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L'arte, voce di un sogno collettivo - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 09:31

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L’arte, voce di un sogno collettivo

Virginia Zanetti, Firenze

Virginia Zanetti, artista toscana di fama internazionale ha trovato in kosen-rufu la chiave della sua poetica. «Ogni volta che mi dedico a un progetto – afferma – cerco di farne un sogno collettivo». Insegnante appassionata, crede nel potenziale dei giovani e nell’importanza di coltivare i propri talenti nel rispetto delle diversità

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Virginia Zanetti, artista toscana di fama internazionale ha trovato in kosen-rufu la chiave della sua poetica. «Ogni volta che mi dedico a un progetto – afferma – cerco di farne un sogno collettivo». Insegnante appassionata, crede nel potenziale dei giovani e nell’importanza di coltivare i propri talenti nel rispetto delle diversità

Qual è stata la “montagna” più alta da scalare per te?

La relazione con mio padre mi ha generato molta sofferenza. Lui se ne era andato da casa quando ero piccola pur rimanendo in qualche modo presente; per me era come un amico. Quando mi resi conto che le mancanze legate a questo rapporto erano un ostacolo alla realizzazione di una relazione di coppia felice, decisi di affrontare la cosa. Dovevo trovare il coraggio di dire a mio padre che avevo bisogno di lui come figlia. Fino ad allora la paura di non essere amata e la sofferenza dovuta al senso di abbandono impedivano ogni forma di richiesta matura d’amore da parte mia, così ogni volta che facevo il tentativo di andare in quella direzione regredivo allo stato infantile e venivo sovrastata dall’emotività. Chiesi aiuto ai compagni di fede e feci un percorso con una psicologa, ma dopo qualche seduta mi accorsi che c’era un livello più profondo a cui potevo accedere solo con la pratica buddista, col cuore sostenuto dalla fede. Il confronto con alcuni genitori alle riunioni di discussione mi è stato di grande aiuto per cominciare a vedere mio padre non più come una figura idealizzata e distorta, ma come un essere umano e a sviluppare compassione per lui. Due anni fa determinai, mettendo in pratica il Gosho di Capodanno, di parlarci e un giorno, dopo aver camminato insieme in montagna, mi aprii come un fiume in piena e gli raccontai tutto il mio dolore e le mie ragioni. Lì per lì non avvennero cambiamenti, non era così semplice.
Mi trasferii a Milano dove avevo preso uno studio e una casa a buon prezzo con l’intenzione di portare avanti il mio lavoro di artista. Nel frattempo però mio padre mi aveva consigliato di fare domanda di insegnamento vicino a casa sua. Per una serie di coincidenze, tra cui l’essere seconda in graduatoria per l’insegnamento e l’incontro col nuovo direttore del Centro per l’arte contemporanea di Prato che aveva mostrato interesse per i miei lavori, mio padre mi offrì una stanza a casa sua e a quel punto non c’era più motivo per non fare la figlia. Non è stato facile decidere di rimanere, ma avrei scavato la terra con le mani pur di trasformare questa relazione e poter vedere la vera natura di mio padre e quindi anche la mia. Adesso, all’età di trentaquattro anni, vivo con lui con tutto ciò che ne consegue, ma questa relazione mi ha dato l’occasione di conoscermi meglio e la forza di rilanciare tanti obiettivi. Anche sul lavoro, affidandomi al Gohonzon, sono riuscita a realizzare cose che sembravano impossibili.

In che modo la pratica sostiene la vita di un artista?

Credo che non serva praticare per essere un artista, però serve praticare per essere grandi artisti e per riuscire ad andare oltre il proprio ego. Nel mio caso è stato fondamentale distinguere bene fra il “piccolo io e il grande io”. All’inizio della mia carriera, finché mi sono dedicata all’arte solo per esprimere il mio piccolo io, ho creato delle cose oggettivamente belle, ma non ero pienamente consapevole del messaggio che potevo trasmettere attraverso questo mezzo. Un artista traduce nelle sue opere le proprie emozioni per parlare al mondo, però spesso ci si ferma solo all’espressione del sé, senza cogliere il potenziale globale che un’opera può avere nel trasmettere un messaggio o nel dare una visione. Un artista è un essere umano, ma come persona pubblica ha una grande responsabilità nei confronti degli altri e dovrebbe sempre tener conto di questo quando lavora. La pratica mi sostiene perché mi dà modo di tenere sempre presente questa responsabilità verso gli altri, mi rende più consapevole di quello che faccio e di come lo faccio.

Qual è l’insegnamento buddista più importante per il tuo lavoro?

Con il Buddismo ho imparato che non ci sono scorciatoie: la pratica corretta richiede fede, attività per gli altri e studio, e tutte e tre queste azioni si riflettono inevitabilmente nel lavoro. Nella mia professione ho fatto un grande salto di qualità quando ho cominciato ad applicare quotidianamente i princìpi buddisti che studiavo. Questo mi ha permesso di percepire meglio i fenomeni dell’esistenza e di crescere sia come persona che come artista. Poi le tematiche delle mie ricerche si sono fuse con la filosofia buddista dando vita ai miei lavori; ma questo ovviamente non basta perché poi, quando sei sul campo, ti scontri con le invidie, la competizione e la difficoltà di vivere in un Paese che non investe minimamente nella cultura, la totale mancanza di considerazione per il lavoro di artista nella nostra società. Così usare la strategia del Sutra del Loto e affidarmi al Daimoku mi ha permesso di sconfiggere le mie paure e di capire che non sono separata dal sistema, ma che il sistema cambia se io cambio atteggiamento e faccio un’azione più coraggiosa di quella dettata dal mio piccolo io: quella di mettermi al servizio degli altri e nel rispetto degli altri, cercando di andare contro le mie tendenze negative e di fornire un esempio di rivoluzione umana.

Emergere come artisti in Italia sembra un’utopia. Come hai fatto a capire la tua missione e a metterla al servizio della società?

Io attingo sempre alla base dell’insegnamento buddista seguendo le orme del nostro maestro e cercando di vincere con la prova concreta. Grazie al Daimoku ho compreso che fare l’artista era la mia missione, quello che sapevo fare meglio, ma per andare avanti mi sono serviti l’attività per gli altri e lo shakubuku. A questo ho legato grossi obiettivi di lavoro, e di conseguenza sono emersi ostacoli e stress, soprattutto in preparazione di una mostra ma, come insegna il presidente Ikeda, ho rilanciato ogni volta una nuova sfida per kosen-rufu. Sembra paradossale, ma dedicarmi agli altri quando ero nel caos più totale e quando non mi avanzava neanche un minuto di tempo è stata la mia arma vincente. Tutte le volte che avevo una performance o una grossa produzione da realizzare, ho deciso di dedicarmi agli altri, facendo il possibile per incontrare i membri e far conoscere il Buddismo ai miei collaboratori. Senza fare pressione, chiedo a quelli che lo desiderano di sperimentare la recitazione di Nam-myoho-renge-kyo e parlo con semplicità dei princìpi buddisti. Nei miei gruppi di lavoro ci sono sempre molti giovani. Io cerco di incoraggiarli a tirare fuori il loro potenziale attraverso il Daimoku, così che possano capire in prima persona come il Buddismo possa diventare un “metodo”. Tutto ciò crea maggior armonia nel gruppo e fa sviluppare compassione nei confronti delle persone che sembrano ostacolare il lavoro mentre invece stanno vivendo solo un disagio personale.

Cosa recepisce il pubblico di quello che c’è dietro un progetto?

La condivisione fatta nel gruppo si estende all’esperienza che fa il pubblico. Credo che l’originalità dei miei progetti dipenda proprio dal fatto che ho trovato in kosen-rufu la chiave della mia poetica e ogni volta che mi dedico a un progetto cerco sempre di farne un sogno collettivo. Quasi tutti i miei lavori nascono dal desiderio di trasformare una grande sofferenza. Per esempio dopo aver visto l’immagine della strage degli studenti in Kenya dello scorso aprile volevo trasformare lo smarrimento e la sofferenza provocate dalla violenza e dalla morte attraverso un processo artistico che potesse parlare a tutti coloro che avevano provato la stessa vertigine (nella foto sotto, un momento della performance). Grazie a una serie di coincidenze, una curatrice di Napoli mi ha invitato a partecipare a una performance in una galleria locale. Il primo passo è stato cercare subito dei compagni di fede per poter praticare con gli altri. Volevo coinvolgere persone comuni e giovani nel mio progetto così, attraverso l’Accademia delle Belle Arti di Napoli, sono riuscita ad avviare un workshop gratuito con gli studenti. Insieme abbiamo lavorato sul corpo e sul ritorno all’origine, abbracciando una ricerca filosofica che ci riportava a molti princìpi buddisti. Senza imporre a nessuno dei ragazzi coinvolti quello che avrebbe dovuto fare nella realizzazione del lavoro, ho aspettato che ognuno tirasse fuori la propria diversità e ricchezza nell’espressione della propria personalità; ho cercato di mettere tutti a proprio agio, come si fa a una riunione di discussione. È stato commovente sentire i racconti, recitare con loro e insieme a loro dar forma al mio progetto. Si è creata una tale unità che al momento della performance tutto si è svolto con naturalezza: il pubblico si è lasciato coinvolgere in questa ricerca dell’origine dipendente (engi) e, nonostante gli abiti eleganti, non ha esitato a tuffarsi nella performance, a farsi accompagnare a terra e a sporcarsi con la creta. L’intenzione collettiva e la preparazione quotidiana ha fatto sì che tutto funzionasse alla perfezione e soprattutto che tutti sperimentassero quella stessa unità a cui avevamo dato vita: dal ragazzo senegalese incontrato in un bar al direttore del Museo Madre, tutti hanno partecipato alla creazione di un’opera unica.

Come immagini il tuo futuro?

In una casa in mezzo alla natura dove poter accogliere tante persone con cui poter condividere tutto. Mi immagino felice con la mia futura famiglia e con una bella carriera incoraggiante per gli altri. Vorrei continuare a legare il mio lavoro di artista internazionale all’insegnamento per potermi mettere al servizio dei giovani. Fare l’artista e l’educatrice sono la missione e la sfida più grande perché mi danno la possibilità di migliorare tanti aspetti della mia vita e di portare avanti la mia rivoluzione umana.

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