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L'altra faccia degli scopi - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 13:50

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L’altra faccia degli scopi

A volte perseguire un obiettivo diventa una corsa ansiosa e frenetica. Quando questo accade è bene fermarsi un attimo a riflettere e ricordarsi che la vera sfida non è solo per il raggiungimento degli obiettivi, ma per vincere sui propri punti difficili

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A volte perseguire un obiettivo diventa una corsa ansiosa e frenetica. Quando questo accade è bene fermarsi un attimo a riflettere e ricordarsi che la vera sfida non è solo per il raggiungimento degli obiettivi, ma per vincere sui propri punti difficili

«Se hai dei problemi, prova a recitare Nam-myoho-renge-kyo… Vedrai che si risolveranno!», così mi disse la prima persona che mi incoraggiò a praticare questo Buddismo. E in seguito i compagni di fede e i responsabili facevano a gara per farmi capire che per scoprire i benefici del Buddismo di Nichiren Daishonin avrei dovuto stabilire scopi chiari, fissare una scadenza temporale entro la quale vederli realizzati, affiancare a quelli personali gli obiettivi delle attività per gli altri ecc. Lo scopo pratico era sempre al centro degli incoraggiamenti e delle esperienze che ascoltavo.
È questa la forza del Buddismo di Nichiren Daishonin: dare alle persone il potere di cambiare la propria realtà. Non sempre, però, mettersi obiettivi è vissuto con leggerezza e con gioia, né con determinazione. Alle volte genera un senso di pesantezza, di stress e quasi di rifiuto. Non occorre né demonizzare né rinunciare all’obiettivo, dal momento che ci permette di verificare il progresso della nostra vita, si può invece riflettere sull’atteggiamento rispetto a esso.
A volte lo stress emerge quando c’è un forte attaccamento all’obiettivo. Inconsciamente si comincia a collegare la propria felicità con la risoluzione del problema o la soddisfazione del desiderio. Nel senso che, invece di trasformare il desiderio in Illuminazione, – utilizzandolo cioè come stimolo per ricercare un cambiamento delle tendenze negative interiori e un’elevazione dello stato vitale rispetto alle sofferenze – giungiamo a ritenere che sarà la realizzazione dell’obiettivo a trasformare il nostro dolore in gioia. Questo significa considerare l’obiettivo come il fine ultimo da raggiungere, mentre è raggiungere la Buddità il vero scopo della pratica buddista.
Per lo “stress da obiettivo” si può dire, poi, che non è il fatto in sé di avere degli scopi a generare pesantezza, ma il pensiero di non saperli raggiungere. Dubitiamo di poter ottenere l’obiettivo, di aver posto lo scopo giusto per noi, di riuscire a fare le azioni necessarie al raggiungimento della meta che ci siamo prefissati e così via. E questi pensieri sono direttamente connessi al dubbio “originale”, quello di non essere dotati della Buddità. Perché infatti non dovremmo raggiungere i nostri obiettivi? Perché in fondo siamo convinti di non possedere la Buddità, ossia la sorgente incontaminata della felicità assoluta. Anche nella mia esperienza è questo dubbio che qualche volta mi frena e mi fa fare un Daimoku “da mendicante”, elemosinando benefici. È difficile credere di essere un Budda, perché, come spiega Ikeda commentando L’apertura degli occhi, «si tende a pensare ai Budda come esseri trascendenti e sovrumani, in qualche modo differenti e separati dai comuni mortali. Influenzati da questa visione, tradizionale e autoritaria, della fede e della religione buddista, gli individui sono incapaci di credere nel Sutra del Loto e nel suo insegnamento di Illuminazione universale. […] Quando si trovano nel pieno di qualche situazione difficile e dolorosa, non riescono a immaginare che qualcuno che sta soffrendo come loro possa mai diventare un Budda» (BS, 111, 33).

Vincere sui punti morti

Lo stress può anche derivare da problemi di “tempistica”, come quando le cose sembrano immobili da molto tempo, non riusciamo a rispettare le scadenze che ci siamo posti e ci sembra di non ottenere i nostri obiettivi. Allora occorre ricordarsi che, in effetti, la vera battaglia non è solo per il raggiungimento degli obiettivi ma per vincere sui punti morti, sui momenti di inerzia. «In qualsiasi impresa può accadere di ritrovarsi a un punto morto – spiega Daisaku Ikeda – e in quei momenti occorre recitare Daimoku e agire con vigore maggiore che mai. Questo ci consentirà di sviluppare una condizione vitale che va ben oltre qualsiasi nostra immaginazione e realizzare un’ulteriore crescita. Fede significa ingaggiare una battaglia incessante. Tutto si riduce a vincere o perdere in questa infinita lotta contro i punti morti». (MDG, 2, 239). Io li conosco bene i punti morti…Ogni esperienza personale è stata il frutto di un impegno costante, prolungato nel tempo e volto soprattutto a sconfiggere i demoni interiori e il senso di impotenza e di incapacità rispetto alle situazioni. Però, a ogni obiettivo raggiunto, a ogni montagna scalata mi guardo indietro e penso: «Dopotutto, per ottenere questo stupendo beneficio ho semplicemente vinto su me stessa, il resto è stato facile».
Recentemente, un compagno di fede mi ha ricordato che la crescita di un albero è impercettibile ai nostri occhi, ma se osservassimo l’interno del tronco vedremmo, con il numero e la dimensione degli anelli formati dal legno, l’età dell’albero e la sua trasformazione nel tempo. Lo stesso avviene per gli esseri umani: pretendono di osservare la propria vita e di giudicarla in un istante, non si concedono la pazienza di aspettare che il karma positivo accumulato cominci a esprimersi.
Cosa occorre fare, dunque, per vincere lo “stress da obiettivo”?

Un alto stato vitale

Elevare il nostro stato vitale è fondamentale. Lo stress e le modalità con le quali esso si esprime sono connessi a un basso stato vitale e al dubbio. Potrebbe essere una strategia vincente rinnovare il modo di pregare. Io stessa, nel corso del tempo, ho provato diversi modi e qualità di recitazione, concentrandomi ora sulla mia voce, ora rallentando oppure aumentando il ritmo del Daimoku. Ogni volta mi sono messa in discussione, prima di tutto partendo dalla mia pratica personale. Per quante azioni possiamo fare, la cosa fondamentale è ricercare un Daimoku che risvegli in noi la Buddità, un Daimoku che ci faccia sentire che possiamo essere felici ora e soprattutto così come siamo in questo momento. Allora il luogo fisico in cui viviamo, le persone e le situazioni che affrontiamo sono lo stagno melmoso dal quale nasce il purissimo fiore di loto e non una palude di sofferenza infinita. Gli obiettivi che ci siamo posti, di conseguenza, non sono più costrizioni, ma atti di grande libertà.
Ultimamente sto imparando a recitare Daimoku (molto Daimoku!) “aggrappandomi” a Nam-myoho-renge-kyo, con l’atteggiamento che spiega il presidente Ikeda: «io sono Nam-myoho-renge-kyo, non possiedo altro che Nam-myoho-renge-kyo» (Saggezza, 4, 7). La sensazione che ho provato è difficile da spiegare, ma sento che davanti al Gohonzon posso lasciare da parte ogni pensiero: qualsiasi cosa io voglio dire a me stessa per incoraggiarmi, il Daimoku è l’unico mezzo per poterlo fare.

Studiare per ripartire

Cercando risposte negli scritti di Nichiren Daishonin e nella vasta letteratura buddista si può trovare sempre una frase nella quale riconoscere la propria situazione, sentirsi incoraggiati e ripartire con slancio. E anche quando sembra di non capirci niente, lo studio si incide nel profondo della vita, più di quanto si possa immaginare. Recentemente ho trovato tre frasi che danno una forza e una gioia incredibili: «Può accadere che uno miri alla terra e manchi il bersaglio, che qualcuno riesca a legare i cieli, che le maree cessino di fluire e rifluire o che il sole sorga a ovest, ma non accadrà mai che la preghiera di un devoto del Sutra del loto rimanga senza risposta» (Sulle preghiere, SND, 9, 182); «Con la sola pratica della fede in Myoho-renge-kyo, non ci sono benefici che non si ottengano, e non c’è buon karma che non cominci a operare» (Conversazione tra un saggio e un uomo non illuminato, SND, 7, 105). La terza frase non è di Nichiren, ma del ventiseiesimo patriarca Nichikan Shonin che, nell’Esegesi del vero oggetto di culto, scrive: «Se solo prendi fede in questo Gohonzon e reciti Nam-myoho-renge-kyo, anche soltanto per poco, nessuna preghiera resterà senza risposta, nessun peccato rimarrà senza perdono, tutta la fortuna sarà concessa e tutta la giustizia sarà provata».
A ogni obiettivo personale o di attività corrisponde una sfida interiore da affrontare. Il primo passo è quello di diventare consapevoli delle tendenze oscurate che non permettono di cambiare la nostra vita in meglio, su quelle si incentrerà la nostra lotta. L’aspetto materiale ed esteriore (beneficio cospicuo) è l’effetto di un percorso intimo di battaglia contro la nostra natura oscurata.
La sfida interiore più grande, e che comprende tutte le altre, è quella di credere nella nostra Buddità. Quando, con una pratica tenace, uno studio costante e una fede che va oltre il giudizio su se stessi, si riesce ad abbattere le barriere che ci impediscono di sentire che siamo Budda dall’infinito passato, allora acquisiamo quella forza gioiosa che non ci abbandonerà mai, nemmeno quando la sofferenza tornerà a fare capolino. Non solo, diveniamo consapevoli della nostra promessa originale come bodhisattva.

La promessa del bodhisattva

La nostra vita è importante perché le nostre vittorie (ma anche le nostre sconfitte) possono essere d’aiuto a molte persone. Scrive Ikeda a questo proposito: «Un Budda autentico è una persona che agisce per far sì che tutte le persone creino un legame diretto con la via per la felicità che egli stesso ha percorso» (NR, 289, 14). Riuscire a far entrare nella nostra vita, nonostante problemi e mancanza di tempo, la vita delle persone che ci circondano, ci consente di allargare il nostro piccolo Io.
La pratica buddista è nata per creare un movimento di pace, cultura ed educazione che cambierà il mondo. Ciascuno di noi, con le proprie difficoltà e vittorie, è parte di questo movimento. Le sofferenze, se lo vogliamo, rappresentano la nostra missione e non il nostro destino. La realtà della nostra vita è rappresentata dalla promessa originaria di rendere felici le persone (durante la cerimonia di Gongyo leggiamo «come posso fare sì che tutte le persone acquisiscano rapidamente il corpo del Budda?»), quindi utilizzare la propria vita per incoraggiare gli altri è un desiderio che esiste dentro di noi da sempre e non qualcosa che dobbiamo faticosamente costruire. La fatica risiede semmai nel far emergere questo “voto” a dispetto dei tentativi dei demoni interiori di far credere che non ce la faremo e che niente cambierà. Lo stress può divenire fonte di gioia, in questa prospettiva, e, come è successo a me in almeno un’occasione, potremo dirci qualcosa del tipo «Questo io affermo. Che gli dèi mi abbandonino. Che tutte le persecuzioni mi assalgano. Io continuerò a dare la mia vita per la Legge!» (SND, 1, 194), come fece Nichiren Daishonin durante l’esilio a Sado.

Una nuova visione della vita

Inoltre, il Buddismo insegna una “concezione della vita”, un modo di vivere con dignità, coraggio e gioia, i cui effetti sono anche il porsi obiettivi e il raggiungerli, o il saper mantenere un atteggiamento sereno e pieno di speranza anche quando la situazione è nera e non dà cenno di cambiare. Avere questa visione ci mette in condizione di guardare il problema come se volassimo ad alta quota, e di percepirlo come un sassolino nella scarpa invece che un masso sopra la testa. Ma si può manifestare di avere adottato questa visione della vita anche andando ogni giorno davanti al Gohonzon, così come si è, persino disperati.
In conclusione, l’unico modo per combattere lo stress degli obiettivi e vincere nella vita è chiedersi con serietà e sincerità se si sta progredendo ogni giorno: stiamo cercando di fare oggi meglio di ieri? Se la risposta è sì, possiamo gioire perché sicuramente vinceremo, se la risposta è no, possiamo gioire lo stesso, perché abbiamo il mezzo per trasformare in questo momento la sofferenza in vittoria, la pratica buddista. Come dico sempre tra me e me, con il Buddismo si vince sempre, anche quando si perde. Basta voler ricominciare da capo ogni volta che si tocca il fondo e ci si sente persi di fronte ai propri sogni, che sembrano così lontani.
Oggi guardo alla strada percorsa nei miei quasi dieci anni di pratica e mi sento immensamente fortunata di aver conosciuto questo Buddismo. Non tanto e non solo per gli obiettivi raggiunti, ma per la consapevolezza che il sole della Buddità splende sempre in me, anche quando è nascosto dalle nuvole delle sofferenze e dei desideri ancora lontani.

Per approfondire:

  • Protagonisti, 2, 35-53
  • Il falò dei desideri, NR, 300, 22
  • La consapevolezza da ricercare, NR, 343, 21

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