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La pace siamo noi - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 11:30

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La pace siamo noi

Nella riflessione sull’ultima Proposta di Pace di Daisaku Ikeda una chiave per costruire un mondo pacifico e creativo, dentro e fuori di noi, attraverso un modo diverso di accostarsi a tutte le nostre occasioni quotidiane di relazione umana

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Nella riflessione sull’ultima Proposta di Pace di Daisaku Ikeda una chiave per costruire un mondo pacifico e creativo, dentro e fuori di noi, attraverso un modo diverso di accostarsi a tutte le nostre occasioni quotidiane di relazione umana

Nella proposta di pace 2004, Daisaku Ikeda individua nell’autocontrollo un elemento fondamentale per realizzare un mondo pacifico. L’autocontrollo non è però inteso come l’applicazione del galateo o una raffinata tecnica per censurare le proprie pulsioni aggressive, ma è un comportamento che nasce dalla «viva coscienza dell’umanità degli altri, coscienza che io ritengo essere l’essenza stessa della civiltà» (Buddismo e Società, n. 103, pag. 13). La visione del mondo di Ikeda è delineata qui con estrema chiarezza: tutto ciò che esiste è collegato in una rete di relazioni nella quale ogni forma di vita ha eguale dignità. Esserne consapevoli significa rendersi conto che ogni altra persona, in qualunque condizione la si incontri, è espressione dell’umanità che accomuna gli esseri viventi, e in quanto tale degna di rispetto. L’essenza della civiltà è vivere con questa consapevolezza sempre presente.
C’è un esempio storico che ci mostra come non si tratti di pure elaborazioni filosofiche, ma di un modo di considerare la vita che ha delle applicazioni concrete di straordinaria portata. Mi riferisco all’opera della Commissione per la verità e la riconciliazione sudafricana, che ha cercato di sanare le ferite di una nazione nella quale oppressori e oppressi dovevano imparare a convivere pacificamente dopo decenni di violenza inaudita. Il principio-cardine del lavoro della Commissione, evidentemente largamente condiviso dalla popolazione, è quello dell’ubuntu. Desmond Tutu, che ha presieduto quella Commissione, cerca di spiegarlo con queste parole: «Ubuntu è molto difficile da rendere in lingua occidentale. È una parola che riguarda l’intima essenza dell’uomo. […] È come dire: “La mia umanità è inestricabilmente collegata, esiste di pari passo con la tua”. Facciamo parte dello stesso fascio di vita» (Desmond Tutu, Non c’è futuro senza perdono, Milano, Feltrinelli, 2001, pag. 32). Allora intervenire in maniera non rispettosa, violenta, nei confronti dell’altro significa provocare una lacerazione in questo tessuto che è la vita, e dunque provocare una ferita, un trauma che colpisce noi e l’altro con la stessa intensità.
Ubuntu, in termini buddisti, significa che la compassione nasce da engi, cioè dalla consapevolezza di essere forme diverse di una stessa vita comune. Sono come le due facce di una medaglia: più mi stanno a cuore le vicende degli altri, più percepisco il legame che unisce ogni esistenza in un’unica vita; e viceversa, più mi sento parte di tutto ciò che vive, più sono coinvolto dalla vita altrui. Il continuo approfondimento di questo processo conduce a comportamenti sempre più rispettosi dell’altro e genera azioni di pace. Per questo i costruttori di pace come Ikeda e Tutu dichiarano in ogni occasione che la realizzazione della pace dipende dall’impegno in questa direzione da parte di ognuno di noi. Entrambi nutrono una fiducia ferma e profonda nelle potenzialità costruttive di ogni essere umano. Tanto che Ikeda indirizza la sua proposta di pace alle persone comuni, alla ricerca di un terreno concreto d’azione, nella convinzione che reagendo al sentimento di estraneità e di impotenza e attivando invece la partecipazione si possa invertire la rotta attuale verso il conflitto, la disarmonia e l’ostilità fra esseri umani. Per dirlo con parole sue: «Qualunque tentativo di affrontare i problemi globali senza prendere pienamente in considerazione la nostra realtà immediata non costituirà mai una soluzione definitiva. In quest’ottica, credo fortemente nel valore delle azioni intraprese da ognuno di noi per fare il primo passo dal punto in cui ci troviamo proprio ora» (Buddismo e Società, n. 103, pag. 18).
Ora che le forze in campo sono indirizzate in senso pesantemente distruttivo, Ikeda non procede però a un’analisi sociologica o storica, ma ne ricerca la causa nell’orientamento verso la vita degli individui che costituiscono il tessuto di questa società. Scrive infatti: «Credo che vi sia nelle persone una sorta di erosione e putrefazione progressive della radici della consapevolezza del significato della propria umanità, cioè del modo in cui gli individui si definiscono e si relazionano a chi è differente da loro» (Ibidem, pag. 14). E qui il cerchio si chiude, nel senso che è la perdita della “viva coscienza dell’umanità” l’origine di tutti i conflitti che stiamo vivendo attualmente. Perciò l’indicazione di Ikeda sulla centralità dell’autocontrollo va considerata molto attentamente, perché è la chiave di volta per avviare un processo che favorisca e acceleri l’affermazione della pace.
Il termine autocontrollo evoca immagini di autocensura, limitazioni imposte a se stessi per non incorrere in punizioni, capacità di dissimulare i propri sentimenti e comunque immagini legate alla forza di volontà diretta al contenimento delle emozioni. Ikeda propone invece l’autocontrollo come possibilità di sperimentare pienamente le proprie potenzialità. Sempre nella proposta di pace scrive infatti: «L’io richiede l’esperienza dell’altro. Non possiamo impegnarci con l’altro in maniera efficace e produttiva se manchiamo di tensione interiore, della volontà e della forza spirituale per guidare e controllare le nostre emozioni. È riconoscendo ciò che è esterno da noi, percependo la resistenza che offre, che siamo ispirati a esercitare l’autocontrollo che permette alla nostra umanità di realizzarsi. Perdere di vista l’altro significa perciò compromettere la piena esperienza dell’io» (Ibidem, pag. 15). Secondo Ikeda quindi è attraverso l’impegno a modulare il nostro comportamento a seconda della resistenza che offre il nostro interlocutore che possiamo sviluppare pienamente le nostre potenzialità. Ciò presuppone una concezione assolutamente realistica delle relazioni umane: “altro da me” significa opinioni, comportamenti e stati d’animo diversi, dunque “resistenza” verso le mie opinioni, comportamenti e stati d’animo. L’aspettativa che sempre si nutre di trovare un’accoglienza docile e sottomessa alla propria volontà o alle proprie parole è dunque una circostanza assai improbabile. Questo presupposto induce a confrontarsi con gli altri in maniera cauta e riguardosa, ma soprattutto creativa. Nel senso che la resistenza dell’altro ci porta a cercare all’interno di noi stessi la comprensione delle sue motivazioni, delle sue condizioni e quindi a muoverci poi in modo da trovare un’intesa che comporta comunque una nostra maturazione. L’autocontrollo è allora veramente la manifestazione non dell’autocensura, ma della libertà e creatività dell’individuo, che può muoversi in ogni ambiente e circostanza senza limitare la sua vita a una nicchia di relazioni consolidate con persone affini.
Una sollecitazione molto stimolante in questa direzione ci è stata proposta due anni fa in questo stesso giornale da Greg Martin, vicedirettore generale della SGI-USA. Martin tratta infatti il tema delle nostre relazioni con gli altri in questi termini: la vita è un viaggio e ogni persona può affrontarlo guidando personalmente la propria vettura o lasciando che siano gli altri a farlo. «Quante volte avete detto: “Mi fai arrabbiare. Smettila!”. Questa è la voce di un passeggero. In realtà state dicendo: “Tu hai il potere sulle mie emozioni. Non ho io il controllo. Tu sei responsabile della mia rabbia e finché continui a fare così, continuerò a essere arrabbiato. Smettila!” E la vita è diventata quella di un passeggero. Dovete manipolare il comportamento degli altri, dargli istruzioni, fargli fare quello che volete che facciano e così le emozioni saranno sotto controllo. Ma questo è un modo stupido di pensare e non c’è da meravigliarsi se, in questo modo, avete affidato il volante a qualcun altro. E vi sentite frustrati e pieni di rabbia perché non guida nella maniera giusta. Riprendete voi il volante, cominciate a guidare e a dirigere la vostra vita. Siete responsabili della forza più importante nell’universo e avete voi il potere di scegliere la vostra condizione vitale» (Il Nuovo Rinascimento, n. 264, agosto 2002, pag. 23). Prosegue poi affermando che ognuno di noi ha sempre a disposizione dieci scelte, cioè dieci stati vitali, e finché pensa di non averne è inchiodato nei mondi bassi e dunque è solo un passeggero della propria vita. «Nam-myoho-renge-kyo riguarda l’istante, lo scegliere il momento, scegliere ogni singolo momento dell’esistenza. Acquistare forza e controllare le proprie scelte. Non si possono costringere gli altri e neanche controllare il loro comportamento. Ed è una buona cosa perché con l’unica persona di cui avete il controllo non state facendo un gran bel lavoro. Assumete il controllo della vostra vita, aspirate alla grandezza: è dentro di voi» (Ibidem).
In questa chiave si concretizza l’analisi di Ikeda sul fare piena esperienza dell’io attraverso la relazione con gli altri, cioè utilizzare ogni altrui resistenza per rafforzare la nostra capacità di scegliere lo stato vitale con cui metterci in contatto con le altre persone e, attraverso questo allenamento, diventare veramente persone libere. Ikeda ci propone una forma di libertà che è esattamente il contrario di quella autoindulgente, consumistica e indolente che spesso immaginiamo. È una libertà intessuta di compassione, nella quale siamo coscienti di problemi e sofferenze nostre e altrui, ma niente ci porta a ritrarci perché sappiamo di poter affrontare ogni difficoltà facendo ricorso a un potenziale illimitato che è dentro di noi. Scrive Ikeda: «Perciò il punto di partenza della visione del mondo buddista è l’insistenza di Shakyamuni sul fatto che la vera felicità – la gioia che sgorga dalla profondità della vita – può essere sperimentata solo quando resistiamo all’impulso di allontanarci dalla sofferenza degli altri e invece l’affrontiamo come se fosse la nostra» (Buddismo e Società, n. 103, pag. 24). Tutto questo è possibile a condizione che alimentiamo e consolidiamo la fede nella natura di Budda di tutte le persone. Sempre Ikeda, nel secondo volume del Mondo del Gosho, ci tranquillizza a questo proposito. Può sembrare una meta irragiungibile, un modello di comportamento troppo distante da noi, ma quello che è importante, anche quando ci sentiamo offesi o risentiti dal comportamento altrui, è «continuare a pregare credendo fino in fondo nella natura di Budda delle persone, qualunque cosa accada. Continuare a comportarsi in base a tale convinzione è la dimostrazione della nostra umanità come buddisti» (pag. 137). Che sarebbe poi il vero significato dell’apparizione del Budda Shakyamuni in questo mondo e dunque l’essenza stessa del buddismo, come abbiamo più volte studiato. Attraverso la Proposta di pace 2004 Ikeda ci sollecita a rimotivare la nostra scelta, a rinnovarla, comprendendo che ogni nostra relazione con gli altri può ostacolare o favorire, ritardare o accelerare l’affermazione della pace.

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Gli introvabili

Ma dove ho letto quella frase?

Come abbiamo visto, anche se uno manca di conoscenza, finché recita Nam-myoho-renge-kyo eviterà i cattivi sentieri. È come il fiore del loto che si volge al sole pur non avendo una mente che lo guidi, o come il platano, che cresce grazie al rumore del tuono benché non abbia orecchie per udirlo. Noi siamo come il loto e il platano, e il Daimoku del Sutra del Loto è come il sole o il tuono.
Si dice che legandosi addosso un pezzo di corno di rinoceronte e immergendosi nell’acqua, l’acqua rimanga lontana dal corpo almeno cinque piedi. Si racconta inoltre che una sola foglia dell’albero di sandalo potrà annullare per un raggio di quaranta yojana l’odore disgustoso dell’albero di eranda. Il nostro cattivo karma può essere paragonato all’albero di eranda o all’acqua e il Daimoku del Sutra del Loto al corno di rinoceronte o alla foglia dell’albero di sandalo.
I diamanti sono così duri che non esiste materia in grado di tagliarli, tuttavia lo si può fare con un corno di montone o con un guscio di tartaruga. I rami dell’albero di nyagrodha sono così robusti che persino i più grandi uccelli vi si possono appollaiare senza spezzarli. Ma l’uccello sarto che pure fa il nido sulle ciglia di una zanzara, è capace di romperli. Il nostro cattivo karma è paragonabile al diamante o all’albero nyagrodha, e il Daimoku del Sutra del Loto al corno di un montone o all’uccello sarto. L’ambra attira la polvere e la calamita le particelle di ferro; il nostro cattivo karma è come la polvere e il ferro, e il Daimoku del Sutra del Loto è come l’ambra o la calamita. Considerando ciò, dovremmo recitare sempre Nam-myoho-renge-kyo.

(Il Daimoku del Sutra del Loto, SND, 5, 28-29)

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