Sviluppa sempre di più la tua fede fino all’ultimo istante, altrimenti avrai dei rimpianti. Per esempio, il viaggio da Kamakura a Kyoto dura dodici giorni: se viaggi per undici giorni e ti fermi quando ne manca uno solo, come puoi ammirare la luna sopra la capitale?
tratto da Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 4, pag. 209
In questo brano…
Nichiren Daishonin scrive questo Gosho nel 1280 da Minobu, all’età di cinquantanove anni. La lettera è indirizzata a Niike Saemon no-jo, un samurai del governo di Kamakura. Il suo nome è dovuto al luogo in cui viveva, nella zona di Iwata della provincia di Totomi, Niike appunto. Era stato convertito assieme alla moglie da Nikko Shonin. Le notizie su Niike non sono molte, si sa che era un seguace devoto e che conservò la sua fede anche nei momenti di maggiore persecuzione contro il Daishonin.
In questo scritto, che contiene molti passaggi in cui l’aspetto dottrinale è espresso in modo sublime e poetico, Nichiren espone diversi concetti importanti per i praticanti dell’Ultimo giorno della Legge. All’inizio egli ricorda la fortuna di praticare nell’Ultimo giorno della Legge, perché tramite la pratica di Nam-myoho-renge-kyo si sviluppa la fede nel Sutra del Loto e la fede nel Sutra del Loto permette di trasformare il karma negativo accumulato nel passato.
Poiché la vita è impermanente, Nichiren esorta il discepolo a superare l’attaccamento a essa costruendo una visione più ampia.
Vivere con gratitudine attiva la protezione delle divinità buddiste. Nichiren Daishonin spiega che il Giappone della sua epoca vive difficoltà e calamità proprio perché, non essendo grato al Sutra del Loto, e anzi rifiutandolo, si è attirato le punizioni che le divinità e i bodhisattva avevano promesso a chi offendeva la Legge dell’universo.
Uno dei passaggi fondamentali del Gosho consiste nell’incoraggiamento a sviluppare la propria fede e la propria pratica dal primo all’ultimo istante, “fino in fondo” come si suol dire. La riflessione precedente parla proprio di questo atteggiamento vissuto concretamente.
In viaggio con il Daimoku
Questa frase di Gosho è sempre stata nel mio cuore. Conservo ancora il foglietto, ora ormai sbiadito e stropicciato, in cui l’ho annotata circa quattordici anni fa insieme ad altre frasi, quando ho iniziato a praticare questo Buddismo. Sono state tante, nel corso di questi anni, le occasioni di sperimentarla, di percorrere fino in fondo il “viaggio” di cui parla Nichiren Daishonin. Ma i “dodici giorni” più lunghi e difficili li ho “combattuti” tre anni fa. All’inizio del 2003 a mia madre fu diagnosticato un tumore ai polmoni. Quel 15 febbraio 2003, giorno in cui fu ricoverata in ospedale, mi disse senza mezzi termini una cosa che mi fece gelare il sangue: «Guarda che se muoio io, tuo padre morirà dal dispiacere». I miei genitori hanno trascorso gli oltre quaranta anni del loro matrimonio in perfetta “simbiosi”, nonostante i numerosi problemi della loro unione. Mai una volta lontani, se non per alcuni brevi ricoveri di mia madre (compreso quando sono nato io…). Ora, in quelle circostanze, vedendo la disperazione di mio padre e la sua assoluta mancanza di lucidità, mi resi conto che il rischio che quelle parole diventassero realtà era più che concreto. Non avevo altro che il Daimoku per fronteggiare tutto ciò. Recitai per tirar fuori mia madre dai guai, perché guarisse a tutti i costi, perchè quel maledetto tumore fosse sconfitto. Volevo assolutamente allungare la sua vita, così come aveva fatto Nichiren Daishonin, ma più facevo Daimoku più le cose si complicavano. Comunque andavo avanti e tornando davanti al Gohonzon il dolore si trasformava in gioia, una sensazione talmente bella che non è facile renderla a parole. Alla fine è arrivato l’undicesimo giorno, quello più difficile, quello in cui il dubbio che il Daimoku fatto non fosse servito a niente ha fatto capolino: dopo poco più di cinque mesi da quel 15 febbraio 2003 mia madre è morta. Durante quella che sarebbe stata la sua ultima notte, ho recitato Nam-myoho-renge-kyo vicino a lei pensando: «Se sei stanca vai a riposarti. Non preoccuparti per me, me la caverò». La situazione di completo caos familiare venutosi a creare e la prospettiva di perdere a breve anche mio padre, prostrato dal dolore, erano dei macigni che rischiavano di schiacciarmi. Ho raccolto tutto il mio coraggio per continuare il “viaggio” e ho recitato con tutte le forze per arrivare al “dodicesimo giorno”, a quella “Kyoto” di cui parla il Gosho, con la decisione di non preoccuparmi di cosa avrei trovato lungo il cammino. Il risultato? Mio padre ora vive una vita serena a fianco di una nuova compagna, una signora sua coetanea molto dolce e solare, e ha ritrovato stimoli e voglia di vivere. Morale della favola, il Daimoku non va mai perduto e se si percorre la strada fino il fondo, come dice il Gosho, si può davvero ammirare “la luna sopra la capitale”.