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28 aprile 1253 - L’alba di un viaggio senza fine - DEV - Il Nuovo Rinascimento
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Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 12:59

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28 aprile 1253 – L’alba di un viaggio senza fine

La prima esposizione pubblica dell’insegnamento di Nichiren Daishonin, narrata nella Rivoluzione umana, è il filo conduttore di questo speciale dedicato al settecentocinquantesimo anniversario

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La prima esposizione pubblica dell’insegnamento di Nichiren Daishonin, narrata nella Rivoluzione umana, è il filo conduttore di questo speciale dedicato al settecentocinquantesimo anniversario

Il 28 aprile del 1253, secondo il calendario lunare corrisponde al 2 giugno del calendario moderno. Si era quindi vicino all’estate, all’inizio della stagione delle piogge. Il Buddismo era stato introdotto in Giappone da settecento anni e l’epoca di Mappo aveva avuto inizio duecento anni prima.
Nichiren Daishonin aveva all’epoca trentadue anni e aveva appena fatto ritorno al tempio Seicho-ji, dopo aver soggiornato per dodici anni di studi al santuario del monte Hiei, il tempio Enryaku-ji, e in altri templi della zona. Il tempio situato nella sua provincia natale di Awa era per lui molto rappresentativo, in quanto lì aveva cominciato a studiare il Buddismo all’età di dodici anni.
A quel tempo egli si chiamava Yakuomaro e, progredendo negli studi, un giorno fece un voto davanti alla statua del bodhisattva Kokuzo: chiese di diventare l’uomo più saggio del Giappone. Il suo corpo esile possedeva una grande energia vitale ed egli formulò questa preghiera cercando di inviarla lontano nell’universo.
Ma qual è il significato di questa preghiera rivolta da Yakuomaro al bodhisattva Kokuzo, che simboleggia la vita universale? Forse la risposta risiede proprio nel fatto che il giovane desiderava rivolgersi all’essenza dell’universo.
Secondo le cronache del tempio Seicho-ji, la statua era stata scolpita da un prete di nome Fushigi Hoshi. Egli aveva fatto visita al Seicho-ji nel 771, durante il regno dell’imperatore Konin dell’epoca Nara, e, dopo aver fatto tagliare un vecchio albero, aveva scolpito la statua e l’aveva fatta deporre in un piccolo santuario.
Nell’850, durante l’epoca Heian, il Seicho-ji fu visitato da Jikaku, un prete del tempio Enryaku-ji, il quale fece ricostruire il santuario in cui era alloggiata la statua. Per opera di Jikaku il tempio Seicho-ji entrò a far parte della setta Tendai. Successivamente il tempio fu distrutto da un fulmine nel 1096 ma immediatamente il feudatario locale, Minamoto Chikamoto, lo fece ricostruire.
È molto probabile che il tempio in cui visse Yakuomaro fosse proprio quello fatto costruire dopo l’incendio, ma le notizie certe in merito non sono molte. Nei pressi del tempio sorgeva un fitto bosco di alberi secolari e l’intera zona era venerata come sacra. Un altro incendio distrusse il tempio alcuni secoli dopo, durante il periodo Genroku. Si ritiene che la struttura attuale risalga al diciassettesimo secolo.
Nel momento in cui Yakuomaro decidette di diventare la persona più saggia del Giappone, nella sua mente si fecero strada molte domande. «Il Buddismo è stato insegnato da una sola persona; perché allora al giorno d’oggi esistono così tante sette? La verità rivelata da Shakyamuni deve essere una sola. Quale setta, allora, all’interno dei suoi insegnamenti, cela quest’unica verità?».
Tutte le scuole religiose esistenti indirizzavano le loro preghiere in favore della pace e della prosperità della popolazione, tuttavia queste preghiere non ottenevano risposte positive. Per esempio, l’imperatore Antoku era morto annegato in mare in seguito all’attacco portato dall’esercito di Minamoto Yoritomo. Non solo, durante la rivolta di Jokyu, che era avvenuta pochi anni prima della nascita di Yakuomaro, le forze imperiali erano state sconfitte dalle armate di Hojo Yoshitoki. In seguito a queste vicende, i tre ex imperatori sconfitti vennero esiliati. Gotoba fu mandato nelle isole di Oki, nel Mar del Giappone, Juntoku si vide comminare l’esilio a Sado e Tsuchimikado ebbe in sorte l’isola di Shikoku, nella provincia di Awa.
La gente comune non era in grado di capire come fosse possibile che le armate imperiali potessero essere sconfitte dai ribelli. Si riteneva infatti che i sovrani fossero discendenti diretti delle divinità native del Giappone e quindi invincibili. Cosa stava succedendo?
Questo genere di domande, apparentemente semplici, in realtà rivestivano una grande importanza e occupavano completamente i pensieri di Yakuomaro. Ma non c’era un solo prete del tempio Seicho-ji che fosse capace di rispondere in modo esauriente a una sola questione. Il giovane Yakuomaro, da parte sua, era invece deciso a trovare le risposte a ogni costo. I grandi dubbi conducono all’Illuminazione e nel suo caso i suoi dubbi lo portarono a esplorare la basi essenziali del Buddismo.
Nel 1237 Kamakura fu colpita da un’inondazione causata da piogge intense. Quello stesso anno, l’8 ottobre, Yakuomaro ricevette la tonsura da parte del suo maestro Dozen-bo e, all’età di sedici anni, divenne prete con il nome di Zeshobo Rencho. Subito dopo iniziò un periodo di studi approfonditi che lo condusse in vari templi.
Il giovane prete si recò a Kamakura, il centro politico del Giappone nel XIII secolo, recando con sé le sue domande sulla dottrina buddista. Tuttavia scoprì ben presto che malgrado Kamakura fosse il centro della vita pubblica, la cultura non godeva di adeguata considerazione. Rencho trascorse dunque quattro anni a Kamakura senza riuscire a soddisfare i propri interrogativi e decise di tornare al Seicho-ji. Ma la sua sete di sapere era incontenibile e lo condusse alla decisione di recarsi a Kyoto, la lontana capitale.
La sua prima meta fu il tempio Enryaku-ji sul monte Hiei, ove poté studiare a fondo le dottrine della setta Tendai Shingon. In seguito le sue peregrinazioni lo portarono ai templi Onjo-ji, Tenno-ji, Koyasan e in diversi altri luoghi dell’area situata fra Kyoto e Nara, ove poté studiare gli insegnamenti di diverse scuole.
Potrebbe sembrare strano che una persona dovesse recarsi in visita presso i templi per poter studiare le dottrine del Buddismo, ma in quei giorni era il solo modo praticabile; ci si recava presso i templi illustri e si cercava di parlare con i preti che godevano della massima reputazione in ambito dottrinale.
Ogni setta aveva sviluppato il proprio sistema di insegnamento e custodiva i documenti su cui basava la dottrina. Il tempio principale delle varie scuole rivestiva lo stesso ruolo di un’università dei giorni nostri ed era uso comune che i preti si recassero presso i centri delle diverse sette per motivi di studio. Se da un lato i preti Zen erano accolti nei templi Shingon, i preti della setta Nembutsu potevano studiare liberamente presso i centri della setta Ritsu. Al centro di questo complesso sistema “universitario” vi era la città di Kyoto: coloro che ricercavano la verità si recavano nella capitale e avevano modo di ascoltare le lezioni di numerosi preti di fama.
È un dato di fatto che ogni cultura nel corso della storia si sia formata su una dottrina religiosa che ne ha rappresentato l’ossatura su cui la cultura e la vita sociale si sono innestate.
Il giovane Rencho trascorse così dodici anni nella zona di Kyoto e Nara, in cerca delle risposte alle sue domande. Possiamo immaginare come si recasse in visita giorno per giorno dai molti preti che vivevano in quella regione, per aver modo di apprendere ciò che gli stava tanto a cuore. Ma gli anni trascorsero senza che Rencho riuscisse a soddisfare i suoi quesiti. Per trovare ciò che cercava avrebbe dovuto ricorrere alle sue risorse interiori.
Da un certo punto di vista, dopo i molti anni dedicati allo studio, poteva quasi ritenere di aver soddisfatto il suo voto di diventare la persona più saggia del Giappone. Nel cuore del prete trentaduenne era maturata un’intima convinzione. Aveva considerato le fasi della propagazione del Buddismo attraverso le epoche di shoho, zoho e mappo e aveva intuito cosa questo significasse per lui. Il suo approfondito studio del Sutra del Loto, cui si accompagnava un attento esame di tutti gli altri sutra, lo aveva condotto là ove nessuno prima di lui si era mai avventurato.
Di lì a poco la filosofia eterna del Buddismo sarebbe stata rivelata; Rencho aveva intuito quale fosse l’essenza di tutti i sutra e i suoi insegnamenti dimostravano quale profonda comprensione egli avesse maturato in merito alle scritture. Nessuno dei suoi predecessori aveva raggiunto un livello paragonabile al suo e la dottrina da lui impartita manifestava una vitalità infinita.
Rencho tornò dunque al Seicho-ji dopo dodici anni di assenza e fu accolto con favore dai preti e dal maestro Dozen-bo. Questi, ricordando con piacere il giovane Yakuomaro, ebbe modo di riconoscere che l’allievo aveva addirittura superato il maestro.
La fama di Rencho si diffuse rapidamente e tutte le persone che gravitavano intorno al Seicho-ji, preti e laici, desideravano conoscere ciò che il prete aveva maturato nel corso di tanti anni di studi. In particolare questo desiderio era molto forte tra coloro che gli erano stati vicini.
Venne quindi organizzato un sermone cui avrebbero potuto prendere parte tutti i seguaci del Seicho-ji e durante il quale Rencho avrebbe avuto ampio spazio per illustrare la sua dottrina. La notizia dell’evento giunse persino a Kominato, il luogo natale del giovane prete.
Venne stabilita la data del 28 aprile e Rencho scelse l’ora di mezzogiorno, senza che nessuno ne potesse conoscere il motivo. Dentro di sé sentiva che il momento era finalmente giunto.
Secondo una biografia, Rencho si ritirò in meditazione per sette giorni in una sala del Seicho-ji, a partire dalla notte del 22 aprile. Era pienamente consapevole della difficoltà insita nel compito di trasmettere il suo rivoluzionario insegnamento basato sulle profonde dottrine buddiste. Sapeva che il suo pubblico avrebbe potuto reagire con forte sorpresa e anche mostrando avversione.
Giunse l’alba del 28 aprile e Rencho lasciò la sua stanza per la prima volta dopo una settimana. Il sole non era ancora sorto quando egli si incamminò godendo della fresca brezza degli inizi dell’estate. Il sentiero era circondato da alberi d’alto fusto e tutta la zona era avvolta nel silenzio. Alle orecchie di Rencho giungeva solo il cinguettio degli uccellini; egli si diresse verso la sommità del colle Kasagamori (che oggi si chiama Asahigamori). Una volta giunto sulla cima, le acque del Pacifico gli si pararono davanti, vaste e scure in lontananza.
Dopo pochi attimi il cielo a est cambiò colore e il rosso porpora cominciò a schiarirsi, divenendo via via sempre più giallo. La luce del sole in ascesa illuminava l’orizzonte: un nuovo giorno era iniziato.
Rencho era immobile e con gli occhi fissava il cielo verso est. La luce si faceva sempre più intensa e finalmente dalla linea dell’orizzonte spuntò il sole che proiettava la sua immagine sulle acque dell’oceano. Il globo immenso e luminoso fu presto visibile in tutta la sua maestosa grandezza.
Rencho unì le mani in un gesto di preghiera e rivolto verso il sole pronunciò il Daimoku per la prima volta: «Nam-myoho-renge-kyo!» Era la prima voce che declamava il principio essenziale della Legge mistica nell’Ultimo giorno della Legge. Fino a quel momento nessuna voce umana era mai giunta tanto lontano nell’universo. Il Buddismo della vera causa era stato fondato. Rencho invocò la Legge per un po’ di volte: la sua voce risuonava nella fresca aria del mattino. Tuttavia l’atto di invocare la Legge al cospetto del sole non significava che venerasse il sole. Egli si rivolse al sole nascente come al fulcro del nostro sistema solare ed espresse ciò che sentiva dentro di sé. La luce del sole illuminava il suo volto, caratterizzato da folte sopracciglia e da occhi scuri. Il suo corpo robusto, avvolto da una tonaca di seta grigia, brillava per il riflesso della forte luce solare. Anche nella vita di Rencho vi era stata un’alba ed era sorta la somma condizione vitale della vita umana. L’uomo e la natura, un uomo e l’essenza della vita universale, si erano fusi in un’unica entità. Gli occhi di Rencho avevano un’espressione austera ma anche distesa e si proiettavano verso il passato più remoto e il futuro senza limiti. Egli era immobile, come una statua. Di lontano non si poteva vedere altro che il profilo di una persona eretta in controluce, ma quell’immagine simbolica rappresentava un’alba preziosissima, che sarebbe stata ricordata in eterno.
Gli occhi di Rencho correvano lungo la linea dell’orizzonte e si soffermarono su una scogliera imbiancata dalle onde che vi si frangevano contro, ad alcuni chilometri di distanza verso sud. Non si potevano vedere le onde, ma Rencho aveva quasi l’impressione di poter udire il rumore della risacca. La casa dei suoi genitori si trovava nei pressi della scogliera. Pensò che probabilmente essi si erano appena alzati e cercò di intravedere il fumo del fuoco appena acceso, ma senza successo. Dopo alcuni istanti tornò in sé e si incamminò in direzione del tempio. Il sole ormai si era alzato dalla linea dell’orizzonte e la sua luce si era fatta molto intensa.
Lungo il sentiero il prete era accompagnato dal canto degli uccelli. Camminava rapidamente e pensando alla sua missione di dedicare la vita alla propagazione del Sutra del Loto nell’epoca di mappo, sentì che i suoi passi erano molto forti e decisi. Si diresse verso lo Shobutsu-bo, che era circondato da alberi fitti di foglie. Era una giornata particolarmente limpida e la cima del monte Seicho era perfettamente visibile. Il monte è situato sul lato est delle colline di Boso che attraversano tutta la penisola omonima ed è una delle cime più alte. Tutta la zona è quasi sempre limpida e risente del clima della zona meridionale.
I monti che proseguono lungo la linea del Seicho formano una linea spartiacque fra le province di Awa e Kazusa; stranamente costituiscono anche un confine per quanto riguarda la vegetazione. Verso nord prosperano le piante tipiche dei climi temperati, mentre nella zona sud cresce la vegetazione tipica delle regioni subtropicali.
Il giorno avanzava e i seguaci del tempio, uomini e donne di tutte le età, cominciarono a salire lungo il sentiero che conduceva al luogo in cui Rencho avrebbe tenuto il suo sermone. L’aria si era fatta più calda e faceva sudare per la fatica. La gente giungeva a piccoli gruppi da Amatsu, Kominato e Kamogawa. Verso mezzogiorno lo spazio antistante lo Shobutsubo si era riempito di persone. All’ora stabilita Dozen-bo e tutti gli altri membri del clero apparvero al cospetto del pubblico e si disposero in una fila rivolta verso i seguaci. Man mano che il sole si avvicinava allo zenit, le ombre degli alberi circostanti si accorciavano; di tanto in tanto una fresca brezza soffiava attraversando lo spiazzo occupato dai preti e dai seguaci del Seicho-ji.
Rencho si affrettò lungo il corridoio e non appena giunse al cospetto del suo pubblico si inchinò rispettosamente. Subito dopo prese posto dietro un ampio tavolo disposto proprio davanti al Jibutsudo, rivolto verso sud. Occhi pieni di curiosità erano rivolti verso il giovane prete, che ispirava una sensazione di grande nobiltà interiore.
Rencho prese tra le mani il juzu e le unì in un gesto di preghiera. La sua voce cominciò a declamare: «Nam-myoho-renge-kyo». Egli recitò il Daimoku tre volte con voce profonda ed espressiva. Naturalmente non fu imitato da alcuno dei presenti, i cui sguardi non tardarono a rivelare un certo stupore. L’unica invocazione conosciuta dai presenti infatti era il Nembutsu e nessuno di loro aveva mai udito il Daimoku in precedenza.
«In questo luogo ho trascorso la mia giovinezza e ora io, Nichiren, in qualità di devoto del Sutra del Loto nell’epoca di mappo, esporrò la dottrina in virtù della quale sono apparso al mondo».
Al di sopra delle teste dei seguaci riuniti egli poteva osservare il cielo che si era tinto di un blu intenso. Il suo sguardo si fissò sull’orizzonte, illuminato dal pieno sole. Pensò alle innumerevoli persone che vivevano nel mondo e a tutti coloro che sarebbero nati nelle epoche successive. Il suo insegnamento in realtà era diretto al genere umano nell’Ultimo giorno della Legge, piuttosto che alle persone che in quel momento si trovavano al suo cospetto.
Rencho iniziò la sua lezione parlando della concezione buddista del tempo e del significato di mappo. Egli illustrò le vicende della propagazione del Buddismo nel Primo e nel Medio giorno della Legge e citò un passo del Sutra Daishitsu in cui Shakyamuni chiarì cosa intendesse parlando di Ultimo giorno della Legge. Il sutra afferma: «Nel corso dei “prossimi” cinquecento anni ci saranno conflitti e dispute riguardo ai miei insegnamenti e la pura Legge perderà i suoi poteri». In seguito il prete parlò della progressiva decadenza del Buddismo in mappo citando diversi accadimenti che concordavano con le predizioni del Budda.
[…]
Nel momento in cui Nichiren denunciava le sette Shingon e Ritsu, egli aveva in mente un insegnamento buddista che fosse aperto alla società e capace di portare prosperità e pace durevoli. Giocoforza, egli intravedeva la necessità di superare i confini del proprio paese e di allargare gli orizzonti al mondo intero. Così il 28 aprile, nella piena luce di mezzogiorno, Nichiren pronunciò le sue accuse nei confronti delle dottrine eretiche senza che nessuno avesse neppure immaginato che egli potesse osare tanto. Le sue parole, tuttavia, era indirizzate a tutti gli esseri viventi dell’Ultimo giorno della Legge.
Fu un’autentica rivelazione: il Buddismo della vera causa che avrebbe salvato gli esseri umani nell’epoca di mappo, profetizzato da Shakyamuni, T’ien-t’ai e Dengyo non poteva essere praticato altro che mediante la devozione ai sette caratteri di Nam-myoho-renge-kyo, la grande Legge celata profondamente nel Sutra del Loto. La quiete del Seicho-ji era stata scossa violentemente, da lì avrebbe avuto inizio la rivoluzione religiosa. Naturalmente la cosa non fu priva di conseguenze, dato che Nichiren aveva esortato i preti delle diverse scuole ad abbandonare le proprie convinzioni. Il prete trentaduenne, pienamente consapevole della propria missione nell’Ultimo giorno, aveva compiuto il primo passo verso la propagazione del Buddismo della vera causa per l’eterno futuro, con una determinazione assoluta.
Niente è più forte della verità. La coraggiosa dichiarazione di Nichiren, che scaturiva direttamente dal cuore, pronunciata davanti ai seguaci del Seicho-ji, era diretta ai popoli del mondo intero. La maggior parte dei presenti, tuttavia, reagì con profondo disagio; nessuno in realtà era disposto ad abbandonare la propria fede su due piedi per seguire il nuovo insegnamento. Nessuno, all’interno dell’assemblea, riusciva a capire la profondità della dottrina e l’autentica intenzione di Nichiren.
da La rivoluzione umana, vol. 6, pagg. 4-30

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