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La partita della vita - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

20 dicembre 2025 Ore 09:36

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    La partita della vita

    Essere un allenatore navigato al momento dell’incontro col Buddismo ha permesso ad Antonio di cogliere gli aspetti affini fra il mondo della fede e dello sport

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    Essere un allenatore navigato al momento dell’incontro col Buddismo ha permesso ad Antonio di cogliere gli aspetti affini fra il mondo della fede e dello sport

    Antonio Giacobbe è l’allenatore della squadra nazionale maschile di pallavolo della Tunisia, ha partecipato alla Coppa del Mondo in Giappone e alle recenti Olimpiadi e ha vinto nel 2003 la Coppa continentale africana. Lo scorso 10 aprile ha ricevuto al Centro culturale Italiano il premio Soka Sport Award a nome del presidente della SGI Daisaku Ikeda e del presidente della SG Einosuke Akiya come «apprezzamento dei suoi risultati in ambito sportivo e riconoscimento del suo grande contributo come credente nel Buddismo alla promozione della pace e della cultura».

    Redazione: Quando hai iniziato a praticare il Buddismo?

    Antonio: Avevo sentito parlare di Buddismo in varie occasioni, poi nel dicembre del 2001 sono stato invitato a una riunione. Mi sembrò tutto strano: dalle parole ripetute al comportamento dei partecipanti, ma quando iniziò la discussione fui colpito dalla spiegazione della legge di causa ed effetto. Per questo motivo iniziai a frequentare quelle persone e a tempestarle di domande. Fu per me una scoperta incredibile, un punto di vista diametralmente opposto al mio. Avere la responsabilità di quello che accadeva mi stimolava, una visione che trasformava l’individuo da passivo ad attivo, capace di controllare le proprie paure ed emozioni.

    Redazione: Trovi affinità fra il mondo della fede e quello dello sport?

    Antonio: Il Buddismo è vita quotidiana, lo sport può essere inteso come uno “spaccato” di vita in senso generale, quindi sarebbe fin troppo facile rispondere in maniera affermativa. Spesso, infatti, ho trasmesso nel mondo arabo, durante stages per allenatori, concetti buddisti come l’unità fra le persone (itai doshin) o di mente-corpo (shiki shin funi). Principi che si adattano perfettamente alla costruzione di una squadra vincente e alla conduzione di una corretta pratica sportiva.
    Nel Gosho si legge: «In quel momento i tre ostacoli e i quattro demoni invariabilmente appariranno: il saggio si rallegrerà, mentre lo stupido indietreggerà» (SND, 4, 128). Confesso che spesso ho trovato persone preoccupate di fronte a questa affermazione come se praticare correttamente fosse fonte di disgrazie da sopportare con “divina” rassegnazione.
    La mia vita nello sport mi ha aiutato a cogliere la bellezza e la validità di questo insegnamento del Daishonin. La scelta di praticare nasce dalla volontà di migliorare qualcosa che non sta funzionando, così come la scelta di allenarsi sorge dalla necessità di migliorare alcune qualità come la forza, la velocità, la destrezza, la coordinazione, la concentrazione. Allenarsi altro non è che apportare delle modifiche agli apparati (muscolare, circolatorio, respiratorio, nervoso ecc.) superando ostacoli e con tanto sforzo. L’affaticamento muscolare, i dolori articolari e lo stress di vario genere, sono la testimonianza che ci stiamo muovendo verso la meta che ci siamo prefissi. L’assenza di questi “segnali” vorrebbe dire che le tanto agognate modificazioni non stanno avvenendo. Più ci si evolve e più si ricercano “carichi” di lavoro idonei che non arrestino il processo di miglioramento. Chi decide di abbracciare la fede è un atleta che decide di partecipare al meraviglioso sport della vita e praticare è il modo migliore di allenarsi. Anche nel Buddismo o si vince o si perde.

    Redazione: La Tunisia è un paese arabo e musulmano. Hai incontrato difficoltà in quanto buddista?

    Antonio: Spesso i musulmani vengono dipinti in maniera particolare, specialmente in questi ultimi tempi, ma io sono veramente orgoglioso di vivere lunghi periodi in Tunisia. Tutta la squadra conosce il mio credo. I miei giocatori sono molto religiosi e pregano cinque volte al giorno, e per questo abbiamo stabilito di modellare i nostri orari di lavoro sugli orari della preghiera. Siamo arrivati a una grande comprensione reciproca, spesso preghiamo negli stessi momenti. Per esempio durante un viaggio mentre ci trovavamo in aeroporto, sono entrato nel bagno e ho trovato i giocatori che si lavavano i piedi; loro si sono accorti del mio disappunto ma da questo è nata l’idea comune di cercare uno spazio per pregare. E così è stato. Loro hanno tirato fuori i loro tappetini e tutti assieme ci siamo messi a pregare, ognuno con la sua fede. Io non ho mai avuto nessuna difficoltà a dire che sono buddista.

    Redazione: Il Giappone è un paese molto differente sia dall’Italia che dalla Tunisia. Che cosa ti ha colpito quando vi siete recati a giocare la Coppa del Mondo?

    Antonio: Sono andato a giocare in Giappone per la Coppa del Mondo con la squadra nazionale tunisina e alla fine sono stato intervistato per il quotidiano Seikyo Shimbun. Sono andato in un bellissimo edificio, la sede del giornale, dove lavorano molte persone, e quando sono entrato e sono stato presentato come l’allenatore della Tunisia, anche se due giorni prima avevamo battuto il Giappone, tutti hanno applaudito fragorosamente, tanto che in quel momento mi sono commosso. Telefonai subito a mia moglie a casa profondamente emozionato, quasi non riuscivo a parlare e a trasmetterle ciò che provavo.

    Redazione: Ci puoi raccontare una delle esperienze sportive che ricordi in modo particolare?

    Antonio: Alla Coppa del Mondo la squadra tunisina era tra le prime dodici squadre e fra i nostri avversari c’erano Italia, Francia, Giappone, Stati Uniti, Russia, tutti avversari che ci sovrastavano da un punto di vista tecnico. Per un allenatore di lunga data come me, che si è sempre ispirato a scuole come quella giapponese, doversi confrontare con loro rappresentava un momento di estrema tensione, volevo in tutti i modi riuscire bene. Ricordo che l’inizio di questa manifestazione fu eclatante. Contro la Francia, che era stata medaglia di bronzo agli ultimi campionati mondiali in Argentina – dove c’eravamo anche noi – riuscimmo a giocare benissimo. Vincevamo 2 a 0. Mi sentivo così tranquillo e sereno che probabilmente smisi di trasmettere la giusta tensione alla squadra e questo appagamento anticipato fece sì che i giocatori si sedessero, soddisfatti del buon inizio. Il risultato: alla fine abbiamo perso per un’inezia al tie break.
    La stessa cosa si era prospettata contro il Giappone, avevo una grande paura prima di cominciare, cosa che purtroppo credo di aver trasmesso alla squadra: eravamo tutti preoccupati. Gli atleti davanti a noi erano di grande spessore tecnico, abbiamo giocato bene il primo set ma lo abbiamo perso, e così è successo al secondo set. Avevamo una buona determinazione in campo e dimostravamo di reggere bene la partita tecnicamente ma comunque erano sempre gli altri alla fine a vincere.
    Ci sono stati dieci minuti di sospensione pubblicitaria e siamo tornati negli spogliatoi, io ho parlato un po’ alla squadra ma avevo sempre in mente la partita precedente con la Francia e non volevo accontentarmi come mi era successo in quell’occasione, quindi cercavo di trasmettere loro una maggiore concentrazione. Siamo tornati in campo e le cose sono andate un po’ meglio tant’è che abbiamo vinto il set successivo – quindi 2 a 1 per il Giappone – e i giapponesi cominciarono ad avere qualche problema, riuscivamo a dargli un po’ noia, tant’è che abbiamo vinto anche il set successivo, passando a 2 pari.
    La mia mente ritornava ad acquietarsi, a non andare oltre, era già abbastanza. Cosa si poteva fare di più? In quel momento è successo qualcosa, ho smesso di dare consigli tecnici, e questo forse è stato un bene, perché come tutti gli insegnanti quando parliamo non trasmettiamo solo quello che diciamo, ma anche le emozioni. Avevo paura di trasmettere questa sensazione di appagamento che continuavo a provare. Allora mi sono messo a recitare Daimoku affidandomi completamente al Gohonzon, non per vincere la partita, ma per liberarmi dal dominio della mente. I giocatori mi guardavano, anche se sono abituati a parole strane perché quando mi arrabbio… parlo in italiano. Vi garantisco che non ho più trasmesso questa grossa tensione che mi attanagliava e gli atleti hanno giocato benissimo. Abbiamo vinto incredibilmente al tie break 15 a 10, quindi un vero successo!
    Questa è stata una grandissima esperienza. Mi ha fatto capire che se noi riusciamo – purtroppo non è sempre facile – a non pensare che tutti i limiti che ci impone la mente siano invalicabili, possiamo veramente andare oltre.

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