Mi ricordo bene la prima volta in cui mi sono impegnata in una seria attività per gli altri: ero giovanissima, sia di età che di pratica, e mi avevano chiesto di accompagnare il mio amico e responsabile a trovare una ragazza che si era avvicinata al Buddismo e che, come me, era poco più che adolescente. Ero molto contenta di farlo, anche se un po’ impaurita. Poco prima di uscire di casa, però, scoprii che il mio addome si era ricoperto di strane bollicine rosse. «Non posso proprio andare», pensai, e avvertii l’amico che non se ne faceva di niente. «Recita Daimoku per superare questa difficoltà, invece – ribatté lui – questa è la tua prima occasione di fare attività per gli altri». Diligentemente, seguii questo consiglio e in meno di un’ora mi ristabilii perfettamente, potendo così effettuare la mia prima “visita a casa” della mia carriera buddista.
Ebbi modo di scoprire dal vero che il principio della pratica per sé e per gli altri, tratta di una inscindibilità reale, che si può toccare e, come un uccello non può volare con una sola ala, noi umani siamo evidentemente intrecciati gli uni con gli altri.
La pratica per sé
La pratica fondamentale consiste nella recitazione di Nam-myoho-renge-kyo che è il titolo del Sutra del Loto, Myoho-renge-kyo, preceduto da Nam (abbreviazione della parola sanscrita Namu che significa unirsi, dedicarsi a), e si chiama Daimoku. La pratica di supporto che si svolge mattina e sera consiste nella lettura di alcuni brani dei capitoli secondo e sedicesimo del Sutra del Loto, seguita dalla recitazione del Daimoku, e si chiama Gongyo.
La fede è essenziale, non una fede (cieca) ma “sperimentale” che cresce con l’esperienza e che si alimenta, si sviluppa e si rafforza attraverso la pratica e lo studio della teoria buddista, altro elemento indispensabile. Uno studio un po’ insolito in cui l’obiettivo non è una conoscenza fine a se stessa del Buddismo ma l’applicazione concreta nella propria vita degli insegnamenti di Nichiren Daishonin, riflettendo anche su un singolo brano o frase [nelle prossime puntate di questa serie si tratteranno i temi: Daimoku, Gongyo, la fede, lo studio, shakubuku, n.d.r.].
Fede, pratica e studio sono le tre componenti essenziali della pratica quotidiana individuale, l’impegno di ogni giorno. Si recita Gongyo alla mattina e alla sera per celebrare l’inizio e la fine della giornata, si recita Daimoku quando se ne ha la possibilità e si approfondisce lo studio, ciascuno al meglio delle sue possibilità. Personalmente ho basato i miei primi anni di pratica su un consiglio del presidente della SGI, Daisaku Ikeda, nel quale invitava a studiare una ventina di minuti ogni giorno. Ho conosciuto anche tante persone che, grazie a questo impegno, hanno iniziato a leggere avvicinandosi poi anche a letture di vario genere, acquisendo un doppio beneficio: oltre alla conoscenza della teoria buddista, seppur mai disgiunta dalla sua pratica, anche uno stimolo in più per arricchire l’esistenza.
È lo stesso Nichiren Daishonin a chiarire il legame fra fede, pratica (individuale e rivolta agli altri) e studio, nel Gosho La vera entità della vita:
«Esercitati nelle due vie della pratica e dello studio. Senza pratica e studio, non può esservi Buddismo. Devi non solo perseverare tu, ma anche insegnare agli altri. Sia la pratica che lo studio devono sorgere dalla fede. Insegna agli altri come meglio puoi, anche una sola frase o una sola parola» (SND, 4, 235).
La pratica per gli altri
E così, anche quando si è creato nelle nostre giornate lo spazio necessario per la recitazione di Gongyo e Daimoku, che a prima vista si crede il primo scoglio insuperabile, e si è cominciato a prendere il ritmo anche nello studio, si scopre che questo non è sufficiente per praticare correttamente, perché come ci spiega il Daishonin: «Devi non solo perseverare tu, ma anche insegnare agli altri». Insegnare agli altri significa condividere l’esperienza buddista con amici, parenti e conoscenti (shakubuku) – punto centrale nel Buddismo – e, in senso più esteso, si può intendere anche con il sostegno verso gli amici membri (recitare Daimoku con e per loro).
Mi vengono in mente parole come la “via del bodhisattva” (il modo di comportarsi del Budda fra gli esseri viventi, manifestando il rispetto profondo per ogni vita) e la rete di Indra che collega tutti gli esseri fra loro, centrali nella visione del Buddismo mahayana (grande veicolo). La difficoltà spesso deriva dal nostro atteggiamento mentale: io e gli altri visti su fronti opposti, che richiedono entrambi cure impegnative ed esclusive. Allora, se pratichiamo con lo scopo di risolvere una nostra sofferenza, a volte sembra di non avere lo spazio vitale per pensare “anche” agli altri: «Ora non è proprio il momento, lo farò quando starò bene», capita spesso di pensare in un’ottica dualistica. Ma la visione che propone il Buddismo capovolge questo assunto: l’io non è contrapposto all’altro, ma insieme si sostengono sul cammino per la manifestazione dell’Illuminazione reciproca. Anzi, è proprio grazie alla capacità di aprire la propria vita agli altri e di imparare a sentire anche le sofferenze (e le gioie) altrui, che si può conseguire la Buddità. Questo è ciò che hanno fatto Shakyamuni e Nichiren Daishonin. Ed è quello che si legge nel settimo capitolo del Sutra del Loto: «Se noi diventiamo Budda, lo stesso varrà per tutti gli esseri viventi» (SDL, 156).
In fondo, uno dei ricordi più belli, rimane e rimarrà senz’altro lo sguardo felice della mia amica Sara che mi ringrazia per averle donato la concreta possibilità di vivere in accordo con la Legge dell’universo e per aver scoperto con la pratica buddista l’immensa forza che possiede. «Ciò che dai a un altro diverrà il tuo stesso nutrimento, se accendi una lanterna a un’altra persona, la sua luce illuminerà anche il tuo cammino» (GZ 1598), scriveva Nichiren a un discepolo.