Laura Fumi ha cercato la sua strada con la forza di chi estrae acqua dal deserto. E quando l’ha trovata ha fatto di tutto per diffondere una cultura dell’infanzia e dei diritti dei bambini perché ogni bimbo sia considerato un individuo speciale col suo modo unico di vedere il mondo
Laura, tu lavori con i bambini?
Direi “per” i bambini: sono nel Coordinamento pedagogico centrale dei Servizi educativi e scolastici della città di Roma, un team di otto persone che si occupa di progettazione pedagogica, promozione e monitoraggio della qualità educativa, inclusione della diversità (bambini diversamente abili e stranieri) e formazione del personale nei nidi e nelle scuole dell’infanzia, che accolgono bambini di età compresa tra zero e sei anni. Per quattordici anni ho lavorato come coordinatrice di nidi e scuole dell’infanzia, acquisendo un’esperienza sul campo che ora sto utilizzando nel mio nuovo ruolo.
Desideravi fare proprio questo?
È qualcosa che è nato col tempo da quando ho iniziato a praticare il Buddismo. Sono stata un’adolescente problematica: a sedici anni nonostante i buoni risultati, ho abbandonato la scuola e per quattro anni ho lavorato in fabbrica, in campagna, in teatro, ho fatto le pulizie e altro ancora. Volevo girare il mondo. A vent’anni ho iniziato a praticare e mi sono resa conto che avevo poco in mano. La mia inquietudine aveva origine da una grande sensibilità nei confronti dei problemi del mondo: volevo fare qualcosa, tuttavia mi sentivo totalmente impotente, per cui alla fine decidevo di evadere. Da quando ho iniziato a praticare il Buddismo questa esigenza di dare il mio contributo alla società è diventata più forte. Dopo un anno ho deciso di riprendere gli studi, ho fatto quattro anni in uno, mi sono diplomata come assistente alle comunità infantili, ho cominciato a lavorare nei nidi. Poi mi sono iscritta all’università, laureandomi in Sociologia con indirizzo antropologico e una tesi sull’infanzia. In quegli anni ho lavorato come segretaria in un ufficio, esperienza fondamentale per darmi delle basi di carattere amministrativo. Mi sono servite tantissimo anche le attività nella Soka Gakkai: Divisione giovani donne, byakuren, redazione, segreteria. Tutte hanno contribuito a farmi acquisire una capacità organizzativa utile poi nel mio lavoro. Nel 1996, vincendo un concorso, sono entrata a lavorare nel Comune di Roma come educatrice di nido. Potevo cominciare a dare il mio personale contributo al cambiamento della società.
Che cosa intendi per tuo personale contributo?
Ho sempre pensato ai bambini che mi venivano affidati come a futuri adulti felici. Nel nido ci sono bambini da zero a tre anni che hanno bisogno di essere compresi fino in fondo come persone. Ho sempre fatto di tutto per colmare il loro bisogno di affettività e di relazione e ho dato il massimo per rispondere alle loro curiosità e bisogni di esplorazione e conoscenza del mondo. Quel che m’interessa nell’educazione dei bambini così piccoli è la loro propensione a interpretare il mondo, a costruire idee e teorie su ciò che hanno intorno. Ho sempre cercato di essere di sostegno allo sviluppo delle loro potenzialità umane, predisponendo un ambiente stimolante, offrendo loro esperienze ricche di significato, ascoltandoli e rispondendo alle curiosità e ai bisogni di ognuno: lavoro faticoso che richiede una grande dedizione, ma che ripaga abbondantemente.
Come si è evoluto il tuo impegno?
Quando iniziai a lavorare decisi di impegnarmi al massimo per cinque anni, per poi fare un ulteriore passo avanti nel diffondere una cultura dell’infanzia e dei diritti dei bambini. Mi impegnai anche al di fuori dell’ambito del nido, partecipando a convegni e seminari, continuando la mia formazione. Organizzai nel nido giornate sui diritti dell’infanzia, considerando il servizio educativo non solo un luogo per i bambini, ma anche uno spazio che crea e diffonde la cultura dell’infanzia per i genitori e per i cittadini. Per questo ho collaborato alla rivista Bambini a Roma, che accoglieva esperienze di educatrici e interviste a pedagogisti, introducendo una rubrica di interviste a genitori immigrati: considero il nido un luogo privilegiato per l’integrazione, un’occasione per l’istituzione di farli entrare in contatto con una comunità accogliente e attenta alla loro cultura. In un’intervista, una mamma proveniente dal Marocco disse che considerava il nido “una seconda casa”. Questo è vero anche per altre forme d’isolamento, sempre più frequenti nelle giovani coppie italiane, spesso lontane dalla famiglia d’origine: il nido diventa un sostegno alle famiglie in difficoltà perché facilita lo scambio tra genitori.
Allo scadere esatto dei cinque anni ho vinto due concorsi e nel settembre del 2001 sono diventata coordinatrice di Scuola dell’infanzia. È stato un lavoro fantastico: la mia determinazione era far rinascere le scuole che si trovavano in stato di abbandono e farle diventare luoghi in cui si facesse educazione di qualità.
Ci sei riuscita?
In gran parte sì, ma il miglioramento è un processo senza fine, soprattutto in campo educativo. Quando sono arrivata non esisteva neanche un ufficio vero, ma solo uno spazio ricavato nell’atrio, con un armadio scassato accanto a un mucchio di sacchi neri della spazzatura, impolverati e pieni di carte. Quello era l’archivio della scuola! E da molto tempo le insegnanti non venivano formate. Fortunatamente l’inserimento della mia figura di coordinatrice ha coinciso con il momento in cui l’Amministrazione comunale intendeva dare impulso alla scuola dell’infanzia e ai servizi educativi in generale e si parlava di “città a misura di bambine e bambini”. Perciò ho messo tutta me stessa nel motivare il personale insegnante e nel migliorarne le prestazioni, basandomi soprattutto su ciò che il presidente Ikeda dice di fare come leader di kosen-rufu. Era come se dovessi tessere una tela meravigliosa di cui ogni tanto perdevo un punto, perché non tutte le educatrici si impegnavano con la stessa passione, e dovevo tornare a motivarle e incoraggiarle più volte. È un lavoro relazionale di alto spessore, in cui la fatica principale consiste nell’essere costantemente concentrati sul costruire buone relazioni con e tra le insegnanti e con i genitori. Ho sempre sentito l’importanza del ruolo genitoriale anche per il futuro della nostra società e in questi venti anni di lavoro mi sono impegnata in infiniti dialoghi con i genitori. In particolare mi sono dedicata all’accoglienza e al sostegno delle famiglie con bambini diversamente abili. È nei servizi all’infanzia che spesso i genitori prendono consapevolezza delle difficoltà del loro bambino. È un momento devastante per loro, hanno bisogno di essere rassicurati, di sentire che la scuola ha preso in carico il loro problema e che non sono soli. Ho seguito personalmente ogni caso, collaborando con le insegnanti e le strutture sanitarie per garantire a ogni bambino in difficoltà un percorso educativo che lo aiutasse a progredire e a vivere piacevolmente la socialità. Nel tempo, le scuole da me coordinate sono diventate quelle più scelte dai genitori di bambini disabili.
Com’è adesso il tuo lavoro?
Oggi lavoro su un territorio più ampio, perciò ho una visione più globale della situazione a livello cittadino. Sto cercando di portare tutto quello che ho imparato e sperimentato in questi anni nei luoghi dove si prendono le decisioni, tuttavia sono consapevole di avere ancora tanto da imparare in questo nuovo ruolo. Il mio obiettivo, che è diventato un obiettivo dell’Amministrazione, è quello di realizzare Coordinamenti pedagogici a livello dei singoli Municipi, per garantire a tutti un buon livello di qualità dei servizi all’infanzia e per realizzare progetti educativi specifici per ogni realtà territoriale. Ad esempio in alcuni territori c’è il problema dell’integrazione delle famiglie immigrate, in altri sono più presenti bambini con disabilità: si possono realizzare progetti specifici mettendo in atto una sinergia con le risorse dei quartieri.
Da quanti anni pratichi il Buddismo?
Dal 1984, quindi trentadue anni. Prima pensavo sempre che volevo sentirmi “speciale”, ora credo che sia “speciale” quello che faccio solo perché l’ho costruito col Daimoku, mattoncino su mattoncino. Quando ho ricominciato l’università non è stato facile. Riprendere i libri in mano è stata una grande fatica, studiavo col vocabolario accanto perché volevo approfondire, andando fino al nocciolo di quello che leggevo. Ho studiato con dedizione incredibile, alternando lo studio al Daimoku. C’era anche un grande impegno emotivo, perché il non aver frequentato il liceo mi faceva vivere l’esperienza universitaria con un senso di inferiorità tremendo nei confronti degli altri studenti, e in più lavoravo. Ho fatto tutto con la determinazione di “estrarre l’acqua dal deserto”, attingendo dalle risorse del Daimoku. Ricordo che quando recitavo per superare gli esami mi veniva sempre fuori la sofferenza di non avere una strada nella vita. Volevo assolutamente trovare la mia strada.
Quindi ai giovani diresti…
Di gettarsi con impegno in tutto quello che fanno, cercando di dare il massimo in ogni cosa. Con questo atteggiamento nessuna esperienza sarà inutile e tutto concorrerà alla loro formazione, alla costruzione della loro strada nella vita.
Obiettivi futuri?
Desidero creare un buon servizio pubblico nel campo educativo. Voglio adoperarmi ancora perché i servizi educativi pubblici di Roma siano il fiore all’occhiello della mia città, affinché alla domanda: «Cosa funziona bene a Roma?» la risposta sia: «I servizi educativi».