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L'armonia che cresce nel tempo - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 09:32

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L’armonia che cresce nel tempo

Era il 1982 quando Giovanni, insieme a sua moglie Anna, confessava al Nuovo Rinascimento: «Mentre riposavo, mia moglie mi sentì invocare la morte. Accertatasi che non avessi parlato nel sonno, mi chiese perché volevo morire: le confidai che non era la prima volta che ciò accadeva». E oggi, dopo 29 anni di pratica buddista, i coniugi De Pasquale raccontano dove li ha condotti questa scelta e come essa sia alla base della loro unione

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Era il 1982 quando Giovanni, insieme a sua moglie Anna, confessava al Nuovo Rinascimento: «Mentre riposavo, mia moglie mi sentì invocare la morte. Accertatasi che non avessi parlato nel sonno, mi chiese perché volevo morire: le confidai che non era la prima volta che ciò accadeva». E oggi, dopo 29 anni di pratica buddista, i coniugi De Pasquale raccontano dove li ha condotti questa scelta e come essa sia alla base della loro unione

Redazione: Come avete incontrato la pratica?

GIOVANNI: È stato nostro figlio Massimo a parlarci per primo di questo Buddismo. Eravamo cattolici non praticanti e non abbiamo avuto eccessiva difficoltà ad accostarci a un nuovo insegnamento. Io ho iniziato subito a leggere i testi buddisti. Mia moglie invece ha iniziato a praticare per dimostrare, soprattutto a mio figlio, che “quella cosa non funzionava”!

ANNA: È vero. Non conoscevo il pensiero orientale. Quindi iniziai ad approfondire e a leggere quello che Massimo con perseveranza e rispetto mi presentava. Ma lo facevo unicamente per riuscire a confutare quanto sentivo così lontano da me per cultura. E poi, alla mia età, non pensavo certo che avrei potuto “cambiare religione”. Tuttavia, in quegli scritti, trovai subito molte risposte ai miei interrogativi. Per vissuto personale rifiutavo la trascendenza e quindi l’idea di un essere soprannaturale responsabile dei miei dolori. Da subito, quindi, mi convinse l’idea della centralità dell’uomo e del suo potenziale umano e iniziai a recitare Daimoku per verificare questo concetto. Oggi posso dire che questa mia predisposizione a conoscere prima di giudicare mi ha salvata. Come primo beneficio della recitazione avvertii una nuova armonia dentro di me, unita alla piacevole sensazione che l’ansia, che da sempre era stata alla base della mia esistenza, iniziava lentamente a placarsi.

Quando avete iniziato a praticare le persone della vostra età non erano tante…

GIOVANNI: Io avevo cinquantotto anni e mia moglie cinquantatré. Oggi mia moglie ne ha ottanta, mentre io ne ho ottantacinque e festeggio i ventinove anni di pratica, ovvero ho praticato un terzo della mia esistenza.

ANNA: Negli anni Ottanta erano per lo più i giovani a praticare il Buddismo nel nostro paese. Eravamo praticamente gli unici della nostra età. Non solo eravamo i primi genitori “anziani” a praticare, ma eravamo anche una delle prime “famiglie” italiane. La nostra esperienza fu pubblicata sul secondo numero de Il Nuovo Rinascimento (del marzo 1982, n.d.r.).

Come è stato per voi che avevate già costruito la vostra vita, iniziare questa nuova esperienza in una organizzazione composta prevalentemente da giovani senza alcuna esperienza di vita?

GIOVANNI: La vera “novità” che personalmente ritrovavo nell’insegnamento buddista, era che le “funzioni protettive” risiedono “dentro” la nostra vita. Avvertivo certo le differenze, tuttavia, mi rendevo conto che il solo tentativo di superarle mi spingeva a superare i miei limiti personali, e che potevo realizzare kosen-rufu a partire dalla mia vita, semplicemente riunendo quei contrari e armonizzando quelle differenze.

ANNA: Non è stato facile. Avevo davanti a me tanti giovani con un forte spirito di ricerca. Ma i loro comportamenti e atteggiamenti spesso erano contraddittori. Di fronte a questa constatazione, il mio giudizio non poteva che essere negativo. Tuttavia, lo sforzo davanti al Gohonzon è stato proprio quello di riuscire a convivere in armonia con quelle diversità anziché respingerle, come tendenzialmente avevo sempre fatto. Questo atteggiamento ha generato una profonda gratitudine verso questi giovani e, soprattutto, verso mio figlio. Ho lavorato su me stessa e ho potuto verificare il cambiamento. Attraverso questa dura lotta ho imparato a relazionarmi con gli altri. Tutto ciò ha portato armonia nella mia vita e la consapevolezza che si può cambiare… anche dopo i cinquant’anni!

Qual è stato il beneficio maggiore che avete ricevuto dalla pratica? Cosa vi ha spinto a continuare?

GIOVANNI: Non avendo problemi particolari, ho avuto la fortuna di poter includere la mia vita in una prospettiva più ampia. Ho continuato a praticare facendo mia la convinzione che l’intera umanità ha bisogno di un pensiero che garantisca a tutti la felicità. Questo pensiero l’ho ritrovato negli scritti di Nichiren Daishonin, fin dalle mie prime letture. Nella vita quotidiana poi riscontravo via via una protezione costante.

ANNA: Mi sono ritrovata a vincere l’arroganza, che alla mia età era ancora più marcata. Credevo di conoscere già tutto, sentivo che non mi serviva più niente. Invece, era proprio quello il momento dell’inizio. Entrando in sintonia con la Legge mi sono sentita più aperta alla vita, e ho vinto la mia tendenza all’arroganza. Oggi sento di poter dialogare con tutti, indipendentemente dalle persone e dalle circostanze.

Voi siete molto uniti. Vi capita di litigare a causa dell’attività o dei membri?

GIOVANNI: Niente accade inutilmente, neppure quello che non ci piace tanto. Abbiamo superato problemi e litigi con lo spirito di progredire sempre e di superare, attraverso quegli ostacoli, i nostri limiti personali e di coppia. Quando si abbandona questo spirito di ricerca, si rischia di diventare arroganti.

ANNA: Abbiamo superato i momenti più critici sulla base del convincimento che recitiamo Daimoku per manifestare la Buddità, che è saggezza dentro di noi. Di fronte ai problemi tra i membri o all’interno dell’organizzazione, mi sono sempre chiesta: «Cosa posso fare io in questa situazione?». Il Buddismo ci chiama all’azione e, prima ancora, alla ricerca dell’azione giusta per cambiare.

In positivo come ha inciso la pratica nel rapporto di coppia?

ANNA: C’era già armonia in famiglia, tra me e mio marito e tra noi e nostro figlio. Inizialmente, quindi, pensavo che la pratica non avrebbe potuto aggiungere nulla a quanto già non avessi. A questa mia affermazione un responsabile mi fece giustamente notare che stavo “ponendo limiti all’armonia”. Questa frase fu per me la spinta a continuare. E in effetti anche quell’armonia negli anni è cambiata. Talvolta discutiamo animatamente, ma con una saggezza diversa che ci fa comunque restare in armonia. E poi il Buddismo mi aiutata a rafforzare la mia identità in maniera profonda.

GIOVANNI: La nostra unione non è basata sulla dipendenza, ma sulla fiducia. Siamo due identità che il Buddismo ha contribuito a rafforzare. Il dialogo basato sulla fiducia, questa è l’esperienza “familiare” che abbiamo fatto.

Qual è stato il momento più difficile che avete dovuto affrontare?

GIOVANNI: Un momento cruciale, in cui ho realmente sperimentato il Gohonzon, è stato quando per lavoro fui trasferito ad Alessandria al fine di sanare una situazione delicata. In quella difficile situazione usai la pratica e, nelle riunioni di lavoro, misi in atto l’atteggiamento buddista di “provocare il dialogo”. La situazione si sanò, e sfruttai l’occasione per fare shakubuku. Allora nessuno praticava ad Alessandria. Poco dopo, anche grazie all’aiuto di mia moglie, nacque il primo capitolo.

ANNA: Personalmente ho affrontato un momento molto difficile agli inizi della pratica. Nel 1981 partecipai a un corso buddista in Giappone. Nessuno mi aveva spiegato come si sarebbe svolta la cerimonia di conversione. Non mi aspettavo di trovarmi di fronte a dei monaci, né di assistere a un rito. In quella occasione, in cui provai una grande sofferenza, ebbi la totale comprensione dei miei responsabili. Subito dopo mi accorsi che mio marito e mio figlio avevano le mie stesse perplessità. Sentii che era quello il momento di decidere da sola, di trovare il coraggio per superare quegli ostacoli. Quel ricordo mi aiuta ancora oggi, ogni volta che devo fare appello al mio coraggio.

Ci raccontate l’esperienza dell’apertura del Centro culturale a Genova?

ANNA: Quell’esperienza è stata la concretizzazione del vero itai doshin così difficile da mettere in pratica. Benché avessimo spesso idee differenti, riuscivamo ogni volta a fare emergere un’idea valida.

GIOVANNI: È stato impegnativo sia in termini di tempo che di energie. Un impegno durato un paio d’anni. Le trattative sono state molto lunghe. Ci sono stati parecchi ostacoli e difficoltà, ma siamo andati avanti fino in fondo.

Un consiglio per chi inizia a praticare?

GIOVANNI: Mi rifaccio all’esperienza di Shakyamuni, di Nichiren Daishonin e di sensei. Non amo dare consigli perché limitano e condizionano il pensiero altrui. Nel rapporto tra maestro e discepolo il maestro, con il proprio esempio, insegna al discepolo a diventare egli stesso maestro. Sensei ci parla sempre in termini di esperienza. Consiglio di instaurare un rapporto “intimo” e sincero con il Gohonzon.

ANNA: Consiglio di iniziare subito ponendosi degli obiettivi, di sperimentare il prima possibile.

Un messaggio per i giovani?

ANNA: Credo sia importante per i giovani imparare a rapportarsi con i genitori, soprattutto quando i genitori non conoscono l’insegnamento buddista. Un giovane buddista può avviare il dialogo, e questo non solo rispetto ai genitori, ma verso tutte le relazioni possibili.

GIOVANNI: Personalmente credo che bisogna lasciarli liberi di perseguire la propria realizzazione e sostenerli in questo percorso.

ANNA E GIOVANNI: Abbiamo festeggiato cinquant’anni di matrimonio a Parigi nel 2005. In salute, da soli… è stato molto bello… È la vita quotidiana che ci dà la risposta continua a cosa vuol dire mettere alla base della propria vita gli insegnamenti del Daishonin. Come sostiene il nostro maestro Ikeda: «Lo scopo fondamentale della longevità e della salute è poter recare beneficio agli altri nella società con le nostre azioni compassionevoli» (MDG, 2, 329).

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