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L'amore da guarire - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 10:38

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    L’amore da guarire

    La dipendenza affettiva è grave e invalidante quanto le dipendenze chimiche, con crisi di astinenza, follie per procurarsi ciò di cui si è schiavi, perdita di interesse per tutto il resto. Riequilibrare una relazione affettiva parte dal cambiamento di se stessi riconoscendo che non è colpa degli altri se si soffre. E che prima di tutto tocca a noi cambiare

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    A chi di noi non è mai capitato di ascoltare per una serata intera le disgrazie d’amore di un’amica o di un amico, cercando di dare consigli che si sa per certo non verranno seguiti? A chi non è successo di ricevere le sue telefonate alle ore più impensate della notte per dover rispondere a domande del tipo: «Senti ma secondo te perché non mi chiama? Cosa pensi che lui/lei pensi se lo/la chiamo? Ma lo faccio o non lo faccio?».
    E se non con le stesse modalità, ci è capitato di sicuro di condividere una birra con un nostro amico dal cuore infranto che per curare il mal d’amore segue la ricetta del “bevo per dimenticare”. A volte però la cosa prende una piega diversa e succede che quest’amica che sta male inizi a dimagrire, diventi ossessiva, parli solo di lui e racconti cose di questa storia che ci fanno pensare: «Ma perché ci sta insieme se non è disponibile, la sfrutta, la ignora, la trascura, la chiama quando ha voglia o ne ha bisogno ma poi quando lei lo cerca non risponde, la tratta come una pezza da piedi oppure, purtroppo in tanti casi… la picchia?». Perché è proprio dal rifiuto e dal conseguente bisogno di essere accettati che trae energia questo tipo di relazioni. Sono tante le persone che hanno iniziato a praticare il Buddismo proprio per questo. «Era la terza volta che mi trovavo nella stessa situazione – racconta Miriam di Torino – e finalmente ho iniziato a pensare che dipendesse da me e non dal “cattivo” di turno se dimagrivo a vista d’occhio per la paura di essere lasciata, se guardavo il telefono come fosse l’interruttore per l’inferno o il paradiso e se volevo solo morire quando non arrivava la sua chiamata. Così la frase che la mia amica mi aveva insegnato dieci anni prima, in occasione di una storia analoga, mi ritornò in mente e iniziai recitare Daimoku. Non ho più smesso».

    Una dipendenza di “serie B”

    Nel 1988 venne pubblicato in Italia da Feltrinelli un saggio dal titolo Donne che amano troppo scritto dalla psicologa Robin Norwood. Dopo più di venticinque anni è ancora un best seller da un milione di copie vendute solo nel nostro Paese, dove è arrivato alla sessantunesima edizione. La ragione del successo sta non soltanto nell’irresistibile titolo, ma anche perché è stato il testo che per primo ha riconosciuto, affermato e divulgato un concetto che per chi ha sperimentato la dipendenza affettiva è chiaro e lampante, ma non altrettanto al resto del mondo: che la dipendenza relazionale è grave e invalidante, quanto le dipendenze chimiche dall’alcool o da sostanze stupefacenti. E con manifestazioni fuori controllo: crisi di astinenza, follie per procurarsi ciò da cui si è dipendenti, perdita di interesse per tutto il resto della propria vita.
    «Quando arrivava la crisi di abbandono – racconta Anna di Vercelli, che dal 2006 ha risolto il suo problema salvando la sua relazione – era come se strappassero una parte di me. Non avevo il controllo del mio cervello, non dormivo mai, dimagrivo e mi ero riempita di sfoghi sulla pelle. Pregavo perché lui si facesse male così da rimanere sempre insieme a me. Stavo diventando un mostro». E anche se è più frequente che siano le donne ad amare “troppo”, anche gli uomini non sono indenni dalla dipendenza affettiva. «Senza di lei – racconta Fabio, giovane uomo di Verbania – era come se mi staccassero la spina, come se il serbatoio delle mie energie venisse prosciugato di colpo. Mi sembrava di vivere accanto a una bomba e che avrei potuto morire in ogni secondo senza riuscire a trovare in tempo il disinnesco».
    L’ansia di abbandono che sta all’origine di questa condizione porta a una sofferenza difficile da descrivere. La ragione è semplice. Quando ci lascia una persona cara, piangiamo per la morte di un altro da noi. Chi soffre di dipendenza non piange per il distacco di chi se n’è andato, ma piange per la propria morte imminente. Perché ciò di cui si ha paura, una tremenda paura, è che se lei o lui ci lascia saremo noi a non riuscire a sopravvivere. L’origine di questa paura è profondamente radicata alle dinamiche affettive della prima infanzia, quando l’abbandono per il bimbo non ancora indipendente significa morte certa. Ecco perché chi è dipendente rischia di esserlo per tutta la vita continuando a ripetere lo stesso film con personaggi diversi, ma sempre con lo stesso finale. «Con la fine della terza relazione dipendente e una pratica costante – ci confida Miriam – pensavo di aver guarito la mia vita. Ero convinta di aver vinto perché ero riuscita a lasciare la persona da cui ero dipendente standone lontana per sempre, come se fosse un pusher. E in effetti in quella fase della mia vita è stata una grande vittoria. Ma è stata una tregua di qualche anno e poi eccomi di nuovo dentro. Se in precedenza vincere era stato riuscire ad allontanarmi da cosa mi faceva male, oggi vincere è non scappare, ma stare insieme senza dare a lui il potere di rendermi felice o infelice». Se per gli alcolisti e i tossicodipendenti ci sono strutture di cura e recupero, per la dipendenza affettiva non si trova aiuto. Quindi come fare?

    Eliminare il problema alla radice

    Il saggio di Norwood propone dieci “step” per la guarigione, ispirandosi alla “tecnica dei dodici passi” messa a punto dall’AA, la famosissima Alcolisti Anonimi fondata negli Stati Uniti dove da decenni combatte la dipendenza dall’alcool.
    Dal canto suo il Buddismo di Nichiren ha una visione molto precisa sulla dipendenza relazionale. E la guarigione che offre è molto profonda perché non mira all’effetto (eliminare la dipendenza) ma alla causa che l’alimenta: l’oscurità fondamentale che ha preso il controllo della nostra esistenza. L’obiettivo è trasformare, è fare la propria rivoluzione umana. Grazie alla recitazione del Daimoku tutti, ma proprio tutti, possono guarire. Perché se è vero che siamo preda di illusioni, siamo sempre Budda, anche se “Budda che amano troppo”.
    Grazie alle testimonianze di chi ne è venuto fuori e ai princìpi della filosofia di Nichiren abbiamo “messo insieme” le indicazioni di tutti e quindi provato a tracciare un percorso per aiutare a uscire dalla dipendenza relazionale anche con la recitazione del Daimoku. Il primo passo è uguale per tutte le guarigioni: bisogna riconoscere di avere bisogno di aiuto. Riconoscere che non è colpa di quello o quell’altra se stiamo male ma che dipende da noi, da come siamo fatti. E che tocca a noi cambiare. Molto spesso, nonostante il ripetersi dello stesso disagio, pensiamo che la causa della nostra sofferenza sia “al di fuori di noi” e imputiamo alla nostra sfortuna il fatto di incontrare sempre il partner sbagliato. Mentre la pratica buddista del Sutra del Loto attribuisce chiaramente ai nostri pensieri, parole e azioni la causa della nostra sofferenza e indica il Gohonzon come unico oggetto di culto. Un beneficio di chi inizia a praticare ed è dominato da una dipendenza è che attraverso la pratica e il confronto sincero con la comunità dei credenti riesce a riconoscere quale sia il proprio personale oggetto di culto: il gioco, il lavoro, l’alcool, una relazione e in quale dei dieci mondi si tenda a vivere. In questa fase si è ancora totalmente centrati su di sé e sulla propria sofferenza e si è lontani dal punto in cui nella vita e nella pratica quotidiana comparirà un certo “fattore x” che scopriremo tra poco e che risulterà essere determinante. Ma si tratta comunque del primo passo e il primo passo, dice Daisaku Ikeda, è il più importante.
    Su questo tema Ikeda scrive, a proposito del mondo di Avidità o regno delle anime affamate: «I desideri sono necessari al mantenimento della vita umana e in questo caso sono benefici. Ma aderire a un desiderio senza una meta più elevata, significa diventare schiavi del desiderio e questo può condurre solo alla sventura per sé e per gli altri» (D. Ikeda, La vita mistero prezioso, Sonzogno, pag. 112). La presa di coscienza della propria tendenza dicevamo essere il primo passo che porta a decidere di evitare che la propria vita sia costantemente condizionata dall’esterno. In questo la preghiera buddista offre una via che va nella direzione opposta non solo rispetto a quanto si è fatto fino a ora, ma anche rispetto a tanti altri rimedi che offrono, nella più perfetta buona fede, di sostituire un oggetto di culto al di fuori di sé con uno altrettanto “al di fuori”. Per una persona già incline a sottostimarsi o quantomeno a non credere nella propria capacità di tirarsi fuori da guai, affidarsi a una volontà superiore può avere l’effetto di spostare il proprio focus da una dipendenza a un’altra, forse più accettabile socialmente, ma altrettanto inefficace nel trasformare la causa e nel produrre un cambiamento profondo. La preghiera buddista invece richiama alla lotta le nostre stesse forze, presenti ma non attive, con un inno che ha questo suono: Nam-myoho-renge-kyo.

    Scoprire il valore dentro e fuori se stessi

    Per quanto delusi e sofferenti ci si possa sentire, è proprio da lì che si deve iniziare, dalla propria vita che fa così male. Nel Gosho Sulle preghiere Nichiren scrive: «Non si getta via l’oro solo perche la borsa che lo contiene è sporca; se si odiano gli alberi di eranda non si puo ottenere il legno di sandalo. Se si detesta lo stagno della valle perché e impuro non si possono cogliere i fiori di loto» (RSND, 1, 307). Così commenta questo passo Greg Martin in una famosa lezione al Centro culturale SGI di Seattle, nel 1995: «Si dovrebbe pregare come se si volessero raccogliere i fiori di loto che crescono nello stagno a volte fangoso della vita. […] All’interno della nostra vita non ci sono solo le cause della sofferenza, ma anche la soluzione di tutti i problemi» (NR, 198, 5). Questo brano ci suggerisce che è la sofferenza della nostra vita il punto di partenza. È la fiducia che sia proprio lei a segnare il punto di inizio che ci dovrebbe incoraggiare a partire. È nascosto nel fango il nostro blocco di partenza.
    «Quando ormai mi auguravo ogni giorno che mi succedesse qualcosa di definitivo per porre fine alla mia angoscia – racconta ancora Fabio – mi resi conto che avevo il Gohonzon e non sapevo usarlo. Mi accorsi che recitando guardavo solo il buio e la morte e non la mia parte illuminata. Ma se l’oscurità traeva la sua forza dalla mia vita e tuttavia io ero ancora vivo, allora dentro la mia vita c’era dell’altro. E da quel momento, con ogni nam del mio Daimoku iniziai a richiamare a me le forze come per cercare acqua nel deserto». Quindi il secondo passo del nostro cammino, dopo aver capito che dipende da noi, è partire per “cercare l’acqua nel deserto”.
    La direzione verso cui rivolgere il nostro sguardo interiore in questo viaggio è suggerita da Suzanne Pritchard: «Il Gohonzon non è l’oggetto di devozione per osservare la mente del fallimento, non è l’oggetto di devozione per osservare la mente della debolezza; non è l’oggetto di devozione per osservare la sfilza di relazioni andate male […]. Il Gohonzon è l’oggetto di devozione per osservare la mente del Budda e andiamo lì davanti per pregare con tutto il nostro essere, per tirare fuori la passione, il potere, la creatività, per cambiare le circostanze e offrire una prova concreta» (NR, 490, 17). Noi siamo splendidi esseri umani così come siamo senza bisogno che un altro ci renda completi. L’esercizio assiduo a vedere il meglio di noi stessi grazie alla pratica costante costituirà a poco a poco, strato per strato, una base di autostima che tenderà a stabilizzarsi senza tornare al punto di partenza, a un nuovo attacco esterno. È in questa fase che iniziamo a vedere il valore anche nel mondo intorno a noi, facendo un altro grande passo verso il punto del nostro percorso in cui scopriremo il “fattore x”.

    Le ombre della paura

    Una volta iniziato questo cammino, il potere rigenerante della pratica buddista inizierà a manifestarsi, ma è altrettanto normale che adesso, a conferma che siamo sulla strada giusta, arriveranno i “ladri di vita”. «Quando la pratica progredisce e aumenta la conoscenza – scrive Nichiren Daishonin – i tre ostacoli e i quattro demoni emergono in maniera disorientante» (L’apertura degli occhi, RSND, 1, 255). Sono disorientanti perché non si riconoscono come produzioni della nostra mente, ma come cose che esistono realmente. L’oscurità fondamentale che li alimenta conosce molto bene i nostri punti deboli, perché è lì la sua casa. Vale per tutti gli esseri umani. Per i più pigri vuol dire essere aggrediti dal non aver voglia di praticare, gli indaffarati saranno sopraffatti dagli impegni. Per i “Budda che amano troppo”, l’oscurità fondamentale prepara trappole assai dolorose, attingendo direttamente dal vuoto d’amore della loro vita e da lì fa emergere mostri dai nomi conosciuti: abbandono, tradimento, ossessione di controllo, disistima, voglia di morire. «Quando iniziavano i pensieri ossessivi – ci racconta Miriam – ho imparato a non cercare conferme dall’esterno. Cercavo di recitare Daimoku subito per il mio benessere, ma anche per la persona di cui pensavo male, concentrandomi sulla sua Buddità e lasciando che la mia parte illuminata richiamasse la sua. Recitavo Daimoku fino a che potevo e grazie a questo atteggiamento la realtà deformata dalla paura si ridimensionava. Così, per difendermi da queste ossessioni, ho scoperto con la mia vita il giusto atteggiamento e ho imparato a non mollare mai il ritmo della pratica, come insegna Nichiren. “Quando c’e da soffrire, soffri; quando c’e da gioire, gioisci” (Felicità in questo mondo, RSND, 1, 607)».

    Il fattore X

    Tuttavia la svolta verso la realizzazione si sente nella propria vita quando si riesce a ristabilire un giusto equilibrio tra noi e gli altri e scopriamo che la mancanza di risultati nonostante gli sforzi dipende spesso dal fatto che siamo troppo concentrati su una pratica egoista. Il passo ulteriore è quindi comprendere che è necessario aprire la propria vita agli altri: questo è il “fattore x”. Perché se riuscire a recitare e impegnarsi per la propria trasformazione è già una grandissima conquista, è la pratica per gli altri che modella il karma profondamente. «Ero già riuscita a stabilire un certo equilibrio imparando a recitare in modo costante prima di ogni altra cosa – racconta Monica di Milano – ma ero ancora concentrata sul mio dramma e quindi ancora molto dipendente da esso. Ho sempre continuato a partecipare alle riunioni e in una di queste il mio gruppo ha lanciato l’attività di sostenere la mostra Senzatomica con il Daimoku e con la partecipazione attiva all’organizzazione. Ho preso l’occasione al volo, impegnandomi anche a parlarne a tutti quelli che potevo. In quel momento Senzatomica era la mia priorità e finalmente parlando della mostra e dei suoi contenuti potevo parlare anche dei valori buddisti. Per la prima volta, dopo tantissimo tempo, ho sentito che la paura di essere abbandonata era svanita come neve al sole e io ero finalmente capace di essere felice di vivere». Questa trasformazione ridimensiona indubbiamente la relazione e dovremmo essere pronti a non avere nostalgia della tempesta di sentimenti del passato. Almeno, non dovrebbe essere quella la felicità che stiamo cercando, se seguiamo la via del Budda.
    Afferma Ikeda: «Sentirsi felici e a proprio agio per il semplice fatto di esistere. Se riusciremo a mantenere saldo questo punto di vista, che è l’essenza della vita, riusciremo a vivere senza farci influenzare dalle gioie o sofferenze passeggere. Senza lasciarci turbare dalle sofferenze ma guardandole dritte in faccia possiamo affrontarle e vincere senza venirne schiacciati. Inoltre, nel momento in cui manifesteremo lo stato “felici e a proprio agio”, non ci attaccheremo alla felicità momentanea rischiando che questa porti sconvolgimenti nella nostra esistenza. Anzi godremo della felicità assoluta e ci sentiremo felici e a nostro agio sempre, fino alla fine, realizzando pienamente la nostra vita» (BS, 15, 13).
    «Ho compreso che la mia missione – conclude Miriam – non è sopportare l’astinenza bensì il non avere più bisogno della “dose”. È scegliere ogni giorno, anche più volte al giorno, di avere il Gohonzon come unico oggetto di culto. È trasformare la sofferenza in valore in modo che anche altre donne e uomini possano salvare la loro vita anche grazie a ciò che sto scrivendo per questo giornale».

    Per approfondire:

    W. Hochswender, G. Martin, T. Morino, Il Budda nello specchio, Esperia, 2005
    R. Norwood, Donne che amano troppo, Feltrinelli, 1985
    P. Schellenbaum, Il no in amore, red edizioni, 2001
    P. Schellenbaum, La ferita dei non amati, red edizioni, 2002

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    Ti amo, quindi mi rispetto
    La prospettiva che offre Daisaku Ikeda su come amare in modo costruttivo è chiara: «L’amore vero non è fare tutto ciò che l’altro desidera o fingere di essere diversi da come si è. Senza il rispetto, nessun rapporto può durare, né due persone possono far emergere il meglio l’uno dall’altro»

    È umiliante cercare di continuo l’approvazione del partner. In una simile relazione manca la cura, la profondità e perfino il vero amore. Se non vi sentite trattati come il vostro cuore suggerisce, spero che abbiate il coraggio e la dignità di decidere per il vostro meglio e rischiare il disprezzo del vostro compagno, piuttosto che un’infelicità senza limiti.
    Il vero amore non consiste nell’aggrapparsi l’un l’altro, bensì è un’interazione tra due persone solide, sicure della propria individualità. Invece di farsi coinvolgere dal sentimento così tanto da credere che si esiste solo se si è in due, sarebbe più sano continuare a sforzarsi per migliorare se stessi, cercando di imparare da quelle qualità che più si rispettano e si ammirano nel partner.
    L’amore vero non è fare tutto ciò che l’altro desidera o fingere di essere diversi da come si è. Chi vi ama davvero non vi spingerà ad agire contro la vostra volontà né vi coinvolgerà in attività pericolose.
    Senza il rispetto, nessun rapporto può durare, né due persone possono far emergere il meglio l’uno dall’altro.
    Nonostante, al momento, vi sembri di provare gioia o siate seriamente impegnati in una relazione, se permettete alla vostra vita sentimentale di consumare tempo ed energia a discapito della vostra crescita, allora vi state solo divertendo e la vostra esistenza si rivelerà appunto tale, un passatempo.

    (D. Ikeda, In cammino con i giovani, esperia, pagg. 30-31)

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