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La vita è sempre meravigliosa - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 09:31

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La vita è sempre meravigliosa

I frutti della guerra sono morte, distruzione e cuori straziati. Solo la via del dialogo e della fiducia reciproca può curare queste ferite e aiutare le persone a riscoprire quanto è bello vivere

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I frutti della guerra sono morte, distruzione e cuori straziati. Solo la via del dialogo e della fiducia reciproca può curare queste ferite e aiutare le persone a riscoprire quanto è bello vivere

«Viviamo in un’epoca impazzita, noi siamo impazziti», ha detto una giovane madre musulmana a Sarajevo. Dieci milioni di mine terrestri sono state disseminate nella ex Jugoslavia. Alcune sono a forma di uova di cioccolato o gelati. Perché? Per indurre i bambini a raccoglierle. Una bambina è morta all’istante uccisa da un ordigno inserito in un orsacchiotto.
Chi ha sviluppato simili armi? Chi le ha costruite? Chi trae profitto dalla loro vendita? Perché non possiamo fermarli? Che cosa possiamo fare? Secondo l’esperto di studi sulla pace scandinavo Jan Øberg, cofondatore e direttore della Fondazione transnazionale per la pace e la ricerca sul futuro (TFF), la cosa importante è non allontanarsi dalla zona del conflitto ma anzi, mettervi radici e ascoltare le voci dei cittadini comuni per farle poi sentire in tutto il mondo. Questo è l’unico modo, a suo avviso, per arrivare alla pace.
Øberg e i suoi colleghi hanno condotto importanti studi in tutta la ex Jugoslavia dilaniata dalla guerra, dove la violenza scoppiò inizialmente nel 1991. Quando l’ho incontrato, nel dicembre del 1995, vi era stato più di venti volte e aveva intervistato milleduecento persone. Uno studioso di pace che non è presente sulla scena della risoluzione del conflitto è come un medico, ha detto, che cura i pazienti senza averli prima visitati.
Questo non è vero solo per gli studiosi di pace, vale anche per chi deve prendere decisioni. Øberg fa notare che a chi non ha ricevuto una rigorosa preparazione medica non è permesso eseguire operazioni chirurgiche eppure, senza alcun tipo di training, i politici, i presidenti, e i diplomatici fanno “chirurgia” in regioni problematiche del mondo. Non c’è da meravigliarsi se il “paziente” chiamato Jugoslavia è morto. La comunità internazionale ha fatto molto in risposta alla crisi nella ex Jugoslavia, ma le sue azioni ricordano a Øberg un medico che, senza esaminare la causa della malattia del paziente, gli amputa erroneamente una gamba sana.
Nichiren Daishonin ha paragonato i metodi per raggiungere la pace all’arte della medicina, avvertendo severamente coloro che detengono il potere che una cura sbagliata non condurrà mai alla pace. «Se si cerca di curare una malattia senza conoscerne la causa – scrive Nichiren –, la malattia si aggraverà ancora di più» (SND, 4, 62). Analogamente, Øberg sostiene la necessità di una “medicina del conflitto” e di “dottori del conflitto” per curare la malattia del conflitto, cioè “scienziati” e “tecnici” che operano per la “salute” dell’umanità, in altri termini, per la pace e la riconciliazione.
Il primo passo è una diagnosi appropriata. Øberg e i suoi collaboratori hanno parlato con una vasta schiera di persone, dai capi di stato ai rifugiati. Hanno parlato con madri che hanno perso i figli in guerra e anche con soldati, giornalisti, contadini, religiosi, impiegati statali e negozianti. Più ascoltavano la voce delle persone e più era chiaro che il messaggio trasmesso dai media nel mondo era incredibilmente distorto.
Un esempio era la menzogna che il conflitto nella ex Jugoslavia fosse il risultato di un astio atavico tra i vari gruppi etnici presenti nella regione. Una ragazza intervistata a Zagabria ha detto: «Fino a un paio di mesi fa, facevo fatica a sapere chi tra i miei amici era serbo o croato. Ma non è più così. Ora ci sono ditte che chiedono ai propri impiegati di scrivere i loro nomi in liste dove si deve indicare “la nazionalità”. Durante l’ultimo censimento, ai cittadini della Croazia è stato chiesto di indicare se erano croati, serbi o se appartenevano ad altre minoranze. In situazioni simili mi viene da pensare al modo in cui furono trattati gli ebrei nel Terzo Reich sotto Hitler».
Prima dello scoppio della violenza, le persone appartenenti ai diversi gruppi etnici coesistevano pacificamente nella stessa comunità e negli stessi posti di lavoro e si facevano matrimoni misti. Ma poi sono emersi leader politici che hanno alimentato il fervore nazionalistico, ponendo deliberatamente l’accento sulla coscienza etnica e dividendo la popolazione.
Una undicenne di Sarajevo va al nocciolo della questione: «Tra le mie amiche, fra i nostri amici, e nella nostra famiglia, ci sono serbi, croati e mussulmani. È un gruppo misto e non ho mai saputo chi era serbo, croato o mussulmano. Ora la politica ha cominciato a impicciarsi, ha messo una “S” ai serbi, una “M” ai mussulmani e una “C” ai croati, vuole separarli… Perché la politica ci rende infelici, ci separa, quando sappiamo da soli chi è buono e chi non lo è? Noi stiamo con i buoni, non con i cattivi. E tra i buoni ci sono serbi e croati e mussulmani, come ce ne sono tra i cattivi. Non capisco proprio. Certo, sono “giovane” e la politica è fatta dai “grandi”, ma penso che i “giovani” la farebbero meglio. Noi di certo non avremmo scelto la guerra».
Invece gli adulti hanno scelto la guerra. Alik, un rifugiato di tredici anni, racconta: «I soldati ci hanno costretto a uscire di casa e quindi l’hanno incendiata. Dopo ci hanno portato al treno e lì hanno ordinato agli uomini di stendersi per terra. Dal gruppo hanno scelto quelli che avrebbero ucciso. Hanno preso mio zio e un vicino di casa! Poi li hanno uccisi a colpi di mitra».
Quando si viene a sapere che una persona è stata uccisa dai serbi, tutti i serbi vengono denunciati. In questo modo si costruisce l’odio razziale. Un giornalista ha commentato: «Le tensioni etniche e i conflitti non nascono spontaneamente; sono incitate, acuite, e organizzate fino a quando prendono la forma del conflitto».
Ai negoziati di pace vengono invitati i principali rappresentanti di ogni particolare gruppo etnico, sono esclusi i rappresentanti della vasta maggioranza dei cittadini comuni che desiderano vivere in armonia senza preoccuparsi dell’etnia. Come ci si può aspettare che i negoziati siano fruttuosi quando gli unici partecipanti sono politici che invocano il nazionalismo etnico?
Øberg mi ha detto che, quando ci si trova fisicamente sul posto, è inutile dal punto di vista pratico cercare di comprendere la realtà della situazione classificandola come conflitto etnico o cercando di spiegarne le cause da quel punto di vista. Sebbene stesse parlando in tono garbato, dalle sue parole traspariva un’ironia amara e una collera silenziosa. Secondo la sua analisi, il conflitto nella ex Jugoslavia non è stato semplicemente uno scontro etnico o religioso e neppure il risultato del collasso del comunismo in quel paese. Øberg ha spiegato che la crisi che ha portato alla disgregazione della Repubblica Socialista Jugoslava, verificatasi in condizioni economiche sempre più disastrose, è stata sfruttata dalle potenze mondiali che desideravano un ordine mondiale post-guerra fredda favorevole ai loro interessi. Questo ha finito per accrescere la portata della tragedia. Inoltre i leader politici locali, sfruttando il nazionalismo per i loro scopi, hanno alimentato i sentimenti nazionalistici, scatenando lo scontro etnico.
L’ex Jugoslavia è stata descritta come una nazione con sette confini, sei repubbliche, cinque gruppi etnici, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un nome. Secondo Øberg, quello che è chiamato “conflitto nella ex Jugoslavia” sono in realtà trenta diversi conflitti. Le cause e la storia di queste dispute sono estremamente complesse e interrelate.
Eppure, i media e coloro che prendono le decisioni hanno mostrato una forte tendenza a semplificare eccessivamente la situazione. E la semplificazione più pericolosa è stata considerare il conflitto in termini rigidamente manichei, di bianco e di nero. Di conseguenza la comunità internazionale, che dovrebbe fungere da mediatore imparziale ed equo, ha finito per ridurre la guerra civile nella ex Jugoslavia a una lotta tra il bene e il male.
Praticamente senza eccezione alcuna, i serbi sono stati ritratti come il “male”, mentre gli altri gruppi sono stati raffigurati come vittime. Questa è la storia, l’immagine che è stata diffusa in tutto il mondo. Una volta deciso che questa era la storia, i fatti che non le corrispondevano venivano scartati, mentre quelli che la avallavano erano abbondantemente divulgati. I massacri brutali hanno avuto luogo su tutti i fronti, tuttavia solo quelli perpetrati dai serbi sono stati ampiamente narrati. Un ricercatore ha osservato: «I mass media non sono realmente interessati alla realtà. Vogliono solo confermare le loro nozioni preconcette. Di conseguenza non guardano alle realtà che non combaciano con i loro convincimenti. È spaventoso».
E non si è trattato neppure di un incidente casuale. È stato dimostrato che, di fatto, un’agenzia di pubbliche relazioni assoldata da uno dei gruppi combattenti contro i serbi ha avuto un ruolo attivo nel creare questa visione dei fatti. La Serbia, vista come un paria dalla comunità internazionale, si è sentita tutto il mondo contro. Naturalmente dei negoziati di pace fruttuosi e obiettivi erano impossibili, e il conflitto si è protratto.
Non si può condurre una mediazione imparziale, osserva Øberg, mentre si critica aspramente una delle parti. Non ci può essere pace se qualcuno è calpestato. Un’eccessiva semplificazione del conflitto, con il vilipendio di una parte, ha facilmente aperto la strada a uno scenario di intervento militare per “punire” il male. In breve, una parte è stata demonizzata proprio per giustificare l’intervento militare.
Più di settant’anni fa, il diplomatico britannico Lord Arthur Ponsonby (1871-1946) nel suo libro Falsehood in Wartime (Falsità in tempo di guerra) scriveva delle solite affermazioni propagandistiche che i leader pronunciano in tempo di guerra. Recentemente la storica belga Anne Morelli ha ripreso in mano l’analisi di Ponsonby, estrapolando dalle sue ricerche sulla propaganda bellica i seguenti dieci principi:

1. Noi non vogliamo la guerra.
2. L’altra parte è la sola responsabile della guerra.
3. Il nemico ha le sembianze del diavolo.
4. Difendersi è una nobile causa e non un interesse particolare.
5. Il nemico commette atrocità intenzionalmente, se noi commettiamo spiacevoli errori, lo facciamo involontariamente.
6. Il nemico usa armi non consentite.
7. Noi abbiamo poche perdite, mentre quelle del nemico sono ingenti.
8. Artisti e intellettuali sostengono la nostra causa.
9. La nostra causa è di natura sacra.
10. Chi mette in dubbio le nostre affermazioni è un traditore.

Menzogne e pregiudizi promuovono la guerra, e la guerra promuove menzogne e pregiudizi.
Øberg fa presente che in molti paesi i media sono più un’organizzazione governativa che un’organizzazione indipendente. Le decisioni politiche e le azioni intraprese a riguardo della ex Jugoslavia, osserva, non erano basate sulla realtà, ma sull’immagine di essa presentata dai media. Qual è il valore di una strategia “realistica” per raggiungere la pace quando si basa su una visione della realtà distorta?
Sandra, una ragazzina di dieci anni di Vukovar ricorda: «Ci sono tante persone che non hanno chiesto di fare questa guerra, né di finire sotto un metro di nera terra. Tra questi ci sono i miei amici».
Sebbene si possa imparare a curare le malattie, non si riuscirà a eliminarle. Neppure il conflitto scomparirà del tutto dalla società umana. La scelta è se rispondere efficacemente o inefficacemente a simili problemi quando sorgono. Rispondendo efficacemente, il problema, la malattia, può essere un trampolino per il progresso e la creatività, rendendo gli individui più forti e sani. Anche il Buddismo insegna l’unicità di salute e malattia.
D’altro canto, se non si riesce a diagnosticare e a trattare il problema correttamente, dice Øberg, il conflitto aumenterà fino a trasformarsi in violenza e guerra. Come studioso di pace, ha formulato queste osservazioni: «La guerra è un segno di fallimento. Significa che si è stati incapaci di affrontare adeguatamente il conflitto che l’ha causata». «La violenza nasce dalla frustrazione di non riuscire a risolvere efficacemente il conflitto». «Il codardo e l’intollerante concludono che le forze armate sono l’unica scelta possibile. All’opposto, la nonviolenza è un credo costruttivo che ammette l’esistenza di altre opzioni». «Non si possono curare gli ammalati attaccandoli e punendoli; analogamente, il conflitto non si può risolvere con la forza, che aggrava solamente il problema e rende più difficile la ricerca di una soluzione praticabile a lungo termine». «La violenza causa qualcosa di irreparabile; inoltre le uccisioni sono irreversibili».
Anche il bombardamento del Kossovo nella ex Jugoslavia ha ucciso una moltitudine di persone e ha trasformato centinaia di migliaia di innocenti in rifugiati. Qualcuno sostiene, a difesa di questo atto, che il mondo non può stare a guardare lasciando che gli scontri proseguano, ma Noam Chomsky ha confutato questa posizione: «Immaginate di assistere a un crimine per la strada, non ve la sentite di star lì a guardare in silenzio, così prendete un fucile e uccidete tutti: criminale, vittima, e passanti. Dovremmo forse pensare che è quella la risposta più adeguata dal punto vista morale e razionale?».
E non si può dimenticare che ci sono stati trafficanti d’armi e altre categorie di persone che hanno tratto vantaggio dal conflitto.
Guerra e pace. Non sono eventi distanti; sono qui insieme a noi adesso. Una mentalità di guerra e una cultura di guerra appaiono evidenti quando, senza un serio tentativo di ascoltare e chiarire le rivendicazioni di ambo le parti, si “risolvono” i conflitti nel mondo usando gli eserciti per punire “i cattivi” ed eliminare il problema. Questo modo di pensare è radicato nella politica mondiale ma lo ritroviamo anche più vicino a noi. Ecco perché le basi per affermare la pace stanno nel promuovere ampiamente in tutti gli ambiti della società un impegno sostanziale per risolvere i conflitti attraverso mezzi nonviolenti, e in un’educazione che insegni una cultura di pace fin dall’infanzia.
Un gruppo di educatori negli Stati Uniti si sta impegnando a insegnare ai bambini la nonviolenza fin dal livello prescolare. Per esempio, un conflitto che capita di frequente in un asilo riguarda il rimettere in ordine. Per far riflettere i bambini su questa situazione, le insegnanti hanno allestito uno spettacolo di burattini.
La scena si apre con tre burattini, raffiguranti i bambini, che giocano. Un burattino adulto entra e dice che in cinque minuti devono rimettere tutto a posto. I tre burattini bambini protestano e adducono varie scuse: «Sono troppo stanco», «Non sto bene», «Mi fanno male le gambe», «Non ho usato quei giocattoli», «Devo andare in bagno».
I bambini guardando lo spettacolo scoppiano a ridere, riconoscendo il loro comportamento quotidiano interpretato dai burattini. Poi le insegnanti interrompono lo spettacolo e chiedono ai bambini come, secondo loro, i burattini avrebbero dovuto risolvere il problema. Sentendo che occorrono idee per continuare lo spettacolo, i bambini iniziano a proporre soluzioni.
1. «Le insegnanti dovrebbero picchiare i piccoli per non aver rassettato» [la violenza come soluzione]. Si è discusso questa idea e si è deciso che nessuno ama essere picchiato.
2. «Le insegnanti dovrebbero urlare ai bambini» [punizioni e sanzioni]. Si è concluso che a nessuno piace essere sgridato.
3. «Nessuno dovrebbe mettere in ordine, si lascia tutta la roba in giro» [ignorare ed evadere il problema]. Se n’è parlato e si è concluso che a volte può andar bene ma che poi le cose cominciano a dar fastidio, vanno perse e si rompono.
4. Infine, la soluzione arriva. «Devono riordinare tutti assieme, adulti e bambini». Si è parlato di questo. «Ci piace riordinare?». No. Tutti hanno convenuto che non era divertente. «Allora perché farlo?». La discussione è continuata.
Dopo lo scambio di idee, le insegnanti hanno messo in scena la seconda parte dello spettacolo sulla base della soluzione proposta dai bambini. Poi i bambini sono stati lasciati giocare con i burattini e hanno fatto il loro spettacolo. Da allora, le insegnanti hanno detto che i problemi al momento di riordinare sono dimezzati. Non posso essere l’unico a pensare che i leader mondiali hanno qualcosa da imparare da questo episodio.
Øberg dice che quando si discute di pace, l’aspetto più spesso trascurato è la dimensione umana: «Come mai si parla così spesso di ristabilire la pace dopo le ferite e i danni delle guerre senza prestare attenzione agli aspetti umani dei conflitti e in particolare a quelli del perdono e della riconciliazione? Osservate la Bosnia e la Croazia a partire dal 1995, guardate il Kossovo ora, o la Somalia, o… Le persone si sono davvero date la mano o si sono dette “Ti perdono?”. Si sono riunite con reciproca fiducia? Hanno imparato ad affrontare il passato, non per dimenticarlo o per biasimarsi a vicenda, ma per riconoscere ciò che è accaduto e trovare la maniera di evitare che si ripeta? Lo stesso si può dire anche per il Sudafrica?». E del Giappone che cosa si dice? Abbiamo rimediato agli errori del passato?
Øberg commenta inoltre: «È facile riparare le case e le infrastrutture, è facile investire soldi a destra e a manca e parlare di diritti umani. Ma che cosa accade se fondamentalmente le persone continuano a odiarsi l’un l’altra? Saranno mai felici e in pace con se stesse? Coi loro figli? Che genere di società sarà se non si riesce a “riparare” anche i cuori, a creare tolleranza, coesistenza e magari anche cooperazione e amore? È necessario che gli obiettivi principali diventino il perdono e la riconciliazione».
Non si può estrarre l’acqua dal fuoco. La pace si può ottenere solo con mezzi pacifici.
Øberg, assieme alla moglie Christina Spännar e ad altri studiosi di pace, ha condotto sessioni di studio sul conflitto in tutta la ex Jugoslavia, con partecipanti che hanno realmente sperimentato gli orrori della guerra. Quando sono arrivati alle riunioni, questi partecipanti si sono trovati di fronte persone del gruppo etnico “nemico”: «Questa gente ha ucciso mio marito, ha rapito mio figlio!». Tuttavia, lo scopo di Øberg era di far parlare tra loro i partecipanti, non come rappresentanti di un gruppo etnico o dell’altro, ma come singoli esseri umani.
A una delle sedute hanno partecipato bambini serbi e croati, membri di gruppi etnici diventati “nemici mortali”. Sono venuti anche i loro genitori. L’atmosfera era gelida. Øberg ha chiesto a ognuno di raccontare la propria storia – ciò che era accaduto a ciascuno – alla condizione che restassero aderenti ai fatti legati alla loro personale esperienza ed evitando di attribuire responsabilità. Era la loro prima occasione di parlare faccia a faccia con “il nemico”.
Alla fine, ciò che è emerso, nei loro sofferti discorsi, era un enorme dolore. Parlando e ascoltando, piangevano. E quindi si sono accorti che avevano tutti sofferto allo stesso modo, che erano tutti vittime degli stessi tragici errori. Alla fine sono passati dal piangere insieme al ridere insieme. Alcuni sono perfino diventati amici, e altri hanno iniziato a lavorare a vari progetti comuni. Øberg l’ha definita «una delle esperienze più commoventi della mia vita».
«Perché non impiegare i comitati di riconciliazione e verità prima della guerra?», chiede Øberg. «Si potrebbe imparare a contrastare la guerra e la violenza in quanto tali, invece che combattere gli uni contro gli altri». Noi sosteniamo l’appello appassionato di Øberg. Lo sosteniamo con tutto il nostro essere. Questa è vera giustizia!

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Jan Øberg

Nato in Danimarca nel 1951, Jan Øberg ha un dottorato in sociologia ed è stato direttore dell’Istituto di ricerca per la pace dell’Università di Lund. È stato segretario generale della Fondazione danese per la pace e, nel 1996, insieme alla moglie Christina Spännar ha istituito la Fondazione transnazionale per la pace e la ricerca sul futuro (TFF). Oltre che direttore della TFF, Øberg è presidente del consiglio d’amministrazione della Fondazione.
La pagina ufficiale della TFF si trova all’url:
http://www.transnational.org/

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