, severo e inflessibile, mentre io passavo tutta la mia giornata in un lavoro che ritenevo pessimo. Alle sette entravo in camera sua, l’accudivo, la sistemavo per la giornata e poi passavo a svegliare mio figlio per la scuola. Facevo tutto quello che c’era da fare, ma sempre con un fortissimo senso del dovere e con una disperazione tetra nel cuore che mi impediva di sperare qualcosa. Per recitare più Daimoku, mi alzavo sempre prima per poter trascorrere, la sera, quel poco tempo che avevo a disposizione veramente con loro.
Così ho sentito che volevo imparare a voler bene a mia madre proprio così com’era e non come avrei voluto che fosse. Mi sono anche messa dei piccoli obiettivi. Il primo è stato darle il buongiorno con un sorriso. Ci ho recitato moltissimo, atteggiavo la bocca al sorriso, perché in qualche modo quel “sorriso esterno” influenzasse a mo’ di abitudine la possibilità di quello interno. Dopo qualche giorno di allenamento, una mattina ho deciso che ci sarei riuscita. Entro in camera sua… ma non ci riesco. Sono arrabbiata e cerco altri cinque minuti per recitare Daimoku. Quando entro in camera sua, mia madre mi accoglie con il più bel sorriso del mondo. Mi metto allora l’obiettivo di salutarla con un sorriso e guardarla negli occhi per almeno cinque secondi, poi aggiungo una carezza, quel contatto fisico che sicuramente avevo molto con lei ma sempre e solo per dovere, per necessità e per cura, mai come un piccolo slancio di affetto, un gesto di gratitudine.
Una sera mi sono arrabbiata per qualcosa che era successo a casa e mia madre mi ha detto con quella sua aria distaccata: «Il Buddismo è già passato di moda?». Credo che se mi avesse sparato una fucilata in fronte sarebbe stato meglio.
Sono andata in terrazza a rimuginare e mi sono resa conto che non l’avevo ancora coinvolta nel Buddismo. Così ho cominciato a parlargliene, a leggerle il brano del Gosho L’inverno si trasforma sempre in primavera che inizia con «Quelli che credono nel Sutra del Loto sono come l’inverno, che si trasforma sempre in primavera…». e poco tempo dopo, una domenica mattina, mi sono inginocchiata a fianco del suo letto e ho cominciato a recitare Daimoku. Dopo un po’ ho sentito la sua voce delicata che si univa alla mia e mi si è sciolto il monte di nero che avevo dentro, si è sciolto in una tenerezza e in una gratitudine che non avevo mai provato. Abbiamo preso ad abbracciarci, a scherzare, a prenderci in giro. La mamma faceva shakubuku per telefono alle rare amiche che ancora aveva, studiava il Gosho, faceva Gongyo e Daimoku col pochissimo fiato che le restava, traduceva in italiano La famiglia creativa di Ikeda e mio figlio rifioriva.
A un tratto pensai: «Le voglio fare un regalo, ma non qualcosa che piace a me, qualcosa che possa veramente farle piacere…» e mi resi conto che io non sapevo quasi niente di lei, che avevo sempre dato tutto per scontato, in una parola che quasi non la conoscevo. Così raddoppiai il mio impegno nel Daimoku e recitavo perché fosse veramente felice. Per un po’ ho anche recitato perché guarisse ma in fondo questa non mi sembrava la cosa più importante, veramente importante era che stesse bene, che non soffrisse, che avesse il cuore allagato di gioia.
La mamma non è vissuta i due mesi diagnosticati dal medico. Ha vissuto un anno e otto mesi senza dover ricorrere alla morfina. Ha visto entrare il Gohonzon nella nostra casa, mio figlio è andato a comprare il mobiletto e in autobus, al ritorno, faceva shakubuku a tutti. La signora che aiutava la mamma mentre io ero a lavorare si è messa a recitare, uscendo da una grande crisi familiare. Sono stati i mesi più belli della nostra vita insieme. Ad agosto dell’ottantasei siamo rimaste sole, io e lei nella magia dell’essere insieme. Poi le si è paralizzata la gola e non sapendolo le ho dato da bere e lei ha cominciato a tossire e a soffrire. Non lo sopportavo, morire poteva morire ma non poteva soffrire, non era giusto. Chiesi subito aiuto e il mio responsabile di capitolo venne e mi sostenne con queste parole: «Senza morte non c’è nascita. Tutto muore e rinasce. Così come dopo una giornata molto attiva si è stanchi e si dorme, allo stesso modo dopo una vita lunga si è stanchi e si muore. Se la giornata è stata buona si dorme bene, se la vita è stata buona si muore bene». Capii recitando Daimoku che la mamma aveva il diritto di vivere e di morire, e se a me la morte dava tanta sofferenza era perché evidentemente avevo avuto dei cattivi rapporti con la morte nel passato; quando sentii che il mio cuore era diventato dolce e affettuoso, la mamma smise di tossire e di soffrire. Siamo state insieme fino al pomeriggio del giorno seguente, beandoci l’una dell’altra, capendoci benissimo anche se lei non parlava più. Ho fatto Gongyo tenendole la mano e poi le ho dato un gran bacione. Lei sorrideva.
Accanto a lei ho recitato piano piano per non disturbarla nei primi passi del suo viaggio e quando l’atmosfera si è diradata le ho dato un bel bacio, scusandomi perché la dovevo far bella per gli ospiti che sarebbero venuti a darle un ultimo salutino. Non sentivo la sua mancanza perché era tutta dentro di me, sedeva nella più comoda poltrona del mio cuore.