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L’angolo della cucina - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 13:26

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L’angolo della cucina

Tullio Cusani, San Giovanni in Fiore (CS)

«Ho sempre creduto nella felicità, nel rispetto dei diritti dell’uomo, nella pace, come grandi ideali e obiettivi da perseguire. Ma la paura e la sofferenza incontrate lungo la strada mi hanno più volte messo in contraddizione»

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«Ho sempre creduto nella felicità, nel rispetto dei diritti dell’uomo, nella pace, come grandi ideali e obiettivi da perseguire. Ma la paura e la sofferenza incontrate lungo la strada mi hanno più volte messo in contraddizione»

Le prime volte che ho recitato Daimoku ero lì, da solo, intimidito, quasi appiattito di fronte alla parete della cucina, tra il cielo blu del balcone di casa mia e il lavello. Mi rivedo ancora, intento a osservare la maglia regolare delle piastrelle, lo sguardo fisso, a bassa voce, tra il dubbioso e lo speranzoso, a recitare: nam-myoho-renge-kyo
L’angolo della cucina… se ci penso, non fu una scelta casuale quella della cucina, visto che fin da allora, recitando il Daimoku, inserivo nella mia vita quello che oggi considero un nutrimento indispensabile. Mi faceva uno strano effetto l’eco della mia voce, il fatto che la lingua articolasse quei suoni incomprensibili. Così appariva il mio primo Daimoku, la fonte di quella determinazione che oggi mi vede qui, felice, tra voi, a condividere la mia esperienza: questo è proprio uno degli effetti di quella causa.
È vero che mi capitava di guardare continuamente l’ora e che sussultavo a ogni rumore che veniva dall’esterno, preoccupato che potesse rientrare mia moglie o mia suocera da un momento all’altro. Per carità! Mai avrei retto al loro sguardo, certamente un misto di sbigottimento e di commiserazione… Ma evidentemente l’intenzione, l’atteggiamento profondo, l’ichinen, doveva essere quello giusto, dato che, stavo sulle spine e continuavo: Nam-myoho-renge-kyo.
Certo dalla mia amica, nel gruppo, mi sembrava più potente, più armonioso. Più sapienti mi parevano le voci, più antiche, davanti a quel misterioso oggetto di culto esposto nella teca illuminata. Per non parlare dell’altra preghiera col nome che ricorda il rintocco di una campana… Gongyo. Che ritmo! Ancora oggi mi sembra di riascoltare quelle giocose, strampalate filastrocche imparate da bambino!
Quando ero piccolo sapete che facevo? Mi sceglievo un angolo di casa, tranquillo (quello preferito era tra il mobile antico e la scala) e facevo: colli-colli-colli-colli continuamente, finché labbra e bocca diventavano ipersensibili: avrò avuto tre o quattro anni. Non sarà stata quella una forma primitiva di preghiera, una specie di Daimoku, solitario e infantile? Oppure un inno dedicato alla celebrazione della felicità, rito propiziatore di un morbido e caldo abbraccio di una mamma contesa con altri cinque fratelli?
Oggi so che il Daimoku non dovrebbe mai essere vissuto come il surrogato di una felicità perduta, da rievocare: è piuttosto l’atto consapevole di chi sta determinando la propria felicità, adesso e da ora in poi, ponendosi in rapporto armonico con la Legge fondamentale della vita e della morte. Ma allora dinanzi alle piastrelle della cucina, che ne potevo mai sapere? Il fatto è che tutte le mie obiezioni, tutte le mie riserve nei confronti di questa religione erano miseramente crollate di fronte alla proposta della responsabile del gruppo che frequentavo.
Non avevo mai creduto in nessun Dio, quale che fosse. Sia esso consolatorio che punitivo lo consideravo nient’altro che una proiezione della figura genitoriale, una specie di grande papà, che le persone adottano dentro di sé pur di non crescere: insomma un tentativo drammatico per evitare di affrontare la realtà della vita. Per questo non appartenevo ad alcuna confessione religiosa. Tant’è che, d’accordo con mia moglie, non ci siamo sposati in Chiesa. Oltretutto i cattolici mi dicevano: bisogna avere fede! Ma io non ce l’avevo… Dunque, il problema si chiudeva lì.
Ciò non vuol dire che fossi uno senza ideali, senza speranze. Intanto, sono sempre stato un ottimista: ho sempre creduto nella felicità, nel rispetto dei diritti dell’uomo, nella pace, come grandi, grandissimi ideali e nello stesso tempo obbiettivi da perseguire. Ma la paura e la sofferenza incontrate lungo la strada mi hanno più volte messo in contraddizione, tanto da bloccarmi, congelarmi, e di fronte a traguardi molto molto meno ambiziosi. E quante volte la vita mi ha trovato confuso e inerte, in attesa di tempi migliori, con tutto il conseguente carico di sofferenza!
Invece l’amica buddista mi spiegava: «La forza di questa fede la puoi sperimentare su te stesso, a casa tua, anche oggi, dove e quando vuoi! Esprimi un desiderio, poniti un obiettivo e recita nam-myoho-renge-kyo, con serietà, impegno e regolarità e… vedrai».
Inutile dire che la filosofia buddista mi aveva già sedotto, col suo carico di saggezza, di coerenza, di profondità, di poesia perfino, anche perché l’amica di mia moglie, la responsabile del mio gruppo, mi aveva con cura passato le riviste, le fotocopie, i libri… insomma la mia mente era ben disposta, ma trovava un grande ostacolo all’idea di pregare ponendosi un obiettivo, magari piccolo, semplice!
La gravità del fatto permaneva lì, piantata come una spada nella roccia: ero un uomo capace ancora di grandi sogni, ma totalmente incapace di attingere a quel potere profondo che è insito in ogni vita, incapace di formulare desideri e obbiettivi, soprattutto se piccoli e a breve scadenza.
Oggi una persona così la vedo in tutta la sua sofferenza. La vedo innanzitutto inconsapevole e impaurita, schiacciata proprio dall’illusione della propria impotenza. È proprio quella idea di inadeguatezza che ci rende riluttanti a sfidarci, ad accogliere sia le opportunità del mondo che ogni altra trasformazione, che degrada le nostre reali possibilità in sogni irraggiungibili.
D’altra parte fin da piccolo, se mi chiedevano di esprimere un desiderio e di scegliere… io andavo in tilt! Finivo per cavarmela invocando il possesso di una bacchetta magica. Questa per me era l’unica scelta che non mi poneva limitazioni: così perdevo ogni volta l’occasione di confrontarmi con la responsabilità di una scelta. Cedendo alla paura mi giocavo fin da allora la possibilità di dare un senso e una direzione alla mia vita.
Oggi, dopo due anni e quattro mesi di pratica e di studio, di impegno sia nelle attività della Soka Gakkai che come responsabile del mio gruppo, realizzo finalmente il desiderio di misurarmi con il mondo e quindi con me stesso. Riesco a mettere a nudo le mie illusioni, a smascherare quelle trappole che ci fanno cadere e piegare la testa di fronte alla sofferenza, che ci inducono a subire la realtà, o se vogliamo, il nostro karma.
Sì perché non esiste la realtà in sé, statica, diversa da noi stessi, contro cui combattere o a cui allearsi. E nessun karma è immutabile! Noi siamo parte del mondo, anzi di tutte le migliaia di milioni di mondi possibili, partecipi della Legge fondamentale della vita e della morte, e per questo sempre in continuo mutamento.
La realtà (e cioè la nostra felicità) la determiniamo oggi, adesso, insieme, proprio grazie al nostro impegno, alla nostra pazienza, a tutto l’amore, la compassione, e la sofferenza che ognuno di noi, impegna nella realizzazione di un desiderio. Perché ogni manifestazione della nostra esistenza, anche quella più dolente, diventa preziosa se maturata alla luce del Daimoku. Diventa materiale costitutivo della nostra felicità, il frutto della capacità di compiere un atto creativo, degno di un uomo illuminato, cioè degno di un Budda.

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